10 novembre 1943: bombardamento di Recco

Recco nel 1942
Recco nel 1945

Recco è l’unica città del Levante dove non è più possibile individuare il centro storico. Le sue strade, i suoi “caruggi”, le sue piazzette, furono distrutte dai ventisette bombardamenti aerei degli Alleati effettuati tra il 10 novembre 1943 e il 28 agosto 1944. Essi provocarono oltre 127 vittime civili e altrettanti feriti e la distruzione di oltre il 90 per cento dell’abitato urbano. Obiettivo di tali bombardamenti era il viadotto ferroviario, la cui distruzione (assieme a quello della vicina Zoagli) avrebbe dovuto isolare la riviera di Levante dal capoluogo regionale. La sera del primo bombardamento, ricordano i sopravvissuti, tutto era tranquillo nella cittadina: nelle abitazioni, nei locali pubblici, nel “cinematografo”, dove si proiettava “La primula rossa”. Dal rapporto della squadriglia della Raf britannica che operò quella notte apprendiamo inoltre che la notte era serena, la luna piena era alta nel cielo e illuminava il mare, la costa, il paese, le colline. La luminosità aumentò allorquando, iniziando l’attacco, gli aerei liberarono grappoli di bengala dalla luce intensissima. Sorvolando Recco da levante a ponente, uno dopo l’altro gli aerei, in un carosello che si prolungò per quaranta minuti, sganciarono il loro carico di bombe, cercando di centrare il viadotto ferroviario (che subì pochi danni), ma colpendo a morte il paese. La strage del 10 novembre consigliò buona parte della popolazione a cercare scampo nelle case e nelle ville dell’estrema periferia, nei centri vicini. Quanti non ebbero il tempo di abbandonare la propria casa e la propria città, ebbero l’amara sorpresa di subire una seconda incursione il successivo 26 novembre. Tre grosse formazioni di bombardieri sganciarono oltre 300 bombe dirompenti. Altre 34 vittime si aggiunsero a quelle del primo bombardamento. I feriti furono una settantina. Andarono distrutte circa 300 case, colpiti il palazzo comunale e la chiesa parrocchiale vennero colpiti. Quello del 1943 fu il vero e primo Natale di guerra dei recchesi, sparsi ormai fuori dal loro paese. Seguirono poi altri 25 incursioni, talvolta “a tappeto” con la partecipazione di decine di bombardieri, talvolta portate da squadriglie più piccole. Ogni volta il viadotto subiva danni più o meno pesanti, ma, grazie all’intervento delle truppe del genio, il traffico ferroviario veniva ogni volta riattivato. Il 29 giugno e il 10 luglio ulteriori bombardamenti sganciarono le bombe su una Recco già irriconoscibile e colpirono il viadotto tanto gravemente da non potersi più considerare riparabile. Era la diciottesima incursione. Ne seguirono altre che martoriarono ancora la città già ridotta a un cumulo di macerie. L’ultima il 28 agosto 1944. Proprio a riconoscimento della forza dimostrata dagli abitanti nella ricostruzione della città, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 insignì il Comune di Medaglia d’oro al Merito Civile. Sette anni dopo, il presidente Carlo Azeglio Ciampi concesse a Recco il titolo di Città. (da http://www.terrediportofino.eu/)

7 novembre 1943: a Casera Spasema nasce il distaccamento garibaldino “Tino Ferdiani”

Il Distaccamento Garibaldi “Tino Ferdiani” (già “Luigi Boscarin”) fu il primo nucleo partigiano nato nell’area bellunese e fu intitolato inizialmente a Luigi Boscarin (o Buscarin) e successivamente a Tino Ferdiani, uno dei primi volontari morti durante un’azione del distaccamento.
Esso venne creato il 7 novembre 1943 presso la casera “Spàsema” di Lentiai per iniziativa del Comando Veneto delle Brigate Garibaldi ed alla presenza di uno dei suoi responsabili, Amerigo Clocchiatti “Ugo”. A partire da questo nucleo si sviluppò gran parte dell’organizzazione partigiana che nei mesi successivi si articolò nelle principali divisioni partigiane del Veneto: la “Divisione Belluno“, che operò nel territorio dell’omonima provincia, e la Divisione Nino Nannetti, che operò nella Sinistra Piave, nell’altipiano del Cansiglio, nell’area di Vittorio Veneto e nelle valli del Vajont.

Domenica 10 novembre festeggieremo il 70° anniversario, appuntamento a Lentiai alle ore 9. https://www.facebook.com/events/185439054981425/

La storia del distaccamento

6 novembre 1943: inizio della deportazione degli ebrei fiorentini

Una lapide al cimitero ebraico di Firenze

Un’irruzione nei locali della comunità ebraica di via Farini segnò, settanta anni fa, il destino di molti ebrei fiorentini. Era l’alba del 6 novembre 1943 quando i nazisti-fascisti decisero di colpire la comunità ebraica, circa trecento persone catturate e ammassate nella stazione di Santa Maria Novella, destinate a non tornare. A catturarle erano state le SS tedesche ma anche i militi italiani della Repubblica di Salò. Tre giorni dopo, il 9 novembre, i vagoni piombati partirono meta il campo di sterminio di Auschwitz, dove gli ebrei giunsero il 14 novembre: 193 prigionieri furono immediatamente uccisi nelle camere a gas. Nell’elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884. La più giovane era Lia Vitale, nata nel 1942, la più anziana Fanny Tedesco ed aveva 93 anni.
Come altrove, gli esecutori della soluzione finale furono molti. Innanzitutto gli occupanti tedeschi in azione fin da subito. Poi il Reparto Servizi Speciali della 92° legione della GNR, meglio noto come la “Banda Carità”, che alla guerra contro la Resistenza organizzata affiancò un notevole impegno anche nella caccia agli ebrei, se pur meno conosciuto.
Ma il protagonista più significativo e caratteristico delle persecuzioni antiebraiche fiorentine fu senza dubbio l’Ufficio Affari Ebraici, un organo della prefettura repubblicana. Le persecuzioni antiebraiche ebbero notevole importanza nel territorio del capoluogo toscano e l’impegno delle istituzioni della RSI in questa direzione fu intenso e continuativo in quegli undici mesi di governo. Dalla fine di dicembre 1943, l’Ufficio affari ebraici ebbe sede al numero 26 della centralissima via Cavour. Oggi c’è il Consiglio regionale toscano, allora era una proprietà requisita all’avvocato ebreo Bettino Errera. Di quell’antico proprietario sopravvive una minuscola targa sul campanello del primo piano. L’Ufficio affari ebraici operò a Firenze su larga scala e con poteri assai ampi: si occupò di razzie patrimoniali ma anche di arresti, realizzando un efficace controllo capillare sul territorio. Seppe “lavorare” ai fini di un’efficace sinergia tanto con la “Banda Carità” quanto con la questura di Firenze, fino ad essere in grado di coordinare tutta l’attività persecutoria coniugando la violenza di carnefici senza scrupoli, incaricati della parte sporca del lavoro, torture comprese, e un gran lavorio burocratico, necessario alle diverse fasi della persecuzione. L’Ufficio redigeva liste di ebrei ricercati, verbali di confisca e di arresto. Gestiva inoltre una rete piccola ma micidiale di delatori per condurre proprie indagini sui latitanti e i loro beni.
Inoltre era l’Ufficio a tenere la contabilità dei beni incassati e i rapporti con le banche e con gli altri uffici interessati ai sequestri patrimoniali, non senza appropriazioni indebite di denaro e di beni. A capo dell’Ufficio affari ebraici era Giovanni Martelloni, un avventuriero trentottenne, volontario reduce dall’Albania, amico di Carità e di Manganiello, il capo della Provincia della RSI. Proprio attraverso l’antisemitismo Martelloni divenne una figura di spicco della RSI fiorentina, distinguendosi sia per le sue disquisizioni estremistiche che per le pratiche persecutorie. Nel dopoguerra ci fu un processo contro le malversazioni di Martelloni e della sua “banda” ma si concluse in un nulla di fatto: i principali imputati di arresti, malversazioni e violenze, furono tutti amnistiati. Finì amnistiato anche Martelloni, che essendo stato sempre latitante, riuscì a non fare neppure un giorno di galera.

3 novembre 1944: muore da partigiano il capitano tedesco Rudolph Jacobs

Rudolf Jacobs

Nato a Brema (Germania) il 26 aprile 1914, caduto a Sarzana (La Spezia) il 3 novembre 1944, ufficiale tedesco. Capitano della Marina da guerra germanica, il giovane ufficiale aveva partecipato alla campagna d’Africa e ad altre operazioni tedesche. Nel 1943 prestava servizio in Italia, dove gli era stato affidato il comando di una batteria da 381 che, situata tra Punta Bianca e Bocca di Magra, era in grado di controllare la costa sino a Viareggio. Di sentimenti democratici, dopo l’8 settembre il capitano Jacobs studiò di rendere concreta la sua avversione al regime hitleriano e, con il caporalmaggiore Johann Fritz, decise di passare con i partigiani italiani, che cominciavano ad operare in Val Magra. Presi accordi con un patriota spezzino in contatto con la Resistenza, Jacobs e Fritz caricarono un autocarro di fusti di benzina e di armi e, una sera sul finire di settembre, abbandonarono la batteria. A bordo dell’automezzo, raggiunsero il ponte sul Magra dove li attendevano alcuni uomini della Brigata Garibaldi “Muccini”. I due militari tedeschi, accolti nella formazione, parteciparono attivamente per oltre un anno alla lotta partigiana. L’audacia del capitano Jacobs gli fu però fatale. Una sera di novembre l’ufficiale tedesco decise di guidare personalmente un’azione contro la caserma delle Brigate nere di Sarzana, mettendosi alla testa di dodici partigiani ai quali aveva fatto indossare le divise della Wehrmacht. Forse Jacobs fidava sulla soggezione che, normalmente, i repubblichini dimostravano nei confronti degli ufficiali tedeschi. Fatto è che quando l’ufficiale germanico si presentò con il suo drappello alla caserma e intimò la resa al comandante fascista, questi aprì subito il fuoco. S’accese una mischia furiosa, con perdite sanguinose da entrambe le parti. Fra i caduti partigiani anche il capitano Rudolf Jacobs. Dopo la Liberazione, la città di Sarzana ha dedicato una lapide all’ufficiale tedesco. Nel marmo si legge quest’epigrafe: “Illuminato dalla Dea Giustizia – riscattato dalla soggezione al bestiale furore teutonico – non defezione – ma eroica rivolta – portò il capitano della Marina Germanica – Rudolf Jacobs – primo nelle file dei partigiani sarzanesi – ad immolarsi per l’Italia – per la Libertà – Patria Ideale – Il 3 novembre 1944 – La civica Amministrazione – questo marmo vuole – nel luogo del sacrificio”. Anche la città di Parma ha dedicato una strada all’ufficiale tedesco (fonte A.N.P.I.).

Sarzana: la lapide a lui dedicata

Omaggio a Oreste Licori

Oreste Licori

Un ricordo di Oreste Licori  di Renzo Tonolo, vice presidente Anpi  sez. “Martiri di Mirano”:

Oreste Licori

Un giovane partigiano di 23 anni che ha affrontato la morte con grande coraggio e dignità, senza mai subire esitazione alcuna nei confronti della propria utopia.

Oreste Licori era un partigiano comunista,  venne fucilato dalle famigerate brigate nere il primo novembre del 1944

Lo ho ammirato!

Lo ammirai quando l’ho visto passare avanti a me, a testa alta e con passo deciso, in mezzo agli scherani, per andare verso l’esito violento della propria breve esistenza, con grande dignità.

Lo ammirai quando seppi che non ha voluto subire passivo la programmata cerimonia fascista della sua fucilazione: ha scelto lui il posto dove dovevano ucciderlo:  non avanti il muro ma qui, sulla strada.

Fu questo il suo ultimo atto di rifiuto alla sottomissione!

Lo ammirarono i suoi carnefici che espressero profondo rispetto per il coraggio con cui affrontò il plotone, urlando prima della fine la propria fede.

Renzo Tonolo

Le foto della commemorazione del 1 novembre 2013

1 novembre: commemorazione di Oreste Licori

Oreste Licori, partigiano di 23 anni, fucilato dai fascisti a Mirano il primo novembre 1944.
Venerdì 1 novembre 2013 ricorderemo la figura di questo martire caduto per la Libertà del nostro Paese: alle ore 10.30 partenza del corteo da Mirano in piazza Martiri per giungere nei pressi del cimitero e rendere omaggio a Oreste Licori nel luogo del suo barbaro assassinio.

Alle ore 20.45, sala conferenze di villa Errera, proiezione del film: ACHTUNG! BANDITI! di Carlo Lizzani

Un ricordo di Carlo Lizzani        La scheda del film Achtung! Banditi!

Da “Luoghi della Resistenza nel veneziano”: Oreste Licori, comandante della Brigata “Volga”, fu il primo tra i partigiani a essere ucciso a Mirano. Il giovane era tornato a casa a salutare i famigliari e su insistenza della madre si era fermato a dormire. Le brigate nere, avvertite da una informatrice abituale, Gioconda Pellizzon, lo catturano e dopo un breve interrogatorio decisero per la fucilazione. Il plotone si dispose nel cortile di una casa colonica nelle vicinanze del cimitero. Non si sa se la scelta sia da interpretarsi come la volontà di terrorizzare ancora di più la popolazione, irrompendo in uno spazio privato, o se si fossero affrettati all’ultimo momento, fermandosi a pochi metri dal cimitero, per paura di un intervento dei compagni di Oreste, che la voce popolare dava per certo. Dietro il condannato si formò un piccolo corteo, donne, ragazzi, qualche persona anziana. Sergio Savoia aveva dodici anni e di quello che ha potuto vedere gli è rimasta un’immagine ancora oggi molto nitida:

Oreste era in mezzo a queste brigate nere, facendo questa strada pensavo “va a farsi ammazzare, non ha da scappare?”. Dopo lo portarono su questo campo e eravamo tre o quattro persone. Però ci hanno tenuto distanti, ci fermarono prima, passarono dalla parte di là e gli hanno sparato. Mi sembra abbia detto “viva Stalin”, ha alzato il pugno chiuso e ha detto “viva Stalin” e gli hanno sparato. Era senza benda. Dopo che gli hanno sparato sono andati via tutti. Io insieme a un signore anziano gli siamo andati vicini e questo signore gli alzò la maglia. Sotto non aveva niente e gli si vedevano tutti i fori delle pallottole. Mi faceva una cosa strana perchè non si vedeva il sangue, si vedevano solo i fori di entrata.

Costituzione Resistente

L’ Anpi  di Mirano,  sez. “Martiri di Mirano”  conferma le ragioni  che hanno determinato l’adesione e la partecipazione alla manifestazione del 12 ottobre a Roma, non ritenendosi  destinataria di un giudizio di “biasimo” per le scelte operate,  riconosce, altresì, importante  sviluppare ed approfondire il dibattito apertosi all’interno dell’ANPI nazionale su questo tema.

Constatato che  è stato approvato il DDL che istituisce il Comitato Parlamentare per la Riforma della Costituzione Italiana da una maggioranza di governo che, seppur legittima, non rappresenta le istanze di rinnovamento volute da quanti sentono che i valori della Resistenza  sono irrinunciabili punti di riferimento della vita politica.

Considerata la necessità di mantenere alta la soglia di mobilitazione unitaria tra tutte le forze democratiche, per un  impegno che abbia come obiettivo prioritario la vigilanza affinché non vengano manomessi i principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale partendo dal rifiuto, netto, di ogni strisciante forma di ricostituzione del partito fascista,

L’ANPI di Mirano, sez. ”Martiri di Mirano”

si rende disponibile a dar vita, in sintonia con gli organismi direttivi Provinciali, Regionali e Nazionali, con le forze politiche sinceramente democratiche, con realtà espressione della società civile, movimenti e associazioni, a iniziative per una sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questo tema di vitale importanza per le sorti della nostra Democrazia.
In questa azione di informazione e mobilitazione L’ANPI di Mirano si richiamerà ai contenuti presenti nel documento approvato all’unanimità dal Consiglio Direttivo di Sezione il 15.07.2013 di seguito allegato.

ORA E SEMPRE RESISTENZA

Mirano, 26/10/2013

Documento del Consiglio direttivo dell’Anpi di Mirano del 15/7/2013

Domani in aula a Palazzo Madama il DDL che riscrive la Costituzione

Il voto finale dell’aula di Palazzo Madama è in calendario per domani mattina. I senatori sono chiamati a dare il via libera – in seconda e ultima lettura – al disegno di legge costituzionale che istituisce il Comitato parlamentare per le riforme. Una proposta contro cui, il 12 ottobre scorso, sono scese in piazza a Roma migliaia di persone, contrarie a questa “scorciatoia” per cambiare in fretta e furia la nostra Carta fondamentale. Ora, per il Senato, è l’ultima possibilità. E se l’approvazione sembra scontata, non è ancora chiaro quali saranno i numeri: se il ddl non ottiene i due terzi del voto, la legge dovrà essere obbligatoriamente sottoposta a referendum popolare. È quello che auspicano i firmatari dell’appello che pubblichiamo qui di seguito.

Sig. Senatore, Sig.ra Senatrice, permetta anche ai semplici cittadini di dire la loro. La celebrazione di un referendum che consenta agli italiani di votare sulla deroga dell’art. 138 è possibile. Basta non partecipare alla votazione finale o dare un voto di astensione o votare contro il ddl di deroga dell’art. 138 su cui il Senato sta per pronunciarsi. Qualunque idea lei abbia delle riforme costituzionali, sarebbe un gesto coerente con la più volte proclamata volontà di rendere sempre obbligatorio il ricorso al referendum sulla revisione della Costituzione. In presenza di una legge elettorale su cui, peraltro, gravano forti sospetti di incostituzionalità e che distorce pesantemente la rappresentatività del voto degli italiani, sarebbe un atto di fedeltà allo spirito e alla sostanza della Carta costituzionale. Infatti, come risulta chiaramente dal dibattito all’Assemblea costituente, il quorum dei 2/3 necessario per evitare il referendum era stato pensato per un sistema elettorale di tipo proporzionale. Né si può in nome della stabilità del governo tenere fede a un “crono-programma” che impedisca ai cittadini di pronunciarsi sulla modifica di una norma importantissima della nostra Costituzione. Per questo Le chiediamo di raccogliere il nostro appello e di rendere possibile il referendum sulla revisione dell’articolo 138.

Luigi Ciotti, Paolo Maddalena, Alessandro Pace, Gianni Ferrara, Claudio De Fiores, Alberto Lucarelli, Raniero La Valle, Massimo Villone, Antonello Falomi, Cesare Salvi, Raffaele D’Agata, Antonio Ingroia, Beppe Giulietti, Franco La Torre, Tiziana Silvestri, Giulia Rodano, Roberto Giulioli

da “Il Fatto” del 22/10/13

22 ottobre 1944: fine della Repubblica Partigiana dell’Ossola

I confini della Repubblica dell'Ossola

La Repubblica dell’Ossola durò solamente 33 giorni. Un territorio di quasi duemila chilometri quadrati fu liberato dai partigiani e diventò un vero e proprio Stato con un governo, un esercito e una capitale: Domodossola. Fu un esperimento democratico che stupì il mondo intero perché venne realizzato all’interno di un paese in guerra.
Tutto cominciò nell’agosto del 1944, i partigiani della brigata Valdossola comandata dal maggiore Dionigi Superti, della brigata Beltrami agli ordini del capitano Bruno Rutto, della brigata Piave di Filippo Frassati e Armando Calzavara, e infine della brigata Valtoce del tenente Alfredo di Dio, intimano la resa a tutti i presìdi tedeschi e fascisti stipati lungo la riva occidentale del Lago Maggiore. I tedeschi si arrendono subito, i fascisti invece combatteranno alcune ore prima di cedere le armi. Uno alla volta, i piccoli presìdi fascisti cadono. L’8 settembre 1944 l’intera Valdossola viene liberata, tranne Domodossola, che i partigiani, non senza esitazioni, decidono di liberare.
Il 9 settembre 1944 l’arciprete di Domodossola, don Luigi Pellanda, promosse un incontro al quale parteciparono i comandanti tedeschi e fascisti e i capi partigiani Dionigi Superti e Alfredo di Dio, per evitare inutili spargimenti di sangue. Sia i tedeschi che i fascisti decidono di lasciare Domodossola ai partigiani, a patto di poter evacuare con armi e familiari.
I partigiani accettano a condizione che siano da loro abbandonate tutte le armi non fabbricate in Germania. Appena Domodossola viene liberata, gli abitanti euforici si riversano per le strade sventolando il tricolore. Vengono aperte le frontiere con la Svizzera consentendo così ai giornalisti di tutto il mondo di poter documentare l’evento.
La controffensiva fascista venne sferrata all’alba del 10 ottobre, e alle 17 la prima colonna fascista entrava in Domodossola.
I fascisti schierarono circa 5.000 uomini, con tre cannoni, cinque carri armati e dieci autoblindo. I partigiani erano invece 3.000.La gran parte della popolazione abbandonò la Val d’Ossola per rifugiarsi in Svizzera lasciando il territorio pressoché deserto impedendo di fatto le forti rappresaglie che furono minacciate.
A tal proposito proprio il capo della provincia Enrico Vezzalini scrisse il famoso comunicato a Mussolini che recitava: “Abbiamo riconquistato l’Ossola, dobbiamo riconquistare gli Ossolani”. I partigiani che poterono trovarono rifugio in Val Sesia, dove si ricostituirono due formazioni partigiane che all’inizio del 1945 tornarono nell’Ossola e lottarono fino alla fine della guerra. La storia della Repubblica dell’Ossola è stata narrata nello sceneggiato di Leandro Castellani -Quaranta giorni di libertà- e dal libro di Giorgio Bocca -Una repubblica partigiana-.

Piero Malvestiti (1899-1964), combattente decorato della Prima guerra mondiale e antifascista cattolico che prese parte alla guerra di liberazione e al governo dell’Ossola, ricorda:

Ancor oggi la “Repubblica di Domodossola” […] costituisce l’eventus che ha caratterizzato – quale che sia stata la sua importanza militare – un poco tutta la Resistenza italiana […] Ben a ragione il Capo del Governo italiano, on. Bonomi, scriveva in quei giorni da Roma che i Patrioti della Valdossola “sono il simbolo dell’eroismo che pervade tutto il popolo italiano della battaglia per la sua redenzione”. […] La “Repubblica di Domodossola” prefigurava l’Italia di domani, ed era soprattutto un’aspra condanna e una sfida irriducibile. Paradossale, mentre il nazismo era ancora in Norvegia, in Danimarca, in Russia, in Olanda, nel Belgio in Francia, nell’Europa centrale, nei Balcani, in Grecia, in Italia, paradossale e assurdo che un pugno di uomini osasse sfidarlo al punto da istituire una «Giunta Provvisoria di Governo»

Uomini. E il caporale Stork. (di Franco Giustolisi)

Bruno Bertoldi

I vecchi ergastolani di porto Longone, poi porto Azzurro, il carcere di massima sicurezza dell’isola d’Elba, nel secolo scorso, a chi chiedeva quanto tempo ancora avevano da trascorrere dietro le sbarre rispondevano «oggi, domani e sempre». Per gli ergastolani nazisti la battuta va, invece, rovesciata: «né oggi, né domani e né mai». Ieri mattina è arrivata un’altra sentenza: al carcere a vita è stato condannato Alfred Stork, 90 anni, ex caporale della terza Compagnia del 54° battaglione Cacciatori delle Apli (Gebirgs-Jager). Fu uno degli esecutori dell’orrendo massacro di Cefalonia. Cinque-seimila militari della divisione Acqui trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca. «Traditori, traditori» urlavano mentre facevano partire le raffiche mortali. «Il peggior delitto di tutte le guerre moderne», disse a Norimberga il pubblico accusatore generale Tajlor. Con la condanna di Stork, siamo arrivati ormai a 32 ergastolani di qualità fuori dal comune: la pena gli è stata inflitta, ma loro sono liberi e tranquilli nei loro paesi. La Germania si è liberata dal nazismo o, meglio, è stata liberata dal nazismo, ma protegge i «figli», anche se degeneri. L’Italia su Cefalonia tace. Sembra che istituzioni, governi, associazioni abbiano da nascondere qualcosa. Di sicuro avrebbero preferito che l’«Armadio della vergogna» non fosse stato mai aperto.
Al processo che si è concluso ieri hanno testimoniato alcuni reduci da Cefalonia, gente con un’età da 90 in poi. Ecco, qui di seguito, qualcuno dei loro ricordi.
Bruno Bertoldi, 94 anni, «compiuti» precisa, sergente maggiore del reparto autieri della divisione Acqui, comandata dal generale Gandini, decorato a suo tempo da Hitler con la massima onoreficenza tedesca, che gettò in terra e calpestò prima di essere fucilato. «A Cefalonia fu un massacro, presero la gente e la ammazzavano così, con le mani alzate…». «No, in quei tempi non si poteva parlare con i superiori, allora le nostre parole erano Signorsì, Signorno…». «Arrivò una squadra di Stukas sopra di njoi, erano una trentina…». L’Italia del re e di Badoglio era fuggita e gli Inglesi non intervennero in aiuto della divisione Acqui che Mussolini aveva mandato in guerra senza artiglieria contraerea. “…arrivarono le prime pattuglie tedesche, furono falciati tutti quanti, tutti ammazzati, fucilati… Al capitano Pampaloni (Amos Pampaloni, un grande, non dimenticherà mai i suoi compagni, n.d.r.) spararono alla testa, ma la pallottola uscì senza fargli gran danno, rimase sotto i corpi dei compagni morti… Poi i greci lo aiutarono e lui combattè contro i nazisti. …ero anch’io sulla portaerei Garibaldi quando il presidente Ciampi venne a Cefalonia e chiese a Pampaloni cosa pensava di quel che era accaduto. E lui, ricordo, rispose «mi sento ancora perseguitato». «…come prendevano i prigionieri li fucilavano… avevano massacrato un battaglione del 317°, poi, a Troyanata fucilarono seicento soldati e li gettarono in un pozzo, togliendogli tutto quel che di valore avevano indosso… Erano gli uomini del maggiore Klebe che avevamo battezzato ‘il macellaio’». «Mi presero, erano in tre, il capo squadra mi guardò, era di Bolzano, aveva fatto con me la scuola di sottufficiali, mi dette due calci aggiungendo “porco italiano” e, poi, sottovoce “scappa, scappa”, mentre gli altri due urlavano al compagno “sparagli, sparagli”. Al generale Gherzi gli sfilarono gli stivaloni, dopo averlo ucciso. Un greco mi aiutò, dandomi i suoi vestiti, ma riuscirono a catturarmi. Poi seppi che i carabinieri erano andati dai miei genitori perchè firmassero l’atto di morte, in modo da prendere la pensione di guerra, ma mia madre si oppose sempre sperando che tornassi a casa. Infatti ci tornai due anni dopo, alla fine del ’45». Mario Piscopo, 94 anni, già sottotenente. «Ho assistito all’uccisione dei prigionieri, venivano passati per le armi via via che venivano catturati. Cito un piccolo grande episodio. Ritrovai tra le vittime il mio compagno di plotone, il sottotenente Giuseppe Quattrone… Era stato colpito alla nuca: evidentemente, non appena si era arreso gli avevano sparato… Un’esecuzione vera e propria… Ci portarono su una carretta, passammo davanti alla “Casetta Rossa (lì fu sterminata la maggioranza degli ufficiali, n.d.r.), vidi una cinquantina di corpi. Ed era appena l’inizio. L’ex sottotenente racconta del silenzio che circondò, e circonda, questa vicenda. Si incontrò con Simon Wiesenthal: ci disse, “attivatevi”. Ma che potevamo fare? Mica eravamo in Israele, eravamo in Italia, abbiamo fatto il possibile, monumenti ai nostri caduti, ma la televisione ha sempre poco curato i nostri interventi pubblici… Mi sentii dire “Ma che cosa possiamo fare, ormai siamo alleati della Germania”».
Il teste dà notizia di una lettera inviata il 12 maggio 2004 al presidente della Commissione parlamentare sulle cause dell’occultamento delle stragi nazifasciste: «Chiedo che venga accertata – è scritto – la responsabilità di coloro che nascosero quei fascicoli, consentendo l’impunità ai responsabili di esecuzioni di massa da parte di militari tedeschi che premeditatamente uccisero militari inermi». Come si sa, questa risposta, e sono passati quasi 70 anni dai fatti, nessuno l’ha ancora data.
Giuseppe Benincasa, 91 anni, musicante della banda della divisione Acqui. Esordisce il pubblico ministero militare, Marco De Paolis: «Signor Benincasa, allora…». «Non sento, sono sordo, mi posso avvicinare?» Interviene il presidente Antonio Lepore: «Rimanga pure lì, sarà il pm ad avvicinarsi a lei». «Veramente io non ho mai sparato, mi è sempre piaciuta solo la musica e le donne. Suonavo la tromba; ero la prima tromba solista… Abbiamo fatto una specie di referendum, come alle elezioni. Abbiamo votato sì e no e la maggioranza ha votato che dovevamo combattere… Allora mi hanno dato un fucile mitragliatore, ma io ci dissi che non so sparare. Allora mi dettero uno zaino pieno di bombe a mano che dovevo portare in prima linea. Però mi hanno preso e ci levavano tutto, portafogli, anelli. Mi presero pure una piastrina indorata con la Madonna, agganciata conilo filo di ferro… In quella zona quattrocento sono stati fucilati, fra i quali pure gente della Croce Rossa, con la fascia della Croce Rossa, fucilati pure loro. Poi sono riuscito a darmela a gambe, i greci mi hanno aiutato, sono diventato greco, mi hanno fatto la fotografia, sono andato al Comune, il sindaco ci ha messo il bollo e mi hanno dato il nome di Jorgo Jannapulo. Mi hanno portato da Jannapulo padre e gli hanno detto: “questo è tuo figlio”. Però lui ha risposto, “va bene che è mio figlio però non gli posso dare da mangiare perchè non ce l’ho neanche per me».
Arriva la sentenza, ovviamente in contumacia e probabilmente Stork non ne subirà le conseguenze, come i suoi 31 compatrioti. Lui ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, che gli dispiace aver dovuto sparare agli uffuciali italiani, ma poi si è saputo che i componenti dei plotoni di esecuzione erano volontari. Assai più netto fu il sottotenente Otmar Muhlauser, che comandò uno dei plotoni: «Era giusto che si fosse fatto così perchè gli italiani erano dei traditori». Della sua esistenza in vita si seppe nel 2002, ma il procuratore di allora, Antonio Intelisano, poi promosso Procuratore generale, attese che tirasse le cuoia, nel 2009, proprio duurante l’udienza preliminare. Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e parte civile, inviò insieme a chi scrive questo articolo una lettera aperta al Capo dello Stato, pubblicata proprio sul manifesto. Ma non ci fu alcuna risposta. (di Franco Giustolisi da “Il Manifesto”)