Storia di un repubblichino al soldo dei servizi segreti

C’era un uomo, una spia, prima fascista, poi al soldo dei servizi deviati, che ha attraversato tutta la notte della repubblica italiana e che è stato coinvolto nei più cruenti fatti di sangue che hanno funestato il nostro Paese almeno fino alla metà degli anni ’70, il suo nome era Berardino Andreola, ma in verità ne usava più di uno alla volta. È stato Giuseppe Chittaro e Umberto Rai quando si trattava di indicare la pista rossa di piazza Fontana al giovane commissario Luigi Calabresi; Gunter, quando avrebbe manomesso i timer che hanno fatto saltare in aria Giangiacomo Feltrinelli; Luigi De Fonseca, quando cercava di depistare e confondere le acque di chi cercava il filo che teneva la strategia della tensione e degli opposti estremismi.
A svelarne l’identità e i tanti alias è Egidio Ceccato, storico di Camposampiero che nel suo «L’Infiltrato» disegna un quadro estremamente inquietante della nostra democrazia, per trent’anni almeno tenuta sotto scacco e tutela da un «doppio stato» che ne indirizzava pancia e opinioni al fine di tenere il Paese nel solco della moderazione politica e dell’Alleanza atlantica. In altre parole quella «guerra a bassa tensione» di cui fu ideatore e organizzatore il capo del secret team della Cia Theodore Shackley. E di cui fu strumento in Italia James Angleton, capo del controspionaggio americano a Roma. Un doppio stato che non ha esitato a reclutare servitori fra i reduci di Salò, infiltrare forze armate, polizia, servizi, partiti politici, amministrazioni e aziende pubbliche.
E fino a qui si potrebbe dire che c’è ben poco di nuovo, rispetto ai sospetti e ai troppi segreti che ci trasciniamo dietro da sempre e che lasciano lo spazio alle peggiori delle ipotesi sulla nostra storia recente. La novità sta nell’aver individuato uno dei personaggi che hanno giocato da protagonisti di questa brutta storia: Berardino Andreola, appunto.
Il nostro uomo, secondo Ceccato, giovanissimo ex repubblichino, viene infiltrato tra i gruppuscoli anarchici e dell’estrema sinistra, dopo aver servito per un certo periodo nel Sud Italia.
Ceccato prende le mosse proprio da qui. Sua intenzione era lavorare alla storia di Graziano Verzotto, cittadellese, capo di una formazione partigiana bianca, che nel dopoguerra viene mandato a fare il segretario regionale della Dc siciliana. Senatore, diventa presidente dell’Esm (ente minerario siciliano) e dirigente dell’Eni di Enrico Mattei, di cui sarà il braccio destro in Sicilia. Verzotto è l’uomo indicato recentemente, post mortem, da una sentenza della corte d’Appello del tribunale di Palermo come mandante per l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro. Una sentenza contestata e contro cui si sta battendo l’anziano fratello dello stesso Verzotto, avvocato ed ex sindaco di Santa Giustina, e, secondo Ceccato, non senza ragione.
In ogni caso Graziano Verzotto subì un tentativo di sequestro negli anni ’70 che quasi sicuramente l’avrebbe destinato a finire vittima della lupara bianca, se chi lo aveva messo in atto non si fosse dimostrato inadatto allo scopo.
Per quel delitto finì arrestato Berardino Andreola, assieme ai complici. Da qui Ceccato si ritrova a scrivere un altro libro che lo porta a seguire le tracce di Andreola fino a incrociare Pinelli, Calabresi e Feltrinelli. Il primo, com’è noto caduto dalla finestra del quarto piano della questura di Milano all’indomani della bomba alla banca dell’Agricoltura nel 1969. Gli altri due morti a pochi mesi di distanza nella primavera del 1972, proprio quando, grazie alle inchieste trevigiane dei giudici Stiz e Calogero, gli inquirenti scoprono e cominciano a seguire la pista nera veneta che conduce a Franco Freda e Giovanni Ventura; da notare che la carta d’identità falsa trovata a Feltrielli dilaniato sotto il traliccio di Segrate era stata rubata dai neri nel municipio di Preganziol, Treviso, nel dicembre del 1969; mentre i famosi timer di piazza Fontana furono venduti in via Facciolati a Padova.
Secondo Ceccato, il commissario Calabresi si sarebbe reso conto di essere stato “usato” dai servizi e che a colpire a Milano fu «una mente di destra con manovalanza di sinistra». Le stesse responsabili della sua di morte, forse.
E lo stesso Feltrinelli fu un ingenuo strumento nelle mani dei servizi e della destra, che lo fecero saltare letteralmente in aria mettendo in mano all’editore-bombarolo dei timer difettosi preparati appunto da quel Gunter che si era conquistato la fiducia tanto incondizionata quanto malriposta dell’imprenditore rivoluzionario.
Non è un libro facile quello di Ceccato, tra guerra sporca, complotti internazionali, servizi deviati, ossessioni anticomuniste, sgherri, sbirri infedeli, doppi e triplogiochisti, in cui rosso e nero si confondono e si scambiano ruoli, ferro e fuoco in una nuvola di fumo in cui è complicatissimo orientarsi. È un libro ardito che solleverà dubbi e polemiche, ma è un tentativo coraggioso e onesto di gettare un po’ di luce nel pozzo nero della nostra vita pubblica. (di Giorgio Sbrissa da “La Nuova Venezia”)

Un’intervista a Egidio Ceccato autore di “L’infiltrato”

Bologna 30 agosto 1944: 12 partigiani fucilati al poligono di tiro

Monumento a tutti i 270 fucilati al poligono di tiro di Bologna

Al Poligono di Tiro di Bologna vengono fucilati 12 partigiani come rappresaglia per l’uccisione del colonnello Zambonelli della Guardia Nazionale Repubblicana. L’annuncio della avvenuta fucilazione appare il giorno 31 sul Resto del Carlino
Antefatto
… qualche settimana dopo, una nostra squadra in perlustrazione sulla Persicetana, in pieno giorno, avvistò la macchina del colonnello Zambonelli, uno dei più pericolosi comandanti fascisti. I nostri riuscirono a bloccarla e fecero prigioniero lo stesso colonnello, con il proposito di scambiarlo con dieci compagni detenuti nelle carceri fasciste. II comando della brigata nera, anziché aderire alla nostra richiesta, due giorni dopo a Bologna fucilò i partigiani di cui si chiedeva il rilascio. Tale rappresaglia, che rappresentava anche un’aperta sfida, esigeva una nostra immediata risposta e fu così che poco tempo dopo, sullo stesso luogo, venne ad opera nostra giustiziato il colonnello Zambonelli.
Testimonianza di Vito Giatti

Le vittime della rappresaglia al Poligono di tiro:

Atti Floriano, «Nome di battaglia Gianni», nato il 16/9/1922 a Bentivoglio. Prestò servizio militare negli autieri dal febbraio 1942 all’ʼ8/9/43. Militò nel Veneto nella div Belluno e successivamente nella 7a brg GAP Gianni Garibaldi e nella 1a brg Irma Bandiera Garibaldi a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro.

Bentivogli Renato, «Nome di battaglia Renè», nato il 14/6/1912 a Malalbergo. Militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi ed operò a Bologna. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. Al suo nome a Bologna è stato intestato un giardino.

Bracci Luciano, «Nome di battaglia Toro», nato l’11/2/1926 a Bologna. Militò nella 62a brg Camicie rosse Garibaldi. Cadde prigioniero dei tedeschi mentre tentava di portare in salvo un compagno ferito. Fu rinchiuso nel carcere di San Giovanni in Monte e sottoposto a torture e sevizie. Venne fucilato al Poligono di tiro di Bologna

Bussolari Gaetano, «Nome di battaglia Maronino», nato il 19/9/1883 a S. Giovanni in Persiceto. Discendente da antica famiglia persicetana, partecipò vivamente fin dalla giovinezza alla vita politica della sua città, della quale studiò per tutta la vita la storia passata in tutti i suoi aspetti (aveva in animo di elaborare unʼamplissima «enciclopedia persicetana»). Fu uno spirito ribelle, originale, polemico, libero: ciò spiega anche il passaggio da posizioni socialistiche ed anarchiche ad una temporanea, breve militanza fascista. Ben presto passò allʼantifascismo che manifestò senza cautela tanto da attirarsi l’odio dei gerarchi locali, dei quali denunciò il malgoverno e le sopraffazioni, specialmente nell’amministrazione del consorzio dei partecipanti. Fu confinato e carcerato. Durante la lotta di liberazione venne arrestato e prelevato dal carcere per essere fucilato al poligono di tiro di Bologna

Garagnani Arturo, nato il 3/5/1907 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Garagnani Celestino, nato il 18/10/1913 a Castello di Serravalle. Già incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Musi Giocondo, nato il 16/10/1914 a Bologna. Prestò servizio militare in fanteria a Bologna. A seguito di una vasta azione di propaganda svolta dal PCI e dalla gioventù comunista a Bologna e nei comuni della provincia, venne arrestato alla fine del 1930. Deferito al Tribunale speciale, con sentenza del 28/9/31, venne condannato (assieme ad altri dodici compagni) a 1 anno di carcere, per costituzione del PCI, appartenenza allo stesso e propaganda. Durante la lotta di liberazione militò nella la brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di comandante di btg. Il 19/8/44, mentre si accingeva a far saltare il ponte ferroviario in località Due Torrette, fu arrestato ed incarcerato nel carcere di S. Giovanni in Monte (Bologna). venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro. E’ stata dedicata una strada di Bologna a lui e a suo fratello.

Nanni Luciano, nato l’8/2/1923 a Bologna. Militò nel 1° btg Busi della 1ª brg Irma Bandiera Garibaldi con funzione di ispettore organizzativo di compagnia e operò a Bologna. Già rinchiuso in carcere dal 20/8/44, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Pietrobuoni Agostino, nato il 24/7/1894 a S. Agata Bolognese. Capolega dei braccianti dal 1915, al termine della grande lotta agraria nel Bolognese fu arrestato il 31/10/20 in seguito all’uccisione di Gaetano Guizzardi. Fu processato e condannato nel 1923. Dimesso dal carcere, espatriò a Domont (Francia), dove lavorò e svolse attività antifascista. Allo scoppio della seconda guerra mondiale fu internato nel campo di concentramento di Vernet dʼAriège. Tradotto in Italia, il 29/9/41 la Commissione provinciale lo condannò al confino per 5 anni a causa dellʼattività antifascista svolta allʼestero. Venne liberato il 18/8/43; lasciò Ventotene e fece ritorno al paese natio. Dopo 1’8/9/43 fu animatore della lotta di liberazione a S. Agata Bolognese, assieme ai fratelli Quinto e Ottavio. Partecipò all’attività del btg Marzocchi della 63ª brg Bolero Garibaldi con funzione di commissario politico con grande intensità nonostante stesse perdendo la vista. Fu arrestato a seguito di una delazione il 27/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e trasferito a Bologna. Venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Sghinolfi Alfonso, nato il 10/3/1907 a Monteveglio. Prestò servizio militare in artiglieria a Bologna dal 1942 all’ʼ8/9/43. Militò ad Anzola Emilia nel btg Tarzan della 7a brg GAP Gianni Garibaldi. Catturato il 15/8/44, venne fucilato al poligono di tiro.

Sordi Renato, nato il 14/1/1924 ad Ancona. Già rinchiuso in carcere venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

Zanasi Cesare, «Nome di battaglia Cesarino», nato il 15/9/1923 a Bentivoglio. Militò nella 7ª brg GAP Gianni Garibaldi, con funzione di vice comandante di compagnia, ed operò a Bologna. Arrestato il 25/8/44 a S. Giovanni in Persiceto e incarcerato, venne prelevato dal carcere per essere fucilato al Poligono di tiro

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Siria, agosto 2013

Milano, agosto 1943

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio: e l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Salvatore Quasimodo

24 agosto 1944: Strage di Vinca

La lapide con i nomi dei 174 uccisi

La mattina del 24 agosto 1944 olte cinquanta automezzi carichi di soldati tedeschi e militi fascisti salgono verso il paese di Vinca, toccando Equi Terme, Monzone e altri paesi.
Gli uomini del maggiore Reder e la Brigata Nera “Mai Morti” arrivano al paese di Vinca nella prima mattinata portandosi dietro anche un cannone salendo dal paese di Monzone, mentre altre colonne di nazifascisti accerchiano la zona salendo dalle valli sul versante della Garfagnana e da quello di Carrara.
Il paese e i campi circostanti vengono battuti palmo a palmo per tutta la giornata, di quelli che all’inizio del rastrellamento si trovavano dentro il cerchio solo due si salveranno. Il paese viene occupato da uno dei plotoni fascisti, devastato e poi incendiato. Alla sera i nazifascisti rientrano a valle.
Ma l’esperienza maturata in queste cose suggerisce di riprendere la mattina dopo: difatti gli scampati erano tornati a raccogliere i familiari uccisi e per salvare dalle fiamme quello che potevano. In questo modo riescono ad uccidere altre persone.
173 vittime come era già successo a Sant’Anna di Stazzema, San Terenzo – Bardine e a Valla i cadaveri spesso sono rinvenuti nudi, decapitati, impalati o comunque in condizioni che permettono di misurare l’accanimento dei loro assassini.

Uno storico lunigianese, il prof. Fabio Baroni, punta i riflettori sulle responsabilità avute nell’efferata strage da parte di alcuni cittadini di Carrara. «Ci sono questioni che non si possono archiviare, purtroppo – scrive Baroni – una di queste è il carattere italiano della strage di Vinca. Ho tralasciato, lo scorso anno (2011), di tornare sull’argomento, che mi aveva prodotto offese e denigrazioni, affidando la dimostrazione della partecipazione massiccia di italiani, e in gran parte carrarini, alla strage ad uno scritto scientifico dal titolo significativo: “La strage di Vinca. Un olocausto che attende verità”, pubblicato sull’ultimo numero di Cronaca e Storia di Val di Magra. Da quello scritto si evince ancor di più la responsabilità dei fascisti carrarini, inviati da una importante autorità, allora, a Carrara, non solo nella strage ma negli atti più efferati di quella strage».

19 agosto 1944: strage di Bardine di S. Terenzio (Fraz. di Fivizzano – Massa)

Il 12 agosto 1944, lo stesso giorno della strage di Sant’Anna di Stazzema, cinquantatré tra uomini, donne e bambini (28 dai 2 ai 17 anni) erano stati rastrellati in Versilia dai soldati del maggiore Reder.
Una settimana dopo, il 19, vengono portati a bordo di camion sulla strada che da Bardine porta a San Terenzio. Vengono fatti scendere dove una lunga rete metallica sostenuta da pali divide due poderi presso i quali alcuni giorni prima i partigiani avevano attaccato con successo un convoglio tedesco.
Tutti vengono legati con filo spinato alle mani e attaccati con lo stesso mezzo ai pali della recinzione in modo che, appesi per il collo, possano a malapena sorreggersi per non soffocare.
Alcuni vengono seviziati, tutti vengono gambizzati con raffiche di mitragliatrice e lasciati morire impiccati o finiti con un colpo di rivoltella.
http://storiedimenticate.wordpress.com/2012/08/19/bardine-di-s-terenzio-fraz-di-fivizzano-massa-19-agosto-1944/

12 agosto 1944: Ricordiamo quella notte in cui morì l’umanità intera

Le vittime con meno di 16 anni della strage di Sant'Anna di Stazzema

Sono trascorsi 69 anni da quella terribile mattina del 12 agosto del 1944 quando in un piccolo borgo arroccato sulle Alpi Apuane la furia nazista uccise 560 civili di cui 130 bambini. Le atrocità commesse dalle SS furono sconvolgenti. Giunsero a far partorire una donna, Evelina, e prima di ucciderla, dinanzi ai suoi occhi, spararono alla tempia del figlioletto. Furono trovati ancora uniti dal cordone ombelicale. Quella mattina di 69 anni le SS, guidate da alcuni fascisti locali, a Sant’Anna portarono l’inferno in un luogo che si riteneva fosse lontano dai venti di guerra. Ma quel giorno oltre all’eccidio delle 560 vittime, avvenne un crimine ancora maggiore che è la morte dell’uomo, della sua umanità. Un crimine, o meglio un suicidio, che la storia ci ricorda troppe volte accadere, basti pensare ai campi di concentramento, alle tante guerre che incendiano il mondo.
L’atrocità di certi atti è difficile da elaborare e così si commette l’errore di non ricordarla, è come se si innescasse nella mente un meccanismo di difesa. Freud sosteneva: “La mente allontanerà sempre, ancorché inconsciamente, la realtà dolorosa”. La realtà è che troppo doloroso concludere che in potenza ognuno di noi, se inserito in ideologie malvagie, se cresciuto in sistemi di violenza , può trasformarsi in un mostro. Ma la storia dovrebbe servire proprio a indicarci delle linee da seguire per evitare certe deviazioni. Purtroppo questo non sempre accade e l’uomo necessita di rivivere certe brutalità, spesso, invece di proporre dei modelli diversi alle violenze che si è subito, le vittime diventano carnefici.
Quello che sta patendo il popolo palestinese ne è un’aberrante prova. Per le recenti guerre che ci hanno visti anche direttamente coinvolti come in Iraq e Afghanistan, addirittura ci si erige a paladini della libertà e con questo vessillo si bombardano Paesi, si spolpano di ricchezze territori uccidendo migliaia di civili. Per non parlare poi dell’ipocrisia, anche violando l’articolo 11 della Costituzione, allorquando si parla di missioni di pace. L’ultima, in ordine di tempo, uccisione di un soldato italiano raccoglie questa incongruenza in una foto di Repubblica in cui una frase di un conoscente del caduto affermava in virgolettato che quest’ultimo era un portatore di pace, che amava la pace e in basso c’era la foto di un nostro militare armato fino ai denti pronto all’assalto.
Su questo occorre essere chiari: la pace, quella vera, la si conquista con il paziente dialogo, seminando il bene e non con le armi!
È fondamentale, specie per i più giovani, tenere viva la memoria. Ma ancora più importante è insegnare ad attualizzare ciò che è successo 69 anni fa, capire oggi dove, in che forme e per quali motivi si eserciti il male della guerra. Occorre capire insieme ai giovani il perché siamo così succubi dei potentati militari tanto che, nel nostro Paese, investiamo quotidianamente 70 milioni di dollari in armamenti e dobbiamo acquistare dei cacciabombardieri difettosi per i quali ogni singolo casco costa due milioni di dollari.
Occorre capire perché questo Sistema mondiale investa ogni anno 1.753 miliardi di dollari in armamenti quando ne basterebbero circa 40 per porre fine alla fame nel mondo.
Alla nuova generazione deve essere chiaro che le armi come deterrente e la guerra per accaparrarsi sempre crescenti risorse, per questo sistema neoliberista, sono linfa vitale. Questo Sistema della crescita infinita in un mondo finito è portatore sano di ineguaglianze come mai si sono avute in passato (ogni anno muoiono circa 50 milioni di persone per fame). Se non si cambia questo sistema le ricorrenze per ricordare il male di ieri saranno solo sterili cerimonie per ripulirsi l’anima dei crimini di oggi.

(di Gianluca Ferrara da “Il Fatto”)

12 agosto 1976: strage di Tall el Zaatar (تل الزعتر )

In origine Tall El Zaatar (la collina del timo) era una bidonville alla periferia est di Beirut in Libano. giunti i palestinesi, si trasformò a poco a poco: sorsero i palazzi, nacquero le fabbriche. Alla vigilia della guerra, la città aveva 50.000 abitanti. Poi la guerra scoppiò e la parte orientale di Beirut cadde in mano ai cristiani. Tutta, tranne la “collina del timo”.
Il 22 giugno 1976 i cristiani piazzarono intorno alla “città dei palestinesi” cannoni, razzi, mortai e seimila uomini. Cominciò l’assedio. I palestinesi non potevano arrendersi, perchè la resa avrebbe significato morte sicura. Resistettero, ma era una resistenza senza speranza: i siriani vigilavano che nessun aiuto fosse portato ai trentamila assediati, i cristiani avevano provveduto a interrompere le forniture d’acqua.
Dentro Tall El Zaatar la gente prese a morire di sete, di fame e per le ferite. Le ferite si sarebbero potuto curare ma i cristiani non permettevano l’invio di soccorsi. Il 17 luglio due medici e un infermiera svedesi lanciarono un appello alla Croce Rossa perchè fossero evaquati quattromila feriti gravi. Giunsero le ambulanze ma i cristiani le mitragliarono. Il 25 luglio crollò un palazzo e 500 civili restarono sotto le macerie. Morirono tutti soffocati, perchè i cristiani si esercitarono al tiro a segno sui soccorritori. Dal 3 al 6 agosto la Croce Rossa riuscì ad evacuare 407 civili. Ma il 7 l’organizzazione dovette desistere a causa del fuoco ininterrotto degli assedianti. All’alba del 12 agosto 1976, i miliziani fascisti della Falange, delle Tigri del Libano e i kataebisti cristiano-maroniti, penetrati a Tall El Zaatar trucidano senza misericordia gli scampati all’assedio che sono usciti dai rifugi per organizzare il trasporto dei feriti. Nelle stradine di terra c’è una caccia all’uomo feroce, anche con i coltelli. Gli uomini del campo dai 15 ai 40 anni sono tutti eliminati a freddo. Lo stesso destino capita a donne e ai loro bambini. Vengono assassinati 60 infermieri. Più tardi, in due riprese, il convoglio della Croce Rossa raccoglie direttamente dalle mani delle milizie cristiane alcune migliaia di persone. Sono contro il muro, un’immagine di vergogna. Un testimone afferma che l’entrata nord del campo, a Dekuaneh, è una visione terribile, di orrore. Per muoversi tra le stradine, dove regna l’odore del putrido, dove decine e decine di cadaveri giacciono al suolo tanto che è impossibile contarli, bisogna usare la maschera. C’è chi alla resa preferisce la morte combattendo. Chi, fatto prigioniero, è ferocemente torturato prima di essere eliminato. Alla fine i morti saranno circa 3000.
[da “La diaspora palestinese in Libano e i tempi della guerra civile”, di Mariano Mingarelli]

http://ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it/post/1123650.html

10 agosto 1944: Strage di Piazzale Loreto

Il 10 Agosto 1944, su ordine degli occupanti nazisti, la Legione Muti fucilò in Piazzale Loreto a Milano 15 partigiani lasciando i corpi esposti al calore ed alle mosche per l’intera giornata. Nell’Agosto del ’44 Milano è sotto occupazione nazista da ormai quasi un anno. Pochi giorni dopo l’armistizio dell’8 Settembre nel quadro dell’occupazione nazista dell’Italia, tesa a rallentare l’avanzata degli Alleati a Sud ed a garantire l’esistenza della Repubblica Sociale Italiana, la città è stata occupata dalla tristemente nota divisione Waffen-SS Leibstandarte SS Adolf Hitler.
Milano era già stata teatro degli scioperi del 1943 e del 1944, che erano costati la deportazione di moltissimi operai e di molte azioni partigiane tra la quali l’assalto all’aeroporto di Taliedo, l’eliminazione del Federale di Milano Aldo Rasega, l’assalto alla Casa del Fascio di Sesto San Giovanni e tante altre. La reazione nazista e fascista fu dura con rastrellamenti e deportazioni di massa. Nel Dicembre del ’43 tra l’Arena ed il Poligono di Milano vennero fucilati 13 partigiani.
Nel Febbraio del 1945 il movimento partigiano riprese forza anche grazie all’arrivo da Torino del Comandante Visone, Giovanni Pesce. A Giugno, in fuga da Roma liberata dagli Alleati, giunsero a Milano i tristemente noti torturatori fascisti della Banda Koch che si insediarono presso la Villa Fossati in Via Paolo Uccello.
Il mesi di Luglio ed Agosto videro una recrudescenza repressiva con diverse fucilazioni di partigiani in città ed in provincia.
Del resto, tra il 21 Luglio e il 25 Settembre 1944 i Tedeschi lamentarono 624 caduti, 993 feriti e 872 dispersi a causa di attacchi della Resistenza che, a propria volta, ebbe nello stesso periodo 9250 caduti. Questo poneva la Resistenza italiana ai primi posti come livello di efficienza solo dietro a quella sovietica ed a quella jugoslava. Il 10 Agosto su ordine del Comando della Sicurezza (SD) tedesca a Milano furono prelevati da San Vittore 15 partigiani. La loro fucilazione avvenne all’alba.
I nazisti, al comando del capitano delle SS Theodor Saevecke, giustificarono la strage come risposta all’attentato contro un camion tedesco avvenuto in Viale Abruzzi l’8 Agosto 1944. Quell’attentato, mai rivendicato, non fece alcuna vittima tra i Tedeschi.
Si trattò quindi di un’operazione di puro terrore poiché il famigerato Bando Kesselring (comandante delle truppe tedesche in Italia) prevedeva la fucilazione di 10 Italiani per ogni soldato tedesco caduto. I corpi, lasciati esposti per l’intera giornata ed insultati dai militi della Muti furono rimossi solo in serata.
Questo feroce episodio aumentò a dismisura l’odio ed il risentimento dei Milanesi contro tedeschi e fascisti.

Questi i nomi dei 15:

Gian Antonio Bravin, 36 anni
Giulio Casiraghi, 44 anni
Renzo del Riccio, 20 anni
Andrea Esposito, 45 anni
Domenico Fiorani, 31 anni
Umberto Fogagnolo, 42 anni
Tullio Galimberti, 21 anni
Vittorio Gasparini, 31 anni
Emidio Mastrodomenico, 21 anni
Angelo Poletti, 32 anni
Salvatore Principato, 51 anni
Andrea Ragni, 22 anni
Eraldo Soncini, 43 anni
Libero Temolo, 37 anni
Vitale Vertemati, 26 anni

Questo è un brano dell’ultima lettera di Umberto Fogagnolo alla moglie:

“Ho vissuto ore febbrili ed ho giocato il tutto per tutto. Per i nostri figli e per il tuo avvenire è bene tu sia al corrente di tutto. Qui ho organizzato la massa operaia che ora dirigo verso un fine che io credo santo e giusto. Tu Nadina mi perdonerai se oggi gioco la mia vita. Di una cosa però è bene che tu sia certa. Ed è che io sempre e soprattutto penso ed amo te e i nostri figli. V’è nella vita di ogni uomo però un momento decisivo nel quale chi ha vissuto per un ideale deve decidere ed abbandonare le parole”

6 agosto 1945 – 9 agosto 1945: Hiroshima e Nagasaki

L’Anpi di Mirano ricorda il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, crimine contro l’umanità, avvenuto il 6 e 9 agosto 1945 e invita tutti i cittadini ad essere presenti, venerdì 9 agosto alle ore 11, presso la sede municipale in piazza Martiri a Mirano, alla commemorazione di questa tragedia che ha colpito non solo il popolo giapponese ma tutto il genere umano e gli esseri viventi.

Alla cerimonia sarà presente la sindaca Maria Rosa  Pavanello.

Il Centro Pace  e la Rete degli Studenti Medi del comune di Mirano aderisce e fa propria questa iniziativa.

Agli scettici, agli agnostici, a tutti coloro che: ”ci si sporca le mani ad essere partecipi delle cose del mondo” diciamo: “al nostro posto abbiamo collocato altri, anzi pochi altri, questi, attraverso un uso sofisticato delle immagini e delle parole, stanno imprimendo alla vita del mondo un corso da loro voluto, un corso da cui dipende l’essere e il non essere dell’umanità.” (Gunther Anders)

E non dite che non lo sapevate

 

Come da qualche anno a questa parte, la Città di Busto Arsizio commemora l’anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, dove nel 1945 vennero sganciate le bombe atomiche che provocarono decine di migliaia di morti.
Alle 11.30 di martedì 6 agosto, anniversario del lancio della prima bomba su Hiroshima, il Tempio civico Sant’Anna ospiterà un momento di riflessione: l’iniziativa, che raccoglie l’insegnamento del cittadino benemerito Angioletto Castiglioni, è promossa dall’Amministrazione comunale, dal Comitato Amici del Tempio Civico, e dalla sezione varesina di JCI (Junior Chamber International).
Nel 2009 la Città è stata tra le prime in Italia a promuovere, grazie ad Angioletto Castiglioni, al Comitato e alla Jci, il ricordo della tragedia nucleare. Un impegno nato dalla visita al Tempio Civico e alla Città effettuata nel 2008 da Kentaro Harada, nel 2011 presidente internazionale della JCI, originario della Prefettura di Hiroshima.
Questa collaborazione ha portato a molteplici iniziative, tra cui seminari per l’educazione degli studenti alla pace e l’adesione della Città di Busto Arsizio alla rete internazionale dei Mayors for Peace, un’organizzazione non governativa fondata dalle città di Hiroshima e di Nagasaki con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari.
Un’altra iniziativa è quella dei “Beati i costruttori di pace” che dal 6 al 9 agosto, i giorni di Hiroshima e Nagasaki, organizza un percorso con gli Amici della bicicletta per sensibilizzare le popolazioni e coinvolgere gli amministratori delle Comunità locali, promuovendo anch’essa l’adesione all’ associazione mondiale Mayors for Peace. Il percorso inizia a Cormons il 5 agosto e si conclude il 9 ad Aviano, l’aereoporto militare americano dove c’è uno dei depositi degli ordigni nucleari in Italia,  con la cerimonia di commemorazione di Nagasaki alla quale tutti sono invitati a partecipare.

Apritemi sono io…
busso alla porta di tutte le scale
ma nessuno mi vede
perché i bambini morti nessuno riesce a vederli.
Sono di Hiroshima
e là sono morta
tanti anni fa.Tanti anni passeranno.
Ne avevo sette, allora: anche adesso ne ho sette
perché i bambini morti non diventano grandi.
Avevo dei lucidi capelli, il fuoco li ha strinati,
avevo dei begli occhi limpidi, il fuoco li ha fatti di vetro.
Un pugno di cenere, quella sono io
poi anche il vento ha disperso la cenere.
Apritemi, vi prego non per me
perché a me non occorre né il pane né il riso,
non chiedo neanche lo zucchero, io,
a un bambino bruciato come una foglia secca non serve.
Per piacere mettete una firma,
per favore, uomini di tutta la terra
firmate, vi prego, perché il fuoco non bruci i bambini
e possano sempre mangiare lo zucchero.

Nâzım Hikmet (Poesie, Editori Riuniti)

3 agosto 1944: strage della famiglia Einstein

In località “Le Corti”, risiede, nella tenuta “Il Focardo”, di sua proprietà, l’Ing. Roberto Einstein, cugino di Albert Einstein, il grande fisico americano, assieme alla moglie ed a due figlie. Gli Einstein sono Ebrei e le due figlie, in seguito alle leggi razziali sono state escluse dagli studi. Luce, la maggiore, dall’Università, Cici, la minore, dalle Scuole Medie. Il fattore ed i contadini sono affezionati agli Einstein e li proteggono. Gran parte della Villa è stata requisita dal comando germanico e c’è sempre un via-vai di ufficiali nazisti, che-però -non danno alcuna molestia né minacciano la vita di quelle persone perseguitate dal fascismo. Ai primi di agosto 1944 nella zona si verifica la ritirata delle forze armate del 30 reich, tallonate dalle armate anglo-arnericane. L’Ing. Einstein, per le insistenze del Fattore e dei contadini, si ritira nel folto del bosco per sfuggire a possibili pericoli della soldataglia abbrutita in fuga. Nel tardo pomeriggio del 3 agosto 1944 giunge al “Focardo” una pattuglia di SS che vuole riposare e pretende di avere vitto e vino. Poi, alle ore 20.00 quei soldati criminali catturano la Signora Einstein e le due figlie, che si trovano in una cantina con un gruppo di contadine e trascinano le tre sventurate nella Villa. Nell’interno dell’immobile, certamente si svolge un pressante interrogatorio. Quei criminali vogliono ad ogni costo catturare Robert Einstein, già cittadino germanico, fuggito in tempo dalla Patria, per trovare rifugio in Italia. Ad un tratto la Signora Einstein, accompagnata da due aguzzini, esce dalla Villa e gira per i campi, chiamando a gran voce il marito. Ma i contadini ed il Fattore riescono a tenerlo in salvo tra loro ed i nazisti riportano la povera donna nella Villa, poiché i tentativi di catturare l’Ingegnere con i suoi ripetuti richiami si sono dimostrati inutili. Poi, d’improvviso, la quiete notturna è scossa da raffiche di mitraglia e subito dopo, dalla zona in cui si erge la villa si alzano alte fiamme. Sono le prime ore del 4 agosto 1944 …Le SS hanno assassinato le tre donne. Sembra che esse siano state violentate prima di venire uccise e, quindi, la villa è stata data alle fiamme. Undici mesi dopo, sull’unica tomba, racchiudente le tre salme straziate dal piombo e intaccate dall’incendio, l’Ing. Robert Einstein si toglierà la vita. (da http://almanaccoresistente.wordpress.com)
http://it.wikipedia.org/wiki/Strage_della_famiglia_Einstein