6 giugno 1944: Forte Tombion, “l’atto di sabotaggio più importante dell’ultimo conflitto”.

Se andate a Bassano del Grappa e poi proseguite per la statale della Valsugana verso Trento, dopo Cismon del Grappa, dove la valle si fa più stretta, c’è quello che resta del Forte Tombion. Costruito nel 1885, faceva parte del sistema di fortificazioni denominato “Fortezza Brenta – Cismon”. Tagliato fuori dalle operazioni belliche fin dall’inizio del conflitto 1915-18, il forte Tombion divenne un semplice magazzino di transito e venne parzialmente demolito dagli italiani dopo il ripiegamento sul Monte Grappa. Nella primavera del ’44 i tedeschi avevano depositato una grossa quantità di esplosivo che doveva servire per la costruzione di una linea di difesa per contrastare l’avanzata degli alleati. Era verso la fine di maggio del 1944 quando pervenne la richiesta alleata di sabotare la linea ferroviaria che collegava Trento a Bassano percorrendo la Valsugana; una richiesta motivata dal fatto che, a causa dei continui bombardamenti aerei sulla linea del Brennero, una buona parte del traffico militare tedesco transitava proprio su quella linea. Nella ricognizione della zona emerse che, nel punto più stretto della Valsugana, dove la ferrovia e la strada statale si lambiscono, sorgeva il Tombion, di fronte al quale vi era l’omonima galleria ferroviaria: ambedue obiettivi sui quali si sarebbe dovuto intervenire. Così venne deciso di attaccare il deposito ed utilizzare l’esplosivo per sabotare la ferrovia. L’azione ebbe inizio alle ore 22,00 del 6 giugno 1944. “Bruno” Paride Brunetti (comandante della Brigata Garibaldi “Antonio Gramsci” di Feltre), unitamente ad un nucleo appartenente alla resistenza, riuscì ad entrare nel forte dopo aver disarmato il corpo di guardia. Si misero quindi in atto tutti quegli accorgimenti necessari per il trasporto dell’esplosivo in un punto cruciale della galleria e si provvide alla evacuazione degli abitanti della zona. Si diede, infine, fuoco ad una lunga miccia: era l’una del 7 giugno quando una violentissima esplosione distrusse la galleria per una trentina di metri, interrompendo la comunicazione ferroviaria su quella tratta. A dare notizia dell’accaduto fu anche Radio Londra che plaudì all’azione. Sulla via del ritorno, tra i monti, “Bruno” e i suoi compagni si imbatterono in una pattuglia tedesca: esaurite le munizioni egli fece allontanare i compagni e da solo, contro la reazione di fuoco nemica, si portò a distanza ravvicinata e lanciò cariche esplosive determinando la resa dei tedeschi. Nel 1947 egli venne insignito della Medaglia d’Argento al V.M. dall’allora Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi. La città di Feltre e quella di Vittorio Veneto gli conferirono la cittadinanza onoraria. Più tardi, a Milano, Brunetti riceverà dal generale Clark, comandante la Quinta Armata, la “Bronze Medal Star”, assieme a Raffaele Cadorna e a Ferruccio Parri. Terminata la guerra “Bruno” proseguì nella carriera militare ma, nel 1958 al momento dell’avanzamento di carriera dal grado di maggiore a quello di tenente colonnello, nonostante il parere favorevole della commissione a ciò preposta, l’allora Ministro della Difesa, a suo insindacabile giudizio, lo dichiarò inidoneo alla promozione: un partigiano combattente non sarebbe stato affidabile per ricoprire alti incarichi nell’Esercito italiano! Fu una vittima del maccartismo scelbiano. Congedatosi dall’esercito, tornò alla vita civile.
Il 26 maggio 2010 Brunetti partecipò alla cerimonia di inaugurazione della lapide posta dal Comune di Padova sulla facciata di casa Zamboni a ricordo di quel piccolo gruppo di Patrioti che iniziarono la Resistenza militare nel settembre del ’43. I documenti storici tramandano i nomi di nove di quei Patrioti, tre dei quali morirono per l’Italia, chi in combattimento, chi fucilato, chi impiccato sulla forca. Altri tre furono imprigionati e torturati.
In quella occasione Paride Brunetti ricevette dal Sindaco Zanonato il Sigillo della città di Padova e incontrò un folto gruppo di giovani studenti padovani e li invitò ad aspirare ad un mondo migliore, cercando la concordia e ripudiando la guerra che produce solo distruzione, esortando i presenti ad attuare la nostra Costituzione “scritta col sangue e con gli impiccati”.

È morto il 9 gennaio 2011 a Saronno.

http://www.cismon.it/Azione_partigiana_al_Forte_Tombion.html

Per una storia della brigata “Gramsci”: http://www.croxarie.it/index.php?option=com_content&view=article&id=179:resistenza-costituzione-del-gruppo-brigate-antonio-gramsci&catid=36:documenti&Itemid=248

La storia del sabotaggio nelle pagine del diario della partigiana “Gina”: https://docs.google.com/file/d/0B9EZVVVyy4LjTFR2MzdLQVoyOE0/edit

Lelio Basso ringrazia Arnaldo Forlani per aver sospeso la parata militare del 2 giugno 1976 dopo il terremoto in Friuli.

Immagino che pochi ricordino chi sia stato Lelio Basso, una delle personalità più importanti nella storia politica dell’Italia del Novecento. Giurista di formazione e rivoluzionario per vocazione, Basso diede un contributo decisivo alla stesura della Costituzione repubblicana  (è stato il principale autore dell’articolo 3 della Costituzione, quello sull’eguaglianza dei diritti sociali) e fu teorico del socialismo, della democrazia pluralista e dei diritti civili: la sua è una storia esemplare e un anedotto sulla sua figura lo racconta Piero Martinetti (1872-1943) che fu tra i migliori italiani del Novecento. Professore di filosofia teoretica a Milano, formò generazioni di allievi (ma non di discepoli). Antifascista, fu uno dei 12 docenti (su oltre 1200!) che nel 1931 si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, perdendo così la cattedra. Quando il socialista Lelio Basso, condannato al confino di Ponza nel 1928, si presentò scortato dagli agenti all’esame di filosofia, Martinetti cominciò a interrogarlo, ma presto lo interruppe più o meno con queste parole: «Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo Lei ha dimostrato di conoscerla molto bene. Qui il maestro è Lei. Vada, trenta e lode».

E questa è la lettera che Lelio Basso scrisse a Arnaldo Forlani (in quel periodo ministro della difesa nel governo Moro) per ringraziarlo di aver sospeso la parata militare dopo il terremoto del Friuli.

Sono personalmente grato al ministro Forlani per avere deciso la sospensione della parata militare del 2 giugno, e naturalmente mi auguro che la sospensione diventi una soppressione.
Non avevo mai capito, infatti, perché si dovesse celebrare la festa nazionale del 2 giugno con una parata militare. Che lo si facesse per la festa nazionale del 4 novembre aveva ancora un senso: il 4 novembre era la data di una battaglia che aveva chiuso vittoriosamente la prima guerra mondiale. Ma il 2 giugno fu una vittoria politica, la vittoria della coscienza civile e democratica del popolo sulle forze monarchiche e sui loro alleati: il clericalismo, il fascismo, la classe privilegiata. Perché avrebbe dovuto il popolo riconoscersi in quella sfilata di uomini armati e di mezzi militari che non avevano nulla di popolare e costituivano anzi un corpo separato, in netta contrapposizione con lo spirito della democrazia?
C’era in quella parata una sopravvivenza del passato, il segno di una classe dirigente che aveva accettato a malincuore il responso popolare del 2 giugno e cercava di nasconderne il significato di rottura con il passato, cercava anzi di ristabilire a tutti i costi la continuità con questo passato. Certo, non si era potuto dopo il 2 giugno riprendere la marcia reale come inno nazionale, ma si era comunque cercato nel passato l’inno nazionale di una repubblica che avrebbe dovuto essere tutta tesa verso l’avvenire, avrebbe dovuto essere l’annuncio di un nuovo giorno, di una nuova era della storia nazionale. Io non ho naturalmente nulla contro l’inno di Mameli, che esalta i sentimenti patriottici del Risorgimento, ma mi si riconoscerà che, essendo nato un secolo prima, in circostanze del tutto diverse, non aveva e non poteva avere nulla che esprimesse lo spirito di profondo rinnovamento democratico che animava il popolo italiano e che aveva dato vita alla Repubblica.
La Costituzione repubblicana, figlia precisamente del 2 giugno, aveva scritto nell’articolo primo che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Una repubblica in primo luogo. E invece quel tentativo di rinverdire glorie militari che sarebbe difficile trovare nel passato, quel risuonare di armi sulle strade di Roma che avevano appena cessato di essere imperiali, quell’omaggio reso dalle autorità civili della repubblica alle forze armate, ci ripiombava in pieno nel clima della monarchia, quando il re era il comandante supremo delle forze armate, “primo maresciallo dell’impero”. Le monarchie, e anche quella italiana, eran nate da un cenno feudale e la loro storia era sempre stata commista alla storia degli eserciti: non a caso i re d’Italia si eran sempre riservati il diritto di scegliere personalmente i ministri militari, anziché lasciarli scegliere, come gli altri, dal presidente del consiglio. Ma che aveva da fare tutto questo con una repubblica che, all’art. 11 della sua costituzione, dichiarava di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali? Tradizionalmente le forze armate avevano avuto due compiti: uno di conquista verso l’esterno e uno di repressione all’interno, e ambedue sembravano incompatibili con la nuova costituzione repubblicana.
Repubblica democratica in secondo luogo. In una democrazia sono le forze armate che devono prestare ossequio alle autorità civili, e, prima ancora, devono, come dice l’art. 52 della costituzione, uniformarsi allo spirito democratico della costituzione. Ma in questa direzione non si è fatto nulla e le forze armate hanno mantenuto lo spirito caratteristico del passato, il carattere autoritario e antidemocratico dei corpi separati, sono rimaste nettamente al di fuori della costituzione. I nostri governanti hanno favorito questa situazione spingendo ai vertici della carriera elementi fascisti, come il gen. De Lorenzo, ex-comandante dei carabinieri, ex-capo dei servizi segreti ed ex-capo di stato maggiore, e, infine, deputato fascista; come l’ammiraglio Birindelli, già assurto a un comando Nato e poi diventato anche lui deputato fascista; come il generale Miceli, ex-capo dei servizi segreti e ora candidato fascista alla Camera. Tutti, evidentemente, traditori del giuramento di fedeltà alla costituzione che bandisce il fascismo, eppure erano costoro, come supreme gerarchie delle forze armate, che avrebbero dovuto incarnare la repubblica agli occhi del popolo, sfilando alla testa delle loro truppe, nel giorno che avrebbe dovuto celebrare la vittoria della repubblica sulla monarchia e sul fascismo. E già che ho nominato De Lorenzo e Miceli, entrambi incriminati per reati gravi, e uno anche finito in prigione, che dire della ormai lunga lista di generali che sono stati o sono ospiti delle nostre carceri per reati infamanti? Quale prestigio può avere un esercito che ha questi comandanti? E quale lustro ne deriva a una nazione che li sceglie a proprio simbolo?
Infine, non dimentichiamolo, questa repubblica democratica è fondata sul lavoro. Va bene che, nella realtà delle cose, anche quest’articolo della costituzione non ha trovato una vera applicazione. Ma forse proprio per questo non sarebbe più opportuno che lo si esaltasse almeno simbolicamente, che a celebrare la vittoria civile del 2 giugno si chiamassero le forze disarmate del lavoro che sono per definizione forze di pace, forze di progresso, le forze su cui dovrà inevitabilmente fondarsi la ricostruzione di una società e di uno stato che la classe di governo, anche con la complicità di molti comandanti delle forze armate, ha gettato nel precipizio?
Vorrei che questo mio invito fosse raccolto da tutte le forze politiche democratiche, proprio come un segno distintivo dell’attaccamento alla democrazia. E vorrei terminare ancora una volta, anche se non sono Catone, con un deinde censeo: censeo che il reato di vilipendio delle forze armate (come tutti i reati di vilipendio) è inammissibile in una repubblica democratica.

Lettera aperta di Alessandra Kersevan al Presidente Napolitano

1 maggio 1954: l’Unità riferisce della sentenza del processo di appello

Esimio Presidente,
Nella sua visita in Friuli Lei si fermerà anche a Faedis, uno dei paesi della Repubblica partigiana del Friuli Orientale, un’esperienza importantissima ed esaltante della guerra di liberazione, in cui gli abitanti di queste terre poterono, prima della fine della guerra e della vittoria sul nazifascismo, sperimentare alcuni tratti di democrazia e di autogoverno, dopo oltre vent’anni di dittatura fortemente centralistica, che aveva represso in particolare le numerose minoranze presenti nella nostra regione, prime fra tutte quella slovena. A questa esperienza, sviluppatasi dalla collaborazione delle varie componenti della Resistenza, diedero un determinante contributo i partigiani garibaldini, e fra essi molti erano gli aderenti a quel partito comunista italiano, di cui lei stesso ha fatto parte per decenni. Leggi tutto “Lettera aperta di Alessandra Kersevan al Presidente Napolitano”

23 maggio 1992: strage di Capaci

Sono passati 20 anni da quando la mafia uccise il magistrato Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro. Gli esecutori sono stati presi ma i mandanti sono ancora liberi. Così come sono liberi i mandanti della strage di via D’Amelio in cui morirono il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta, Emanuela Loi (prima agente donna a far parte di una scorta e a morire in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Questi sono i nomi che non dovremo dimenticare. Sono i nomi che conosciamo. E gli altri? Chi sono i mandanti delle stragi che hanno avvelenato il nostro Paese? Di chi la colpa per gli armadi nascosti, le agende rosse sparite, la giustizia negata? Di certo, come dice Wu Ming, “una società civile ansiosa e impaurita, nonché mobilitata sulla base della paura, è una società che tira la carretta a capo chino, più disposta a delegare scelte cruciali, più disposta ad accettare ogni politica che si annunci ansiolitica, senz’altro meno disposta a recepire le istanze dei movimenti. Movimenti che il potere addita all’opinione pubblica come piantagrane contrari al blocco d’ordine, pardon, alla concordia nazionale”. E allora? Le risposte forse le sappiamo ma vorremo averle davanti agli occhi, in un articolo di giornale che annunci a caratteri cubitali “Ecco i nomi dei mandanti delle stragi!”, con tanto di foto in prima pagina…chissà magari un giorno si riuscirà a sapere quello che tutti sappiamo e che Pier Paolo Pasolini ci aveva già indicato nel lontano 14 novembre del 1974:

Cos’è questo golpe? Io so

di Pier Paolo Pasolini

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato “golpe” (e che in realtà è una serie di “golpe” istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del “vertice” che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di “golpe”, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli “ignoti” autori materiali delle stragi più recenti. Leggi tutto “23 maggio 1992: strage di Capaci”

Dante Di Nanni

Il 18 maggio ricorre l’anniversario della morte di una figura storica dell’antifascismo italiano: quella di Dante Di Nanni, giovane militante dei GAP torinesi, ucciso nel 1944, all’età di 19 anni, dalle truppe nazifasciste.
E’ il 17 maggio del ’44 quando Di Nanni, assieme ai compagni Giuseppe Bravin, Giovanni Pesce e Francesco Valentino, effettua un attacco ad una stazione radio che disturbava le comunicazioni di Radio Londra. Prima dell’azione, il gruppo di Gappisti disarma i militari preposti alla difesa della stazione e decide di graziarli in cambio della promessa di non dare l’allarme; ma i nove soldati tradiscono l’accordo e, ad azione terminata, i quattro partigiani vengono sorpresi ed attaccati da un gruppo di nazifascisti. Ne segue uno scontro a fuoco in cui Bravin e Valentino vengono feriti e catturati; portati alle carceri Le Nuove, saranno torturati a lungo ed infine impiccati il 22 Luglio: Bravin aveva 22 anni, Valentino 19. Anche Pesce e Di Nanni vengono colpiti durante lo scontro, ma il primo riesce a portare in salvo il compagno più giovane, gravemente ferito da 7 proiettili. Di Nanni viene trasportato nella base di San Bernardino 14, a Torino, dove un medico ne consiglia l’immediato ricovero in ospedale; Giovanni Pesce, allora, si allontana dall’abitazione per cercare aiuto e organizzare il trasporto del compagno, ma al suo ritorno trova la casa circondata da fascisti e tedeschi, avvertiti della presenza dei Gappisti dalla soffiata di una spia. Nonostante le gravi condizioni in cui versava, Di Nanni rifiuta di consegnarsi al nemico e resiste a lungo all’attacco nazifascista, barricandosi nell’appartamento del terzo piano e riuscendo ad eliminare diversi soldati tedeschi e fascisti con le munizioni rimastegli. La sua eroica resistenza è riportata dalle parole dello stesso Giovanni Pesce che assistette in prima persona alla scena:

«Ora tirano dalla strada, dal campanile e dalle case più lontane. Gli sono addosso, non gli lasciano scampo. Di Nanni toglie di tasca l’ultima cartuccia, la innesta nel caricatore e arma il carrello. Il modo migliore di finirla sarebbe di appoggiare la canna del mitra sotto il mento, tirando il grilletto poi con il pollice. Forse a Di Nanni sembra una cosa ridicola; da ufficiale di carriera. E mentre attorno continuano a sparare, si rovescia di nuovo sul ventre, punta il mitra al campanile e attende, al riparo dei colpi. Quando viene il momento mira con cura, come fosse a una gara di tiro. L’ultimo fascista cade fulminato col colpo. Adesso non c’è più niente da fare: allora Di Nanni afferra le sbarre della ringhiera e con uno sforzo disperato si leva in piedi aspettando la raffica. Gli spari invece cessano sul tetto, nella strada, dalle finestre delle case, si vedono apparire uno alla volta fascisti e tedeschi. Guardano il gappista che li aveva decimati e messi in fuga. Incerti e sconcertati, guardano il ragazzo coperto di sangue che li ha battuti. E non sparano. È in quell’attimo che Di Nanni si appoggia in avanti, premendo il ventre alla ringhiera e saluta col pugno alzato. Poi si getta di schianto con le braccia aperte nella strada stretta, piena di silenzio.»

(Giovanni Pesce, Senza tregua – La guerra dei GAP, Feltrinelli, 1967)
Nel 1945 viene insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare.
A 68 anni di distanza dalla sua morte, vogliamo ricordare Dante Di Nanni come un esempio a cui guardare per la determinazione e la forza con cui, assieme a tanti antifascisti e a tante antifasciste, scelse la strada della Resistenza e della lotta contro l’oppressione nazifascista.

http://it.wikipedia.org/wiki/Dante_Di_Nanni

http://www.museodiffusotorino.it/luoghi.aspx?id=20

Milano: omaggio ai soldati sovietici caduti in Italia combattendo per la democrazia

L’Anpi di Milano ha reso omaggio ai soldati sovietici caduti in Italia combattendo per la democrazia.
Alleghiamo di seguito l’intervento di Roberto Cenati, presidente Anpi provinciale di Milano, nell’ambito delle celebrazioni per ricordare la fine della seconda guerra mondiale.
Riteniamo di fondamentale importanza celebrare questo momento storico, a volte anche il silenzio può servire al revisionismo storico.

Il monumento davanti al quale siamo oggi raccolti è dedicato ai partigiani sovietici caduti in Italia, combattendo nelle fila del Corpo Volontari della Libertà.
In questo campo del Cimitero maggiore di Milano, riposano 8 soldati sovietici, tutti giovanissimi, prigionieri di guerra, vittime di incursioni aeree tra il 1942 e il 1943. Leggi tutto “Milano: omaggio ai soldati sovietici caduti in Italia combattendo per la democrazia”

18 Maggio: “Fascist Legacy” in Sala Errera a Mirano

“So che a casa vostra siete dei buoni padri di famiglia, ma qui voi non sarete mai abbastanza ladri, assassini e stupratori” Benito Mussolini ai soldati della Seconda Armata in Dalmazia, 1943.

Fascist Legacy (“L’eredità del fascismo”) è un documentario in due parti sui crimini di guerra commessi dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, realizzato e mandato in onda nei giorni 1 ed 8 novembre 1989 dalla BBC.
La prima parte tratta dei crimini di guerra commessi durante l’invasione italiana dell’Etiopia e nel Regno di Jugoslavia. Enfasi vi viene posta sull’impiego dell’iprite, o gas mostarda, da parte del Generale Pietro Badoglio, sui bombardamenti di ospedali della Croce Rossa e sulle rappresaglie dopo un attentato contro l’allora Governatore italiano dell’Etiopia. La sezione che esamina l’occupazione della Jugoslavia cita gli oltre 200 campi di prigionia italiani sparsi nei Balcani, in cui morirono 250.000 internati (600.000 secondo il governo jugoslavo), e si sofferma sulle testimonianze relative al campo di concentramento di Arbe (Rab in lingua serbo-croata) e sulle atrocità commesse nel villaggio croato di Podhum, presso Fiume.
La seconda parte tratta del periodo successivo alla capitolazione italiana nel 1943 e si rivolge principalmente all’ipocrisia mostrata tanto dagli USA quanto soprattutto dai britannici in questa fase. L’Etiopia, la Jugoslavia e la Grecia richiesero l’estradizione di 1.200 criminali di guerra italiani (i più attivamente ricercati furono Pietro Badoglio, Mario Roatta e Rodolfo Graziani), sugli atti dei quali fu fornita una completa documentazione. Entrambi i governi alleati videro però in Badoglio anche una garanzia per un dopoguerra non comunista in Italia, e fecero del loro meglio per ritardare tali richieste fino al 1947 quando i Trattati di Parigi restituirono la piena sovranità al paese: gli stati sovrani in genere non estradano i propri cittadini. L’unico ufficiale italiano mai perseguito e condannato a morte da un tribunale britannico fu un antifascista, Nicola Bellomo, responsabile della morte di prigionieri di guerra britannici. La voce narrante originale è di Michael Palumbo, storico americano autore del libro “L’olocausto rimosso”, edito -in Italia- da Rizzoli. Vengono inoltre intervistati gli storici italiani Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Claudio Pavone e il britannico David Ellwood.
I diritti dell’opera, tradotta in lingua italiana dal regista Massimo Sani, furono acquistati dalla RAI nel 1991, ma il documentario non venne mai mandato in onda. L’emittente La7, invece, trasmise degli ampi stralci di Fascist Legacy nel 2004 all’interno del programma Altra Storia.

In compenso la Rai il 7 febbraio 2005 (in occasione della Giornata del Ricordo), trasmise lo sceneggiato “Il Cuore nel Pozzo” che in sostanza è un impianto di memoria artificiale stile “Total Recall”: durante la seconda guerra mondiale, un’Italiana residente in Slovenia e il suo bambino, frutto della violenza subita da un partigiano sloveno, son minacciati dalla furia slava del partigiano, che vorrebbe trucidare lei e il bimbo. Sarà un prete italiano, don Bruno, a metterli in salvo. Il pozzo è ovviamente la foiba dove finirà don Bruno.
Non venne trasmesso “Fascist Legacy” perché in quel documento si racconta che gli Italiani che invasero l’ex Jugoslavia fecero un carnaio: distrussero e incendiarono interi villaggi, giustiziarono, violentarono e torturarono, gestirono campi di concentramento, dove si andava a morire anche per il semplice fatto di NON essere italiani.

Una giornata per la Memoria, una per il Ricordo. Cosa succede quando la memoria storica più imbarazzante viene annullata? Che si creano ricordi falsi per riempire il vuoto. Il documentario “Fascist Legacy” sarebbe una buona cura ma la Rai non lo manda in onda. Da 23 anni.

Numerose sezioni dell’Anpi e altrettante organizzazioni antifasciste l’hanno proiettato in questi anni in tutta Italia e adesso lo proietta l’Anpi di Mirano nella Sala Conferenze di Villa Errera il giorno 18 maggio alle ore 20.30. Ingresso libero.

Qui il video completo:

http://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys&feature=plcp

Ancora raduni nazifascisti…

“In testa la bandiera della Tagliamento, segue la corona, i gagliardetti”…Le immagini sono un po’ sfocate ma il senso è chiarissimo: puro revisionismo storico, raduno di stampo fascista senza neologismi a edulcorarne la forma. Il video:

  è stato inserito qualche giorno fa in tutte le cassette postali del Comune di Rovetta, in provincia di Bergamo, è stato girato nel 2009.
Il piccolo documentario, di 35 minuti, è opera di un gruppo che si chiama “Ribelli della montagna”. Il loro obiettivo è divulgare informazioni su questa vergognosa ricorrenza. L’informazione si sta effettivamente diffondendo in provincia, tant’è che sono iniziate alcune prime discussioni su eventuali e sperate mobilitazioni che impediscano il prodursi di questa parata. Leggi tutto “Ancora raduni nazifascisti…”

9 Maggio Giorno della Vittoria (день Победы)

Il 9 maggio è il Giorno della Vittoria in memoria della capitolazione della Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale.
La resa fu firmata nella tarda sera dell’8 maggio 1945 (già il 9 maggio a Mosca), in seguito alla capitolazione concordata in precedenza con le forze alleate sul fronte occidentale. Il governo sovietico annunciò la vittoria la mattina del 9 maggio, dopo la cerimonia di firma avvenuta a Berlino. Leggi tutto “9 Maggio Giorno della Vittoria (день Победы)”

9 maggio: Peppino Impastato

Il 9 maggio 1978 veniva ucciso dalla mafia siciliana Peppino Impastato. Questo è un post degli A67 pubblicato il 9 maggio del 2011:

Peppino Impastato e l’arma della memoria

Credo che, in un clima politico come quello italiano, in cui la bussola sembra impazzita e la sfiducia nei confronti delle istituzioni e della politica in generale ha raggiunto livelli difficilmente eguagliabili, la memoria sia l’unica arma capace di far luce sul nostro presente e dar forma al  futuro restituendo senso alle nostre azioni. Leggi tutto “9 maggio: Peppino Impastato”