20 aprile 1945: i 20 bambini di Bullenhuser Damm

H. Wassermann 8 anni
Jacqueline Morgenstern 13 anni
Lelka Birnbaum 12 anni
Mania Altman 7 anni
Marek James 6 anni
Riwka Herszberg 7 anni
Roman Witonski 6 anni
Roman Zeller 12 anni
Ruchla Zylberberg 9 anni
Eduard e Alexander Hornemann 12 e 9 anni
Sergio De Simone 8 anni

 

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Questi sono i bambini di Bullenhuser Damm o almeno sono le foto di 12 dei 20 bambini impiccati dalle SS nella cantina di questa scuola di Amburgo trasformata dai nazisti in un luogo di supplizio. Degli altri otto non si conoscono i visi ma questi sono i loro nomi: Goldinger Surcis (11 anni), Junglieb W. (12 anni), Klygermann Lea (8 anni), Mekler Bluma (11 anni), Reichenbaum Eduard (10 anni), Steinbaum Marek (10 anni), Witónska Eleonora (5 anni) e Georges-André Kohn (13 anni). Questa è la loro storia:

Nell’aprile del 1945 gli Alleati stanno avanzando rapidamente nella Germania nazista. La guerra è ormai decisa e l’8 maggio sarà firmata la resa incondizionata. Intanto coloro che sanno quali crimini hanno commesso distruggono tutte le prove possibili. In quel periodo nel campo di concentramento di Neuengamme si trovano anche 20 bambini ebrei di età compresa tra i cinque e i dodici anni. Sono dieci femmine e dieci maschi, tra cui due coppie di fratelli e sorelle. Per mesi il medico delle SS Dr. Kurt Heißmeyer si è servito di loro come cavie per esperimenti medici. Ha immesso con sonde nei polmoni dei bambini bacilli tubercolotici vivi. Ha asportato le ghiandole linfatiche. Durante l’interrogatorio nel 1964 Heißmeyer ha dichiarato “per me non esiste alcuna differenza tra ebrei e cavie”. Il 20 aprile 1945 i bambini assieme a quattro detenuti adulti che li avevano assistiti nel campo di concentramento vengono portati in una scuola di Amburgo. Arrivano verso la mezzanotte. Gli adulti sono i medici francesi Gabriel Florence e René Quenouille, gli olandesi Dirk Deutekom e Anton Hölzel. È la scuola di Bullenhuser Damm, campo esterno del campo di concentramento di Neuengamme. Tutto il gruppo viene portato nello scantinato. Gli adulti vengono impiccati ai tubi di riscaldamento sotto il soffitto. Ai bambini fanno una iniezione di morfina per farli dormire. Li impiccano ad un gancio sulla parete. Johann Framm, uomo delle SS, si appende con tutto il peso del suo corpo al corpo del bambino per stringere il cappio.
Durante un interrogatorio nel 1946 Frahm dichiara “di aver appeso i bambini a un gancio come quadri alla parete”. Nessun bambino ha pianto.
Dopodiché vengono impiccati 24 prigionieri di guerra sovietici. Non si conoscono a tutt’oggi i loro nomi.
Nel dopoguerra, come se non fosse successo questo orribile crimine, ad Amburgo la vita riprende il suo corso. Si riapre la scuola e agli scolari non si racconta nulla di ciò che era successo nella cantina dell’edificio. Non si cercano i genitori e i parenti delle vittime, ben presto si dimenticano gli assassini. Solo alcuni ex prigionieri del campo di concentramento di Neuengamme vengono a Bullenhuser Damm tutti gli anni per deporre fiori. Gli imputati durante il processo al Curio-Haus nel 1946 hanno accusato Arnold Strippel, primo comandante responsabile del campo esterno del campo di concentramento di Neuengamme ad Amburgo, di essere stato complice al crimine di Bullenhuser Damm. Nel 1949 Strippel è stato condannato all’ergastolo per i crimini commessi a Buchenwald, ma nel 1969 viene scarcerato e riceve un risarcimento in denaro. Nel 1967 la Procura di Stato di Amburgo archivia gli atti del processo per “insufficienza di prove”. Alcuni parenti dei bambini sono sopravvissuti al ghetto e ai campi di concentramento e pur avendo fatto difficili ricerche per tanti anni, non sapevano cosa fosse successo ai bambini. Inoltre in seguito alla deportazione molti dei sopravvissuti avevano perso tutto ciò che possedevano, oggetti personali, ricordi. Erano rimaste solo poche fotografie conservate dai parenti emigrati o vissuti nascosti fino alla liberazione.
33 anni dopo questo terribile evento il giornalista Günther Schwarberg è riuscito a portare alla luce la storia dei 20 bambini. Nella rivista “Stern” ha pubblicato una serie di articoli con il titolo “Il medico delle SS e i bambini ” ed è riuscito a rintracciare i loro parenti facendo lunghissime ricerche in molti Paesi. Con il suo libro tradotto in sei lingue (non in italiano), Schwarberg ha salvato la loro storia. A tutt’oggi sono stati trovati i parenti di 16 dei 20 bambini e il 20 aprile 1979 sono venuti per la prima volta a Bullenhuser Damm per la cerimonia commemorativa. Erano presenti anche 2000 amburghesi. È stata fondata l’Associazione dei bambini di Bullenhuser Damm, per tenere vivo il ricordo delle vittime in stretto contatto con i parenti e il presidente onorario è Philippe Kohn di Parigi, fratello di Georges-André Kohn, il bambino francese ucciso. Nello stesso anno l’avvocatessa Barbara Hüsing ha denunciato Strippel per assassinio e la Procura di Stato ha riaperto il caso, ma nel 1983 sono stati di nuovo archiviati gli atti del processo. Per dimostrare il fallimento della giustizia tedesca nel caso Arnold Strippel l’Associazione dei bambini di Bullenhuser  Damm ha insediato nel 1986 nella scuola di Bullenhuser Damm un “Tribunale Internazionale”: erano presenti i parenti delle vittime ed ex detenuti del campo di concentramento di Neuengamme. Dal 1980 nella cantina della scuola di Bullenhuser Damm c’è un museo e il memoriale oggi non è solo per Amburgo un importante luogo della memoria e di attività educative, ma ha importanza internazionale.
Migliaia di persone hanno piantato rose nel “giardino delle rose” per ricordare i bambini di Bullenhuser Damm . Dal 1991 nel quartiere di Amburgo Schnelsen Burgwedel ci sono le strade con i nomi dei venti bambini, un asilo, un centro giochi e un parco.

http://20bambini.proedieditore.it/html/vicenda.htm

http://www.kinder-vom-bullenhuser-damm.de/_italiano/index.html

Mirano 19 aprile 2013: Moschetti di legno, fucili di latta

Da “Moschetti di legno, fucili di latta” di Emidio Pichelan:

“…tempi calamitosi, quelli dal 1932 al 1945 a Pontelongo, non c’era spazio per la gentilezza, cantava Brecht:
Oh, noi
che abbiamo voluto preparare il terreno alla gentilezza
non abbiamo potuto essere teneri. Ma voi,
quando sarà venuta l’ora
che gli uomini si aiutino l’un l’altro
pensate a noi con indulgenza…”

Venerdì 19 aprile 2013 a Mirano, villa Errera sala conferenze, ore 20.45, presentazione del libro:
“Moschetti di legno, fucili di latta”
saranno presenti:
-l’autore Emidio PICHELAN
-il presidente Anpi Reg. Veneto Maurizio ANGELINI
-il resp. Centro pace Sonja Slavik Vincenzo GUANCI

Recensione del libro

Vittorio Arrigoni “Vik”

Avendo fatto della mia vita una missione, laica e  civile, dimettermi dalla missione significherebbe dare le dimissioni dalla vita. Un suicidio. Ci sono esistenze più spendibili di altre, e la mia è una di queste. Tutto sta nel spenderle per qualcosa d’impagabile, come la lotta per la giustizia, la libertà.

 Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011, veniva assassinato a Gaza Vittorio Arrigoni. In Palestina arrivò la prima volta nel 2002. Proprio quell’anno avvenne la sua iniziazione come scudo umano davanti a una scuola piena di bambini assediata dai carri armati israeliani. Da quel momento Vittorio affrontò molti rischi per aiutare la gente del posto e raccontare ciò che vedeva: i bombardamenti, la morte di ragazzini inermi, il dolore negli ospedali, le abitazioni distrutte. Fu anche malmenato e poi espulso dalle autorità israeliane, rimandato in Italia in camicia e ciabatte. “Tieni forza e coraggio. Opera per la pace, anche se ti e ci vien voglia di rispondere occhio per occhio alle offese. Ma, come diceva il Mahatma Gandhi, a furia di dire occhio per occhio, resteremo tutti ciechi”, gli scrisse sua madre Egidia il 20 aprile del 2004.
Ne aveva viste tante Arrigoni, gli era capitato di raccogliere pezzi dei suoi amici e teste di bambini. Del suo ultimo ritorno a casa, nel 2009, la mamma ricorda le urla notturne, l’inquietudine, gli incubi di chi aveva assistito ad atti disumani. “Noi eravamo preoccupati, ma non gli avremmo mai impedito di andare. Era la sua vita. Nonostante avesse visto tanta violenza e tante atrocità, la sua sfrenata passione per i diritti umani lo riportava sempre lì. Si sentiva amato dalla gente, accettato da tutti. Mi disse una volta che se non fosse tornato a Gaza, sarebbe andato altrove a cercare qualcuno da aiutare”.
Arrigoni ripartì per l’ultimo viaggio nel 2010. Passando dall’Egitto riuscì a rientrare a Gaza. Riprese ad aiutare “i fratelli palestinesi”, come lui li chiamava, e a raccontare ciò che vedeva attraverso il suo blog, Guerrilla Radio, e la collaborazione con PeaceReporter. Fino alla notte tra il 14 e il 15 aprile del 2011, quando venne ucciso da una cellula  jihadista salafita, a quanto pare fuori controllo, con motivazioni che ancora oggi appaiono poco chiare. “La cosa che mi turba di più è non sapere la vera motivazione della sua morte – ha continuato Egidia – È il pezzo che manca. Non penso che lo conosceremo mai. Mi consola ricevere ancora oggi lettere di stima e di affetto nei confronti di Vittorio. Voglio che lui venga ricordato per quello che ha dato alla gente”. Questo è l’articolo di Alberto Puliafito pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il giorno dopo la morte di Vik:

Non era soltanto un volontario, Vittorio Arrigoni. Era un attivista. Era un pacifista. Era un profondo conoscitore della questione palestinese. Era uno scrittore e un giornalista. Ma soprattutto, era una voce libera, un testimone di una realtà complessa, quella di Gaza, che viveva dall’interno.
Certamente, nessun giornale italiano aveva pronto un “coccodrillo” celebrativo di Vittorio Arrigoni. Non perché non fosse risaputo che vivesse in una situazione rischiosa, ma perché le voci come la sua sono voci scomode. Perché Arrigoni, che ha scritto il bel Restiamo Umani e che raccontava di Gaza su Guerrilla Radio, il suo blog, era un personaggio difficile da trattare, dall’Italia. Non si accontentava di farsi raccontare da casa la realtà: la viveva. Non si accontentava di fornire una rappresentazione binaria della realtà. Non cedeva a slogan e al facile dualismo buoni contro cattivi, ma costruiva, giorno per giorno, un racconto, un affresco di una situazione mai davvero compresa, mai davvero rappresentata.
Leggete, per esempio, come raccontava un attacco da parte delle forze di sicurezza di Hamas a una manifestazione pacifista di palestinesi, e capirete cosa vuol dire avere la capacità di racconto e di analisi, senza cedere all’istinto della banalizzazione.
Vittorio Arrigoni non si preoccupava del fatto che poi, magari, la gente a casa non capisce (uno dei più grandi problemi della comunicazione sistemica); non risparmiava critiche anche a intoccabili: destinò dure parole a Roberto Saviano (nel video qui sotto) quando lo scrittore esaltò la democrazia di Israele. Era una voce scomoda, di quelle che fa tremare i benpensanti, a destra e a sinistra; una di quelle voci che fa saltare le logiche tradizionali di una comunicazione che tende a semplificare la realtà per proporre slogan e messaggi facilmente comprensibili (una comunicazione tradizionale decisamente deleteria, che abbassa il livello del confronto e che, a scapito della presunta immediatezza, non fa che impedire la comprensione dei fatti). Vittorio Arrigoni non faceva l’eroe, raccontava senza personalismi: era un canale per un flusso di comunicazione che si poteva diffondere soltanto in maniera virale, dal basso, eccezion fatta per i suoi reportage per Il Manifesto.
La sua morte mi ha ricordato – fatte salve le specificità e le differenze – quella di Enzo Baldoni (che ricordavo proprio su questo blog).
Per questi motivi, e solo per questi, ho ritenuto di doverne scrivere, senza patetiche commiserazioni. Per fornire al lettore, che non avesse mai incrociato gli scritti di Arrigoni, la possibilità di conoscerlo attraverso le sue parole, che devono essere condivise il più possibile.
E per favore, non cediamo alla facile retorica del se l’è andata a cercare, come già sta accadendo. Sarebbe semplicemente offensivo. Non solo per lui, ma anche per noi.
Perché Vittorio Arrigoni era, più di ogni altra cosa, Umano.

 Qui potete leggere un’intervista a Vik.

http://www.anpivittorioarrigoni.it/

Travaglio e i criminali della “guerra partigiana”

In un articolo apparso su “il Fatto Quotidiano” di sabato 13 aprile, dedicato alle figure dei Presidenti della Repubblica Italiana, Marco Travaglio definisce Francesco Moranino “Gemisto” un “criminale della guerra partigiana” graziato dal presidente Saragat. Si dimentica di dire che la grazia non venne da lui accettata e tornò in Italia solo quando fu ufficialmente riconosciuto che i fatti per cui era accusato erano “atti di guerra” connessi con la Guerra di Liberazione (e non “guerra partigiana”) e quindi erano atti giuridicamente leggittimi. L’Anpi non ha mai smesso di indicarlo tra le figure simbolo della guerra di Liberazione e Sandro Pertini lo definì “fiero antifascista e valoroso partigiano”. Il termine “criminale” va forse citato per i tanti criminali di guerra italiani (a iniziare da Graziani) che tanti stati stranieri hanno cercato di estradare dall’Italia e ai tanti fascisti e repubblichini riciclati in apparati vitali dello stato italiano mentre altrettanti ex-partigiani venivano messi al bando costretti ad espatriare per non finire in galera o in miseria.

Questo il discorso tenuto da Pietro Secchia al Senato della Repubblica  in occasione della grazia concessa il 27 aprile 1965 dal Presidente della Repubblica Saragat ma rifiutata da Moranino, un discorso da leggere e rileggere perchè “sembra quasi che i partigiani non sparassero, non fucilassero, non spargessero sangue né toccasse loro rimestare nelle interiora umane. E invece sparavano, uccidevano e questo lo si comprende solo inserendo i fatti in un contesto di uno scontro violentissimo fatto di torture, di rappresaglie, dove ci si doveva difendere da spie e da infiltrati e c’era poco tempo per il “garantismo”. (da Wu Ming)

Un libro sul comandante “Gemisto”

Aggiornamento: la risposta di mt a una lettera inviata a “Il Fatto”

Aggiornamento: la lettera dei famigliari di Moranino e la replica di mt

Aggiornamento: la lettera di una ex-lettrice de “Il Fatto”

Aggiornamento: la lettera di Alessandra Kersevan a “Il Fatto”

Incontro con Felice Casson

A.N.P.I DI MIRANO e del MIRANESE

VENERDI’ 12 APRILE 2013

SALA CONFERENZE DI VILLA ERRERA, ORE 20.45

DIRITTO AL LAVORO – DIRITTO ALLA SALUTE

DIFESA DELL’AMBIENTE

 

  La Carta Costituzionale, nata dalla Resistenza, posta a fondamento dei valori dello Stato Repubblicano e della Democrazia Parlamentare, sancisce il diritto al lavoro come principio fondamentale sul quale costruire la libertà, la dignità e l’uguaglianza fra tutti i cittadini.

Diritto al lavoro che in questi anni abbiamo imparato a coniugare con Diritto alla Salute dei lavoratori e dei cittadini e con la Difesa dell’Ambiente. La logica del profitto e dello sfruttamento economico, ad ogni costo, senza regole e tutele, ha causato, negli anni, veri e propri crimini di massa, in Italia come nel resto del mondo, in particolare nei paesi del Terzo Mondo.

Silenzi colposi, mancati controlli, complicità politiche a tutti i livelli, uniti al miraggio di un benessere senza limiti e senza regole, hanno prodotto una cultura dello sviluppo che oggi si presenta come una delle tragedie più immani che l’umanità si trovi ad affrontare per la sua stessa sopravivenza.

Il territorio veneziano, come purtroppo molti altri a livello nazionale, ha subito l’impatto di un grande sito industriale, quello di Porto Marghera, che nel dopoguerra, oltre che aver indubbiamente rappresentato un’importante risposta al bisogno di lavoro e di crescita politica e civile di vaste categorie di lavoratori, ha prodotto e disperso enormi quantità di veleni altamente nocivi sia per la salute di chi operava al suo interno, per la popolazione dei territori circostanti, che per gli assetti legati all’ecosistema lagunare.

Fabbrica della morte il “Petrolchimico”, dove la salute era monetizzata come un bene da comprare e consumare, dove, nel più complice silenzio, si è consumata e spenta una generazione di lavoratori che troppo tardi ha visto riconosciute, in sede giudiziaria e a livello di opinione pubblica, le ragioni per le quali per anni aveva lottato e chiesto giustizia.

Di questi temi parlerà il sen. Felice Casson nell’incontro che si terrà a Mirano presso la sala conferenze di Villa Errera venerdì 12 aprile 2013 alle 20.45

Festa della Liberazione 2013

Programma delle manifestazioni per il 25 Aprile 2013


Venerdì  12  Aprile  alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera:

incontro su “Salute e Lavoro” con Felice Casson proiezione film  “Maschere ‘78” di G. Sticchi

Venerdì  19  Aprile  alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera:

presentazione del libro “Moschetti di legno, fucili di latta” con l’autore Emidio Pichelan e  Maurizio Angelini Pres. Anpi Regionale

Lunedì  22 Aprile alle ore 20.45 al Teatro Nuovo Mirano:

proiezione del film di B. Bertolucci “Il Conformista”   entrata libera

Giovedì  25 Aprile alle ore  9.30  a Mirano:

Commemorazione della Giornata della Liberazione in Piazza Martiri con le Autorità Comunali

Venerdì  3 maggio  alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera:

incontro con Sofia Gobbo Partigiana “Ruolo dei media audio-visivi ieri e oggi” con  documenti video elaborati dall’ A.N.P.I. di Mirano

5 aprile 1944: Martiri del Martinetto

Il Comitato Militare Regionale Piemontese era un organismo di organizzazione e coordinamento militare e venne costituito dal CLN verso la metà di ottobre del 1943, inizialmente con funzioni tecniche e consultive. Vi partecipavano i rappresentanti dei partiti politici antifascisti, affiancati da un gruppo di militari, il colonnello Giuseppe Ratti, il capitano Franco Balbis, il maggiore Ferdinando Creonti, il generale Giuseppe Perotti e il tenente Silvio Geuna. Alla fine del 1943 il compito del coordinamento venne affidato al generale Perotti. Nel marzo 1944, in concomitanza con la prima grande ondata di rastrellamenti che investì le valli piemontesi, il Comitato venne duramente colpito: il 14 venne catturato Erich Giachino, il 27 Quinto Bevilacqua e Giulio Biglieri, il 29 Massimo Montano e il 31 marzo, nella sagrestia del Duomo, luogo di un appuntamento clandestino, l’intero Comitato: Perotti, Fusi, Giambone, Geuna, Braccini, Balbis e Brosio.
Li mandarono a processo il 2 aprile, domenica delle Palme, pensando di chiuderla rapidamente con una esecuzione mascherata dalla parvenza di legalità della “giustizia fascista”; ma la Resistenza aveva numerosi aderenti tra i magistrati e gli avvocati del foro di Torino si offrirono in massa per la difesa degli imputati. Celebrato in un’aula affollata di militi fascisti, di fronte ai quali gli accusati tennero un atteggiamento di rigorosa dignità, il processo si trasformò in un grande momento di propaganda contro il regime. Tra i giudici del Tribunale Speciale sedeva anche un sardo, Dante Sagheddu, squadrista e fondatore del fascio di Iglesias, che verrà poi ucciso dopo il 25 aprile: la sentenza condannò a pene detentive i rappresentanti della DC e del PLI ed alla pena capitale quelli dei partiti di sinistra e i militari. I condannati vennero fucilati all’alba del 5 aprile nel poligono di tiro del Martinetto.

http://intranet.istoreto.it/lapidi/sk_lapide.asp?id=203

Video aggressione squadrista all’Università di Verona

Questi sono i fatti in seguito ai quali l’Università di Verona ha imposto la chiusura dello spazio studentesco autogestito. Spazio a cui è stata attribuita la grave responsabilità di ospitare, tra gli altri, gli studenti e le studentesse che hanno organizzato una libera iniziativa di approfondimento storico considerata non opportuna e scomoda dal potere politico filofascista locale.
Da parte del Rettore nessuna parola di condanna nei confronti dell’incursione squadrista. Nessuna conseguenza per gli studenti che hanno partecipato all’aggressione. Sgombero immediato di Spazio Zero e commissione disciplinare interna per il professor Gian Paolo Romagnani, reo di aver concesso lo spazio per l’iniziativa.
In Università qualcuno/a ha balbettato un po’ di solidarietà. Per il resto silenzio.
Un vergognoso, complice, pesantissimo, democratico silenzio che non ci dimenticheremo.

Il fascismo è qui e ora.
Scegli da che parte stare.

(dal Collettivo “Studiare con Lentezza”)

7 aprile 2013: inaugurazione del cippo dedicato alla memoria di Clorinda Menguzzato “Veglia”

Clorinda Menguzzato "Veglia"

 Domenica 7 aprile alle ore 9 a Castello Tesino, inizierà la cerimonia per l’inaugurazione del cippo alla memoria di Clorinda Menguzzato “Veglia”, trucidata dai nazisti l’11 ottobre del 1944 sulla strada per Pieve Tesino. Interverranno Alberto Parcher, Presidente della Giunta Provinciale, Marcello Basso della Presidenza Anpi Nazionale e Sandro Schmid, Presidente Anpi del Trentino. Qui trovate il volantino della manifestazione.

Le foto della manifestazione: http://imgur.com/a/4vp95

Un ricordo di “Veglia” nelle parole di Sandro Schmid:

“ Una cosa sola non passa mai: la voce della nostra coscienza la quale ci dice che abbiamo fatto il nostro dovere e questa voce che non conosce tramonto è la nostra vera gloria.”
Don Francesco Sordo Corvo – cappellano del Gherlenda

Clorinda Menguzzato è una giovane e bella ragazza di Castello Tesino che lavora come tante altre la campagna e il bestiame di famiglia. All’Albergo Italia conosce il proprietario Riccardo Fattore Lina e un altro sottoufficiale degli alpini Leda, entrambi punti di riferimento del CLN. Con l’arrivo dalle vette feltrine del gruppo partigiano Giorgio Gherlenda, Clorinda passa con la Resistenza. Partecipa a numerose azioni fino al clamoroso assalto alla Caserma del CST di Castello Tesino (14 settembre 1944) dove catturano l’intera guarnigione (60 militi) con il loro comandante tedesco. L’impresa sarà trasmessa da Radio Londra.
I partigiani s’impadroniscono delle armi e liberano tutti gli ostaggi. La reazione nazista è immediata. Alcune centinaia di tedeschi e militi del CST rastrellano la montagna verso la base del Gherlenda alla diga di Costabrunella. Come scudo umano si fanno precedere da Pronto e Mosca due partigiani catturati e poi crivellati di colpi.
Lo scontro, favorito da una nebbia fittissima, comporta la morte sul campo del mitico comandante Fumo Isidoro Giacomin. Il battaglione Gherlenda riesce comunque a sfuggire alla morsa. I tedeschi si ritirano. I partigiani recuperano il corpo del loro comandante e in cima a Costabrunella, con il parroco di Pieve Tesino Lino Tamanini celebrano la Messa e danno l’ultimo saluto. Testimoniata dalle foto, con fucile in spalla è presente anche Veglia, non a caso chiamata dai tedeschi la leonessa dei partigiani e la sua giovane compagna “Ora” Ancilla Marighetto con il fratello Celestino Renata, e fra gli altri il nostro Corrado Pontalti Prua .
L’8 ottobre una colonna militare corazzata tedesca circonda e mette in stato d’assedio Castello Tesino. Il parroco don Cristofolini con tutti i paesani fa voto alla Madonna per risparmiare la Comunità dalla rappresaglia. Un gruppetto di partigiani si nasconde verso Celado. Solo Veglia non lascia al suo destino il suo amato Nazzari ancora indebolito dalle ferite. Una scelta fatale a entrambi. S’incamminano sul sentiero che porta verso Zuna, dove Veglia voleva trovare rifugio in una malga. Sull’imbrunire sono sorpresi da due militi del CST di Castello che li avrebbero anche lasciati scappare se non fossero sopraggiunti altri due militi fanatici  che, dopo alcune prime sevizie, li consegnano ai tedeschi insediati nel maso più vicino di proprietà della famiglia Buffa, a due chilometri da Castello Tesino verso Grigno. La notte cala presto il suo mantello nero. Nazzari è scaraventato a terra con il calcio del mitra e subito picchiato senza misericordia per farlo parlare. Di lui i tedeschi non sanno il nome e non immaginano che è il nuovo capo di stato maggiore del Gherlenda.
Si svuota sul tavolo lo zaino di Veglia. La ragazza tenta con un gesto disperato di recuperare la pistola lasciata sul fondo. Non ci riesce. La schiaffeggiano con violenza. La legano mani e piedi a una sedia. La riconoscono subito anche i tedeschi per averla vista spesso all’Albergo Italia. Nazzari durante la notte, a forza di percosse viene ridotto ad un grumo di sangue. All’alba i due partigiani sono portati alla sede delle SS a Castello Tesino e non si vedranno più . Un attimo prima Veglia riesce a sussurare alla sua compagna di scuola Ida che abitava in quella casa: “Mi uccideranno. Sarò la morte della mia mamma. Non me ne importa di me.Mi spiace solo per lui che è innocente”. Poi fu interrotta bruscamente .
Ad occuparsi direttamente di Veglia è il comandante Hegenbart. Le torture di ogni genere durano per tre giorni. Il comandante tedesco fa azzannare persino dal suo cane lupo.
A nulla vale il tentativo di don Narciso Sordo di aiutarla e sostenerla spiritualmente. A sua volta don Sordo è arrestato, poi liberato e ancora arrestato un mese dopo, questa volta con destinazione Mauthausen dove morirà tragicamente.
Veglia non parla, dalla sua bocca non esce nemmeno un nome. Ai suoi carnefici dice sprezzante: “È inutile, quando non ne potrò più dal dolore, mi mozzerò la lingua con i denti”.
La sera dell’11 è portata fuori dal paese. Su un tornante della strada, vicino a una scarpata, a non molti metri da Villa Daziaro, Veglia è freddata con un colpo di arma da fuoco a bruciapelo. Lo sparo rimbomba nella notte e si sente chiaramente in Villa Daziaro . Gli ultimi militi che lasciano il luogo sono gli stessi due che l’avevano arrestata. Non contenti la spogliano, la violano per l’ultima volta, la calpestano e la buttano nella scarpata dove rimane intrappolata da alcuni rami degli alberi. Il giorno dopo nessuno osa passare da quelle parti .
Sarà la pietà cristiana di don Narciso Sordo e del parroco Silvio Cristofolini, a recuperarla e rivestirla con il vestito tradizionale del Tesino. La troverà così, sul bordo della strada, il medico condotto di Castello Tommasini autorizzato a riconoscerla. Il corpo sarà poi tumulato nella fossa comune fuori il cimitero.
Quattro giorni dopo Veglia avrebbe festeggiato i suoi 20 anni.

3 aprile 1944: 71 ostaggi fucilati a Opicina

Il 3 aprile 1944 venivano uccise 71 persone (tra cui militanti antifascisti, partigiani italiani, sloveni, croati, rastrellati a Trieste e in altri centri della regione), presso il poligono di tiro di Opicina, vicino a Trieste, in seguito alla rappresaglia ordinata per un attentato avvenuto in un un cinema che causò la morte di 7 soldati tedeschi. Questi 71 cadaveri furono i primi ad essere bruciati nel forno crematorio della risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio esistente in Italia.  Le testimonianze della gente del posto e dell’unico superstite della rappresaglia, il giovane partigiano Stevo Rodic, hanno permesso che venisse ricostruita questa ennesima strage in territorio triestino. Il Monumento dedicato a queste vittime del nazifascismo è in stato di abbandono, relegato in una via laterale, con scarne indicazioni, circondato da un centro di raccolta rifiuti e un poligono di tiro ancora funzionante in cui il 15 dicembre 1941 sono stati fucilati cinque antifascisti sloveni, Viktor Bobek, Ivan Ivancic, Simon Kos, Pinko Tomazic e Ivan Vadnal. Questo è un luogo simbolo della resistenza a Trieste e dovremo tutti domandarci perchè, a otto chilometri da qui, c’è un altro monumento ben curato e pubblicizzato in cui  da anni viene richiesta una ispezione approfondita della sua cavità che (chissà come mai) viene sempre negata dalle autorità competenti. Due monumenti che non hanno lo stesso peso e non hanno lo stesso valore. Due monumenti che fanno capire la differenza tra strumentalizzazione  della storia e verità storica.