Cefalonia, ergastolo per Alfred Stork l’ex nazista che sparò agli ufficiali italiani

Ergastolo per Alfred Stork, l’ex nazista novantenne che a suo tempo aveva confessato di aver preso parte alle fucilazioni degli ufficiali della divisione Acqui a Cefalonia nel settembre del 1943. La condanna è del Tribunale militare di Roma, seconda sezione presieduta da Antonio Lepore, dove si è concluso il processo all’ex caporale che vive in Germania a Kippenheim.

«COMODAMENTE A CASA» – L’ex caporale maggiore Stork «non ha avuto il coraggio di mantenere ferma la sua ammissione di colpa, restando comodamente nella sua casa in Germania», aveva detto il procuratore militare Marco De Paolis, che aveva poi elencato le numerose testimonianze che hanno indicato Stork come uno di quelli «che fucilò l’intero stato maggiore della Acqui», nel settembre 1943. La sentenza del Tribunale militare è la prima sentenza emessa in Italia sulla strage di Cefalonia, finora infatti i precedenti giudizi si erano conclusi in archiviazioni o per morte dell’imputato come nel caso del Maresciallo Otmar Muhlhauser.

L’AMMISSIONE – Alfred Stork ex caporale dei Cacciatori di montagna (Gebirsgjager), ascoltato otto anni fa dai magistrati tedeschi, aveva comunque ammesso di aver fatto parte di uno dei plotoni di esecuzione attivi nei pressi della cosiddetta Casetta Rossa, il 24 settembre. «Ci hanno detto che dovevamo uccidere degli italiani, considerati traditori», disse. Alla Casetta Rossa gli ufficiali giustiziati furono 129 (altri sette vennero ammazzati il giorno successivo per rappresaglia) da parte di due plotoni.

73 UFFICIALI – Quello di Stork, sparò dall’alba al pomeriggio lasciando sul terreno 73 ufficiali, come afferma lo stesso imputato. In quella testimonianza resa in Germania Stork aveva anche aggiunto particolari agghiaccianti: «I corpi sono stati ammassati in un enorme mucchio uno sopra l’altro… prima li abbiamo perquisiti togliendo gli orologi, nelle tasche abbiamo trovato delle fotografie di donne e bambini, bei bambini».

CORPI ANCORA INSANGUINATI – Dure le parole di Marcella De Negri, figlia del caduto Francesco, parte civile nel processo: «Questo frugare nei corpi ancora sanguinanti, nelle tasche di divise dalla giacca slacciata (a cui erano stati tolti i bottoni che avrebbero potuto deviare i colpi dei fucili) per portar via gli oggetti di valore e tenere fra le mani quelle fotografie di bambini, “belli”, e donne che mai più avrebbero rivisto i loro cari massacrati, mi ha convinto alla costituzione di parte civile».

PRIMA SENTENZA STORICA – Soddisfazione per l’avvocato dello stato Luca Ventrelli: «E’ andata come doveva andare, questa è la prima sentenza su Cefalonia di qualsiasi tribunale». Il procuratore De Polis aggiunge: «E’ di fatto, dopo Norimberga, la prima in Europa su Cefalonia». De Paolis ha altri fascicoli su cui sta lavorando e riguardano le stragi naziste in Grecia, a Kos e a Leros, ma anche in Albania. Un fascicolo è aperto anche su ex militari italiani, riguarda la strage di Domenikon, un villaggio della Grecia interna.  (da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Moretto, l’ebreo ribelle

Quando il 16 ottobre 1943 i tedeschi imprigionarono gli ebrei di Roma ne sfuggì loro uno, che continuerà a braccarli fino all’arrivo degli alleati. Questa è la storia di Pacifico Di Consiglio, detto Moretto, l’ebreo romano che di fronte alle persecuzioni scelse di battersi. Nasce nel 1921 in una famiglia povera, cresce senza il padre e quando a 17 anni viene discriminato dalle Leggi razziali reagisce iscrivendosi ad una palestra di pugilato, assieme all’amico Angelo Di Porto. Battersi sul ring lo aiuta a sfogare la rabbia e anche ad allenarsi perché davanti ai fascisti non abbassa gli occhi.
A via Arenula lo conoscono tutti. Nel luglio del 1943 sfilano i gagliardetti, impongono il saluto e lui lo rifiuta. Una camicia nera lo affronta, tenta di colpirlo ma lui è più veloce. La seconda volta finisce nella stessa maniera. Lo inseguono e lui si dilegua a Trastevere, che è casa sua. Quando il Gran Consiglio rovescia Mussolini, va a cercare i fascisti nella sede di piazza Mastai.
All’arrivo dei tedeschi l’8 settembre parte verso le Marche, assieme a cinque amici, e quando vengono a sapere della razzia del 16 ottobre torna indietro. Arriva a Roma a piedi, si finge sfollato andando ad abitare in una vecchia casa in via Sant’Angelo in Pescheria. Gira per Portico d’Ottavia trasformato in deserto, guarda le case vuote dove prima vivevano parenti, amici, compagni di scuola. E decide di restare.
Sfida la sorte andando ad abitare nella sua vera casa. Vive sotto il naso di tedeschi e bande fasciste che mangiano al ristorante «Il fantino». Ne studia i movimenti e quando può, anche da solo, li aggredisce. Usa le armi da fuoco, che sa usare e smontare.
La polizia fascista gli dà la caccia e l’1 aprile lo cattura, grazie ad una spiata. Lo portano al comando di piazza Farnese assieme ad altri quattro ebrei. Sa cosa lo aspetta. Finge un malore, si fa portare in una stanza con la finestra e salta dal secondo piano. Lo seguono Salvatore Pavoncello, Angelo Di Porto e Angelo Terracina. Non lo fanno Angelo Sed ed un altro, entrambi moriranno ad Auschwitz. La caduta è pesante, si rompe un polso, arriva a Monteverde con un amico sulle spalle e si nasconde in un garage. Cammina per la città a piacimento, pur sapendo di essere braccato.
I tedeschi lo prendono a corso Vittorio e lo portano alla Magliana. Sa che vogliono ucciderlo ma sul retro dell’auto militare c’è un tubo di ferro. Quando aprono le porte per farlo scendere, è lui che li sorprende, colpendoli a sangue, per fuggire ancora.
I tedeschi gli attribuiscono l’uccisione, con armi e a mani nude, di più militari ed SS. Davanti al bar Grandicelli lo bloccano e finisce a via Tasso. L’interrogatorio è brutale. Vogliono sapere dove si trovano altri ebrei, ma lui non parla. «Finì che avevo le ossa rotte, ero coperto di sangue» ricorderà.
Trasferito a Regina Coeli il 4 maggio 1944, vi resta fino al 20, quando lo fanno salire con altri ebrei su camion diretti al Nord. E’ l’inizio della deportazione. Appena in aperta campagna, Moretto non ci pensa due volte. Si getta sfruttando una curva ampia. Lo segue il cugino Leone, 20 anni, che viene falciato dalle mitragliate.
Moretto non va a Sud, dove ci sono gli alleati, ma torna a Roma. E’ un amico non ebreo di Testaccio che gli dà rifugio. Si unisce ai partigiani e su ordine del Comitato di liberazione presidia Ponte Sublicio per evitare che i tedeschi possano minarlo. Fino all’arrivo degli alleati. Moretto va loro incontro il 3 giugno, aiutandoli a eliminare i cecchini tedeschi. Da quando Roma diventa libera ha bisogno di un anno per venire a sapere dei lager, della fine di famigliari e amici. Sceglie di trasmettere alle nuove generazioni la determinazione a battersi a viso aperto. «Per dimostrare che la nostra comunità è fatta non solo di lacrime e sangue ma di coraggio e orgoglio» come riassume la moglie Ada, detta «Anita» in omaggio al carattere garibaldino di Moretto, scomparso nel 2006. (di Maurizio Molinari “La Stampa”)

Commemorazione della battaglia del Parauro

La ‘Battaglia del Parauro’, tra le formazioni Partigiane e le milizie fasciste, è stata una delle più violente e sanguinarie; avvenuta l’11 ottobre del 1944 nelle campagne tra Briana (Noale) e San Dono (Trebaseleghe).
Le ‘brigate nere’,  provenienti da Padova, Treviso e Venezia, convogliarono in massa, alla volta del Parauro, con l’intenzione di annientare i gruppi partigiani presenti in quell’area.
Nello scontro persero la vita i partigiani ‘Garibaldini’ e di ‘Giustizia e Libertà’: Aiello Cosimo, Bordoni Amleto, De Cesaro Silvio e Zucca Antonio, mentre, dai racconti dei testimoni, tra le fila fasciste i morti sarebbero stati oltre la ventina, con moltissimi feriti.

Ai partigiani caduti va l’onore degli Eroi per il loro sacrificio in nome della liberazione dal nazi-fascismo!

Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma

Il regista Carlo Lizzani è morto suicida a Roma. Si è gettato dal balcone di casa, al terzo piano di via dei Gracchi intorno alle 15. Aveva 91 anni. In questo brano il regista racconta la sua adesione al Partito Comunista e alla Resistenza nella Roma occupata del 1943. Il testo è tratto da “Guida alla Roma ribelle”.

Era il 7 novembre del 1943. Roma stata appena occupata dai tedeschi, eravamo dopo l’8 settembre. Io e altri due compagni, Renato Mordenti e Marcello Bollero, avevamo deciso con altri gruppi di antifascisti di fare delle scritte per inneggiare all’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, che cadeva appunto in quel giorno. La lotta armata ancora non era nata a Roma. C’erano le prime formazioni dei Gap ma non erano attive. Ci dividemmo per quartieri. A noi tre toccò la zona del centro. Decidemmo di scrivere, a vernice rossa, oltre che “Viva il 7 novembre” anche “Viva Rosa Luxemburg” e “Viva Karl Liebknecht”. Era una mia idea, pensavo che quelli che avevano occupato Roma erano soldati tedeschi, che il nazismo c’era da appena dieci anni, dal 1933, e che magari quei nomi gli avrebbero ricordato i comunisti tedeschi e la tentata rivoluzione nel loro paese. Erano due nomi piuttosto complicati e soprattutto un po’ lunghi da scrivere. A Roma cominciava il coprifuoco e la luce era sempre più scarsa anche perché si faceva economia sull’energia elettrica. Facemmo parecchie scritte, risalendo fino a via Nazionale, più o meno all’altezza di via delle Quattro Fontane. Lì una pattuglia tedesca ci fermò e vide le nostre mani sporche di rosso. Si accorsero anche dei pennelli. Non sapevamo ancora delle deportazioni, ma sapevamo di rischiare di essere arrestati e torturati, e la nostra paura più grande era di non riuscire a resistere e coinvolgere altri compagni. Col coraggio della disperazione facemmo un gesto assurdo: avevamo tre mitra puntati sul petto – ricordo ancora la sensazione del metallo appoggiato qui, subito sotto la gola – e a mani nude li alzammo con forza, quasi sbattendoli in faccia ai tedeschi. Loro rimasero allibiti e guadagnammo quei pochi secondi che ci permisero di scappare correndo in quattro direzioni diverse. Ci spararono ad altezza d’uomo, tanto che giorni dopo andai a curiosare e vidi le scalfitture delle pallottole lungo il percorso fatto. Ma ce la cavammo. Il segno di Roma ribelle restò a lungo: le scritte vennero cancellate ma continuarono a vedersi anche dopo, come i graffi delle pallottole sui muri. Quella sera per prudenza nessuno tornò alle proprie case. Il giorno dopo seppi che neanche i miei due amici erano stati catturati.
Ero responsabile di un gruppo del mio quartiere, Prati, che comprendeva altri cinque-sei giovani. Abitavo su Lungotevere de’ Mellini, al numero 7. Il contatto con il Partito Comunista era avvenuto attraverso Giuseppe De Santis e Antonello Trombadori. Mi fissarono un appuntamento a San Lorenzo, quartiere operaio, dunque speravo che questa volta non avrei incontrato uno studente come me o un intellettuale, ma finalmente un lavoratore. Avrei trovato una persona con “Il Messaggero” davanti agli occhi, seduta in un bar, questo era l’accordo per riconoscerlo. Quando abbassò il giornale, vidi un ragazzo come me, pure lui con gli occhiali: ecco un altro intellettuale!
Ci disse di reclutare altri militanti nella mia zona, per lanci di manifestini e azioni più politiche e di propaganda che propriamente armate. Proposi il mio appartamento per il supporto logistico: era al pianoterra, e in caso di perquisizioni o irruzioni di tedeschi o polizia si poteva fuggire dal retro. Questa sistemazione venne vista con favore: i dirigenti continuarono a chiedermi di tenere le riunioni a casa mia, insospettendo molto mio padre, soprattutto per il viavai di uomini più “anziani” di noi universitari. Un giorno, prima del 25 luglio e della caduta del fascismo, si presentò Giorgio Amendola, allora quasi quarantenne, e dovetti dire a mio padre che si trattava di un produttore cinematografico che stava leggendo un soggetto che gli avevo sottoposto. In seguito venne anche Luigi Longo, che doveva dare disposizioni in vista dell’armistizio. Prima della battaglia di Porta San Paolo si presentarono diverse persone a casa mia, tra questi Vasco Pratolini, per chiedermi “le armi”. Gli dissi che non c’erano armi in casa, era la verità, e in seguito abbandonai l’appartamento. Non bisogna dimenticare che in tutti i movimenti clandestini ci sono spie, doppiogiochisti, persone che non resistono alla tortura o che magari non vogliono mettere in pericolo i propri familiari.

Commemorazione del Rastrellamento del Grappa

Comunicato stampa “Incontro sul Grappa”

Domenica 15 settembre è stato ricordato  a cura dei comuni della Pedemontana  trevigiana e feltrina il doloroso rastrellamento del Grappa 20-26settembre  1944.
A cima Grappa  al monumento del partigiano,  opera insigne dello scultore Augusto Murer,  sono avvenute  la deposizione della corona di alloro e le testimonianze di un reduce di Russia poi prigioniero in Germania Valerio Marco Andreatta e del partigiano Mario Bernardo (Radiosa Aurora).
Il prof. Loris Capovilla, già presidente dell’Istituto storico di Treviso ha chiesto ai sindaci presenti di adoperarsi per far includere il monumento del Murer nella zona sacra del Grappa ed il prof. Giovanni Perenzin  presidente dell’ANPI Belluno ha comunicato l’iniziativa di tutte le ANPI del Veneto di indire  il giorno 12 ottobre  una fiaccolata da Vittorio Veneto a Revine-Lago come risposta alle adunanza neonazista tenutasi proprio a Revine Lago dal 12 al 15 settembre.
Succesivamente i Feltrini  si sono radunati al Forcelletto al restaurato cippo della Gramsci ad opera della ditta  Marco Riva. Qui, presenti numerosi partigiani : Umberto Tatto, Albino Santel, Giuseppe Balladori, Silvano Simeoni, Egildo Moro e Mario Bernardo,  si sono svolte alcune riflessioni sulla guerra di liberazione nel Feltrino. Sono state  altresì illustrate le esperienze dell’ANPI con le scolaresche allo scopo di tramandare una pagina di storia a fondamento della Costituzione italiana. Sul tema dei giovani oggi in difficoltà per trovare un lavoro si è soffermato in particolare il presidente del consiglio comunale di Feltre Alessandro Dalla Gasperina.
Quindi tutti sono confluiti al rifugio Bocchette dove a cura della dott. Catia Boschieri Costanzo era  stata allestita una mostra documentale e fotografica relativa alla figura del  giovane  zio partigiano Antonio Boschieri della Brigata Matteotti impiccato ad Arten. Antonio Boschieri, era nipote dell’ avv. Luigi Basso di Feltre segretario nazionale del Partito socialista all’epoca della uccisione di Matteotti. La dott. Boschieri Costanzo ha illustrato con perizia foto dell’epoca e documenti di valore storico.
Il pranzo svoltosi nella più schietta allegria è stato allietato da canti della Resistenza e popolari eseguiti dal gruppo corale  Vece Voci Feltrine.
ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia
Sezione di Feltre

Le foto della giornata: http://imgur.com/a/PLbKw

I neofascisti italiani al soldo di Pinochet

L’operazione Condor.
Grazie sia alla decisione di Clinton di mettere fine nel novembre del 2000 al segreto di Stato sui documenti, soprattutto Cia e Fbi, riguardanti il Cile, che all’azione di alcuni magistrati argentini che stanno ancora indagando sull’assassinio del generale cileno Carlos Prats (fuggito in Argentina dopo essersi opposto al colpo di Stato di Pinochet) e di sua moglie, avvenuto a Buenos Aires il 30 settembre 1974, molti nuovi elementi stanno emergendo. In particolare sul ruolo svolto, negli anni ’70, da gruppi di neofascisti italiani arruolati come sicari e torturatori dalle peggiori dittature sudamericane. Per inquadrare meglio il contesto è indispensabile soffermarci sulla cosiddetta “operazione Condor”.

Terrore pianificato.
Con questo nome era definito il piano di repressione ed eliminazione fisica degli oppositori politici comunemente progettato dalle dittature latino-americane negli anni ’70 e ’80. Un’operazione su vasta scala, finanziata e protetta dagli Stati Uniti, su cui è stata ormai acquisita qualche tonnellata di documenti d’archivio. Le forze armate del cosiddetto “cono-sud” (Argentina, Brasile, Paraguay, Bolivia e Uruguay) organizzarono, infatti, nel quadro di accordi fra eserciti americani e servizi segreti militari, fin dai primi anni ’70, una gigantesca struttura di controllo continentale dei “sovversivi” di ogni paese per poi colpirli, con tutti i mezzi, spesso attraverso i cosiddetti “squadroni della morte” allestiti dalle stesse forze armate. Dopo il colpo di Stato dell’11 settembre 1973 anche il Cile entrò a pieno titolo nel piano. Il generale Pinochet dette poteri assoluti al colonnello Manuel Contreras ai vertici della Dina, il servizio segreto cileno, appositamente modellato per “estirpare il cancro comunista”.
Nasce così l’”operazione Condor”, volta alla soppressione degli oppositori, dai militanti di sinistra ai sindacalisti, dai religiosi ai giornalisti e agli uomini di cultura. Il tutto nel quadro di una spaventosa repressione che conterà alla fine 50 mila assassinii, 35 mila persone scomparse, 40 mila prigionieri. Per alcune operazioni fuori dal Cile la Dina allestirà anche una sezione “estera” affidando, come vedremo, compiti esecutivi soprattutto a terroristi di estrema destra italiani.

Agli ordini dei militari.
Oggi è possibile, seppur parzialmente, ricostruire la storia di questa sezione riprendendo, da un lato, le carte di alcuni processi tenutisi anni fa a Roma per il tentato omicidio dell’esule cileno Bernardo Leighton e di sua moglie, avvenuto il 6 ottobre 1975, ma soprattutto leggendo alcuni recenti interrogatori svolti dal gip Guido Salvini, su delega (a seguito di rogatoria) di Maria Servini De Cubria, magistrato argentino che indagando sull’omicidio nel 1974 a Buenos Aires del generale Carlos Prats, ha tra l’altro incolpato come mandante Augusto Pinochet, ed avanzato al Cile una formale richiesta di estradizione.
Tra il maggio ed il luglio scorsi il dottor Salvini ha raccolto le deposizioni di diversi ex-terroristi di destra, tra gli altri di Vincenzo Vinciguerra e Pierluigi Concutelli. E’ in particolare dalle parole di Vinciguerra, sentito il 22 maggio 2002 nel carcere di Opera, che abbiamo la conferma testimoniale, già emersa nei documenti statunitensi declassificati, delle attività dei neofascisti italiani, soprattutto di Avanguardia Nazionale, arruolata in quanto tale dalla Dina cilena.
«Nel 1974 il principe Junio Valerio Borghese si recò in Cile e si incontrò con il generale Pinochet nell’ambito della comune strategia anticomunista. Ciò mi fu detto da Delle Chiaie il quale, nell’occasione, fu presentato a Pinochet dallo stesso Borghese. Il generale Pinochet passò la prosecuzione dei contatti con Delle Chiaie al responsabile della Dina, il colonnello Manuel Contreras». Così, secondo Vincenzo Vinciguerra, nacquero i primi rapporti ufficiali tra gli “avanguardisti” ed i massimi esponenti della dittatura cilena. Delle Chiaie e Pinochet si incontreranno in seguito anche altre volte, tra l’altro ai funerali di Franco in Spagna nel 1975, come risulta da documenti Fbi e dagli interrogatori di Piero Carmassi (altro esponente di An e guardaspalle di Delle Chiaie) e di Pierluigi Concutelli resi al giudice Salvini.
«Mi trattenni in Cile – ha proseguito Vinciguerra – dal giugno 1977 al maggio 1978… In Cile abitai con altri italiani, quasi tutti latitanti, nella villetta vicino ad Avenida de los dos Leones… Tuttavia potevamo anche frequentare un ufficio messo a nostra disposizione dalla Dina in Avenida Portugal… Le persone che abitavano in Avenida de los dos Leones… sono state talvolta in momenti diversi, oltre a me, Stefano Delle Chiaie, Maurizio Giorgi, Augusto Cauchi e un francese di nome Jean (identificabile in Jean Helmer che ha lavorato anche per il servizio segreto uruguaiano ndr)… Quando io sono arrivato Sandro Saccucci era andato via da quella villetta da alcuni giorni… Augusto Cauchi era impiegato presso la Dina nel reparto computer cioè la Brigata Informatica… Non ho conosciuto personalmente Manuel Contreras, posso tuttavia dire che Delle Chiaie partecipava alle riunioni con lui come se fosse anch’egli un ufficiale della Dina a tutti gli effetti».
Michael Townley, un cileno-americano agente della Dina, autore per sua stessa ammissione della bomba che nel 1976 fece scoppiare a Washington, a pochi isolati dalla Casa Bianca, l’auto su cui viaggiavano l’ex-ambasciatore cileno Orlando Letelier e la sua segretaria, svolse in questo quadro, a detta di tutti, funzioni da intermediario con i neofascisti di Avanguardia Nazionale, spostandosi a Roma nel luglio del 1975 per preparare l’attentato a Bernardo Leighton.

Spietati killer.
Numerose furono le “operazioni” che videro i neofascisti italiani nella veste di killer per conto delle dittature sudamericane, dei franchisti spagnoli e della Dina.
Stefano Delle Chiaie operò nel 1974 in Costa Rica contro la guerriglia comunista, altri di An intervennero a più riprese in Spagna contro l’Eta, sia per assassinare loro dirigenti che per imbastire provocazioni (Augusto Cauchi si rese tra l’altro protagonista del rapimento e dell’omicidio di un industriale cercando di far ricadere le colpe sui nazionalisti baschi). Stefano Delle Chiae, Augusto Cauchi, Piero Carmassi, Mario Ricci, Giuseppe Calzona e Carlo Cicuttini il 9 maggio 1976 parteciparono in Spagna, insieme ad altri neofascisti, all’assassinio a colpi di pistola di due giovani democratici a Montejurra nel corso di una manifestazione organizzata dal partito Carlista. Nessuno in Spagna ne rispose anche se, su questa vicenda, fu addirittura pubblicato un servizio fotografico con le immagini degli aggressori in azione.
Ma è il tentato assassinio di Bernardo Leighton (l’ex-vice presidente del Cile) e di sua moglie, a Roma il 6 ottobre 1975 (rimasero entrambi gravemente feriti), che vedrà tutta An, con il contributo di elementi di Ordine Nuovo, realizzare l’attentato mettendo a disposizione i propri uomini e le proprie sedi. Lo stesso Concutelli dirà a Salvini il 17 maggio 2002 che l’assassinio era stato «organizzato da Pinochet. Lo seppi da Delle Chiaie che affermava che Pinochet si stava “togliendo i sassolini dalle scarpe”».
Nel processo, tenutosi a Roma nel 1987, Delle Chiaie e Concutelli furono assolti per insufficienza di prove. Qualche anno dopo per gli stessi fatti, sempre davanti alla Corte d’Assise di Roma, Michael Townley venne condannato a 15 anni. Nel 1995, Manuel Contreras (il capo supremo della Dina) e Neumann Iturriaga (capo della sezione estera della Dina) furono invece condannati rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere. Ora, seppur a distanza di tempo, dopo gli interrogatori del giudice Salvini, il quadro si è completato.

Dopo tanti anni.
Mentre Pinochet viene in Cile ritenuto dalla Corte Suprema non più in grado, per “instabilità mentale”, di essere processato, Michael Townely ha invece assunto in Usa lo status di “testimone protetto”, dopo aver confessato l’assassinio di Orlando Letelier.
Sandro Saccucci vive a Cordoba in Argentina e fa ritorno in Italia per brevissimi periodi, Augusto Cauchi, indicato in un appunto sequestrato allo stesso Delle Chiaie come uno degli autori della strage dell’Italicus (4 agosto 1974, 12 morti), è rientrato in Italia solo nel dicembre 2001, dopo una latitanza di 17 anni, per poi ritrasferirsi subito in Argentina dove dirige una ditta di import-export. Piero Carmassi vive a Massa mentre Carlo Cicuttini è in carcere in Italia dal 2000 per scontare una condanna all’ergastolo per la strage di tre carabinieri a Peteano (31 maggio 1972). Altri sono morti, come Pierluigi Pagliai, a causa delle ferite riportate nel corso del suo arresto in Bolivia nel 1982, dove insieme a Delle Chiaie e al “macellaio di Lione”, il criminale nazista Klaus Barbie, addestrava strutture paramilitari e trafficava in coca.
Stefano Delle Chiaie, dopo 17 anni di latitanza ed essere “miracolosamente” passato indenne in tutti i processi che lo hanno visto sul banco degli imputati, ispira da dietro le quinte il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher, gestisce l’agenzia di stampa “Publicondor” (un nome non certo scelto a caso) e si occupa di alcune trasmissioni in una rete televisiva privata a Lametia Terme.
Il tempo è passato e questi sono solo alcune dei nomi dell’”Internazionale nera” che in più di un continente ha lasciato dietro di sè il segno di indicibili crimini.
Saverio Ferrari (da Liberazione del 9 gennaio 2003)

11 settembre 1973: colpo di stato in Cile

“Loro hanno la forza, potranno farci schiavi ma i progressi sociali non si arrestano né con il crimine, né con la forza, la storia è nostra ed è fatta dal popolo. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!”. Queste le ultime parole di Salvador Allende prima di essere assassinato dai golpisti cileni comandati da Pinochet e ispirati,aiutati e supportati dal governo americano che non voleva un governo marxista in America Latina. Il 24 febbraio 1974 sul settimanale “L’Espresso” compare un articolo del grande scrittore Gabriel Garcia Marquez: non si tratta di una narrazione storica ma di una ricostruzione appassionata, che utilizza tutte le fonti, i materiali, le ipotesi sul dramma cileno. “Ho scritto questa rievocazione soprattutto per far capire agli americani del nord quel che era successo sotto i loro occhi, e in parte per colpa loro” ha detto Marquez inviando il manoscritto al giornale. Questa è la parte finale dell’articolo:

“Aveva compiuto 64 anni il luglio prima ed era un leone perfetto: tenace, deciso e imprevedibile. “Quel che pensa Allende, solo Allende lo sa”, mi aveva detto uno dei suoi ministri. Amava la vita, amava i fiori e i cani, era di una galanteria un po’ all’antica, fatta di bigliettini profumati e di incontri furtivi. La sua maggior virtù fu la coerenza, ma il destino gli apparecchiò la rara e tragica grandezza di morire difendendo a colpi di mitra lo sgorbio anacronistico del diritto borghese, difendendo una Suprema corte di giustizia che l’aveva ripudiato ma che doveva legittimare i suoi assassini, difendendo un congresso miserando che lo aveva dichiarato illeggittimo ma che doveva soccombere compiaciuto davanti alla volontà degli usurpatori, difendendo la libertà dei partiti di opposizione che s’erano venduti l’anima al fascismo, difendendo tutto il bric-à-brac tarlato di un sistema di merda che egli si era proposto di distruggere senza sparare un colpo. Il dramma ebbe luogo in Cile, per sventura dei cileni, ma passerà alla storia come qualcosa che capitò a noi tutti, uomini di questo tempo, e c’è rimasto dentro, nelle nostre vite, per sempre.”

Questa è la sequenza finale del film “La memoria ostinata” di Patricio Guzman, una sequenza intensa e terribile: dopo la proiezione de “La guerra del Chile” (un documentario dello stesso Guzman sulla storia dell’esperienza di Unidad Popular in Chile) fa vedere i visi sconvolti, commossi dei giovani incapaci di dominare l’emozione che sgorga nel vedere la propria storia. Il film è una lotta contro l’oblio e la falsificazione della storia, sulla memoria negata. Come afferma José Balmes: “la memoria e l’oblio sono come il polo positivo e quello negativo della riflessione umana, ci fanno soffire e morire, ma ci permettono anche di vivere”.

http://anpimirano.it/2013/11-settembre-1973-colpo-di-stato-in-cile/

8 settembre 1943: 700000 soldati italiani vengono spediti nei Kriegsgefangene

Internati Militari italiani (IMI)

Ho appena finito di vedere il Tg3 e il Tg 3 Veneto. Hanno parlato dei 150 anni del Cai, del cavaliere delinquente, della crisi, del papa, della manifestazione dell’Anpi in Cansiglio ma dell’8 settembre nessuno ha parlato. A distanza di 70 anni è assolutamente necessario ricordare l’8 settembre 1943 come la data che ufficializzò la nascita della Resistenza. La battaglia di Porta San Paolo, per difendere Roma, il 9 settembre, vide lottare fianco a fianco  militari e civili, quest’ultimi, in larga parte, organizzati dai partiti antifascisti. 700000 soldati italiani, senza ordini, sbandati, furono catturati dai tedeschi e trasferiti in campi di prigionia (kriegsgefangene) e, nonostante le privazioni e le morti che avvenivano tra di loro ogni giorno, restarono indifferenti alle insistenti visite dei fascisti repubblichini che venivano a promettere una vita ben diversa nell’Italia di Salò. Circa il 90% di questi settecentomila militari italiani trascinati nei lager diede origine ad una resistenza passiva, che avrebbe pesato assai positivamente sulle sorti dell’Italia futura, la quale, però, è rimasta sostanzialmente nell’ombra. C’è da dire che gli italiani non furono mai considerati prigionieri di guerra, ma “internati militari”, con l’avvallo preciso dei repubblichini di Salò, che hanno sulla coscienza anche questi morti dimenticati dallo Stato Italiano. Il sito dell’Anpi Nazionale ricorda la data così:

“8 settembre 1943: quando l’Italia disse no al nazifascismo”. E’ questo il titolo dell’ampio e approfondito servizio che la rivista “Rolling Stone” dedica all’8 settembre e alla lotta di liberazione, con approfondimenti storici e testimonianze dirette.”

Raduno fascista a Revine Lago

Armando Grava, uno dei martiri partigiani di Revine Lago

Dopo il raduno degli skinheads, i fascisti di casapound si ritrovano dal 12 al 15 settembre a Revine Lago, con un programma a base di incontri, concerti nazirock e dimostrazioni “muscolari” varie, il tutto trasmesso via web con il supporto di Radio Bandiera Nera, la radio del gruppo. Fascisti che fanno festa, in un luogo che ha visto nascere diverse Brigate Partigiane, che ha visto la vera natura del fascismo con uccisioni, deportazioni, case distrutte.

Il Comune ha infatti pagato un altissimo contributo di vite umane, di deportazioni, di indicibili distruzioni: 40 case di abitazione (12% del totale) e circa 60 casere e stalle incendiate nei ripetuti rastrellamenti, incursioni e rappresaglie, eseguiti dalle SS e dalle Brigate nere. Revine Lago risulta, dopo Pieve di Soligo, ed in rapporto al numero degli abitanti, il Comune più danneggiato della Provincia. Il 12 marzo del 1945, in uno degli ennesimi rastrellamenti, viene catturato Armando Grava, staffetta della Brigata Partigiana “Tollot”. Il coraggioso e sfortunato giovane viene sottoposto ad ogni sorta di torture e di sevizie. Sotto stringente interrogatorio, si addossa la responsabilità del ferimento del tedesco e, a conferma di quanto dichiarato, si fa condurre nel luogo dove ha nascosto il proprio mitra. Egli, pur conoscendo tutto della formazione partigiana, non si lascia sfuggire neppure una parola. I fascisti non desistono ed usano tutti i sistemi per farlo parlare. Dopo quattro giorni di continui interrogatori e torture, il giorno 17 marzo, mentre continua il rastrellamento, il giovane Armando viene trasferito nel paese di Lago e precisamente nella trattoria di fronte alla chiesa, dove viene sottoposto ad un nuovo terribile interrogatorio. Questa volta, anche alla presenza della madre e della sorella. Su di lui compiono le più efferate sevizie e violenze. Una ausiliaria fascista, con le forbici, gli taglia la carne degli zigomi, delle sopracciglia, dei testicoli; sulle ferite passa poi della tintura di jodio. Sono quattro giorni di inutili ,tentativi, per strappargli qualche notizia su persone e fatti che egli conosceva bene; quattro giorni di incredibili sofferenze per il povero Armando. Il 17 marzo, con il pretesto di condurlo ad una medicazione si dirigono verso Revine e al confine con Vittorio Veneto, il patriota viene ucciso con una raffica di mitra. Gli gettano sopra il capo un grosso macigno e lo abbandonano sulla strada.

Casapound, dice il sindaco, non ha chiesto permessi perchè la festa è in un luogo privato, lo stesso del raduno degli skinheads di qualche hanno fa. Belle parole, da un sindaco che rappresenta una comunità che ha provato sulla propria pelle il fascismo e quello che rappresenta. Oggi Umberto Lorenzoni “Eros”, segretario dell’Anpi di Treviso, avrà un incontro con questa persona, e ribadirà che ogni rappresentazione ispirata al fascismo in Italia è vietata dalla Costituzione Italiana. Tutti gli antifascisti dovrebbero mobilitarsi e andare dal sindaco per pretendere il rispetto della Costituzione su cui ha giurato fedeltà.