Riceviamo e diffondiamo questo appello di Silvia Manderino di Rete per la Costituzione:
Vi allego la lettera che la “Rete per la Costituzione” ha inviato ieri sera, 13 luglio 2014, al Presidente del Senato e a ciascuno dei 315 senatori in previsione della discussione sul DDL – partita oggi nell’aula del Senato – con cui il Parlamento è in procinto di modificare l’ordinamento costituzionale della Repubblica.
Come penso saprete, domani, 15 luglio, a Roma ci sarà un presidio davanti al Senato (concentramento iniziale in Piazza delle Cinque Lune), organizzato da varie associazioni e comitati, per fare sentire la voce dissonante dei molti cittadini che non accettano una riforma che stravolgerebbe l’impianto costituzionale disegnato dalla Carta.
La situazione – in presenza di un silenzio assordante da parte della quasi totalità degli organi di informazione sulle posizioni contrarie ad un progetto di natura plebiscitaria che si vuole imporre a tutta la cittadinanza italiana – è di estrema gravità.
Lo stanno dicendo da tempo molte persone, dai costituzionalisti ai comuni cittadini.
L”indifferenza generale è ciò su cui contano i fautori di questo progetto (partito, come noto, dal cosiddetto “patto del Nazareno”).
Questo progetto di controriforma costituzionale potrebbe definitivamente incidere sul futuro del Paese democratico.
Cerchiamo di unire tutte le forze per contrastare questo disegno.
Diffondete come e più potete.
Un caro saluto
Silvia Manderino
Questa la lettera ai senatori:
Il progetto di riforma costituzionale sottoposto all’esame dell’Aula del Senato a partire da lunedì 14 luglio 2014, è oggetto di grande preoccupazione per molti cittadini italiani che, manifestando in varie forme la loro opposizione, considerano la Costituzione repubblicana il fondamento della convivenza democratica.
Con il referendum confermativo del 2006 la maggioranza degli italiani impedì il tentativo di stravolgere le norme su cui si fonda l’ordinamento dello Stato italiano.
Oggi questo progetto torna ad imporsi, ma ha l’aggravante di essere il frutto di accordi intervenuti tra due soggetti privati, uno dei quali ha commesso gravi reati contro lo Stato per i quali è stato definitivamente condannato ed ha in corso l’espiazione della pena.
Questa intollerabile situazione è certamente una delle più gravi anomalie per cui l’Italia si distingue tra gli altri Paesi europei.
Mancano però anche evidenti ragioni giuridiche perché l’attuale Parlamento italiano – frutto di una legge elettorale che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima – possa disporsi a modificare la Costituzione, iniziativa di vitale importanza per il futuro del Paese e che i cittadini italiani, tra l’altro, non hanno mai chiesto venisse promossa e attuata.
Non vi sono fondate ragioni per trasformare il Senato della Repubblica in mera “camera consultiva”, privata delle fondamentali funzioni che la Costituzione ha attribuito proprio pensando al bilanciamento dei poteri costituzionali e per di più formata da soggetti non eletti dai cittadini italiani ma nominati in altri luoghi e per altre funzioni.
Se a ciò si aggiunge la previsione di estendere l’immunità parlamentare a senatori nominati, allora la violazione appare manifesta a cominciare dai principi sanciti dall’art. 3 della Carta.
Il progetto che vi accingete a discutere al Senato in prima lettura, dopo che alla Camera è stata approvata una nuova legge elettorale che presenta tutte le caratteristiche di illegittimità costituzionale della precedente, autorizza i cittadini a ritenere che vi sia una volontà diretta ad eliminare dalla Costituzione i principi della democrazia rappresentativa per introdurre un sistema di investitura plebiscitaria.
Questo è il concreto e grande rischio che corre la Repubblica.
Ed è un pericolo che è vostro compito sventare.
Il vostro ruolo impone non solo di considerare le ragioni di quella che appare come una radicale modifica della struttura istituzionale dello Stato, ma di assumere la responsabilità di una decisione che potrebbe segnare nel futuro la fuoriuscita da una Repubblica democratica.
Come cittadini componenti associazioni e comitati in difesa della Costituzione presenti in varie parti d’Italia e uniti nella “Rete per la Costituzione”, vi sollecitiamo affinché il progetto di riforma costituzionale in discussione venga fermato.
Inizia oggi in Senato la demolizione della Costituzione. Il disegno autoritario che non è riuscito a Berlusconi nel 2006 (bloccato dai cittadini col referendum) sta per essere attuato da Renzi, che nessuno ha eletto in Parlamento, guida un governo con una maggioranza diversa da quella per cui il suo partito ha chiesto i voti nel 2013 e fa accordi segreti con un cittadino condannato che sta scontando la pena.
ECCO LE ‘RIFORME’ DI BERLUSCONI E RENZI
Legge elettorale incostituzionale – La Camera sarà ancora composta da 630 Deputati, ma li sceglieranno quasi tutti i segretari dei primi due partiti. Il partito più votato (basta anche il 20%) avrà il 55% e governerà da solo a colpi di decreti e di voti di fiducia.
Cancellazione del Senato – Non potremo più eleggere i Senatori, che saranno scelti anch’essi fra chi è già stato eletto negli enti locali, quindi anche il Senato sarà dominato dai primi due partiti. Comunque non potrà controllare il governo, né votare le leggi.
Niente più organismi di garanzia – Grazie ai due punti precedenti il capo del governo potrà scegliersi il Presidente della Repubblica (a partire dal terzo scrutinio, quando basta il 50%+1) e 10 dei 15 giudici della Corte Costituzionale. Quindi non sarà più possibile bloccare le leggi incostituzionali.
Fine dell’autonomia dei Magistrati – Il capo del governo potrà nominare anche 1/3 del CSM, che potrà comunque controllare attraverso il Presidente della Repubblica, come si è visto con la lettera di Napolitano sul caso Bruti Liberati. Inoltre con le nuove regole sul pensionamento e sui provvedimenti disciplinari (dirottati a una Alta Corte di nomina del governo) i giudici perderanno la loro autonomia.
Immunità per la ‘casta’ – Dopo una stagione di scandali e con tanti politici sotto inchiesta e condannati, l’immunità dei parlamentari viene rafforzata e estesa ai senatori non eletti, cioè a sindaci e consiglieri regionali (nonostante le vicende del MOSE e dei rimborsi elettorali intascati dai consiglieri nel Lazio, in Liguria, Lombardia e Piemonte). Invece di combattere la corruzione si decide di non perseguirla.
Il conflitto di interessi rimane – Nessun provvedimento per cambiare l’anomalia italiana, unico Paese evoluto in cui un capo politico è anche l’uomo più ricco del Paese e controlla buona parte dei mezzi di informazione. Nessun provvedimento nemmeno per garantire l’indipendenza della RAI, né per aiutare la stampa non controllata da industriali e finanzieri.
I cittadini contano sempre meno – I cittadini non potranno esprimere preferenze per la Camera, né scegliere i senatori e nemmeno eleggere i consiglieri provinciali (ma per ora le Province rimangono, anche se con nomi diversi); per le leggi di iniziativa popolare serviranno molte più firme; continuerà a non esserci nessuna garanzia sul rispetto delle scelte dei cittadini espresse nei referendum (come insegna quello sulla ripubblicizzazione dell’acqua).
Rete per la Costituzione
L’italia ha bisogno di riforme, ma per far pagare le tasse agli evasori, per lottare contro la grande criminalità, per difendersi dagli attacchi della speculazione finanziaria, per creare posti di lavoro e dare sicurezza ai più deboli. Non dobbiamo per questo rinunciare alla democrazia e consegnare tutto il potere a una persona sola. Sappiamo già come andrebbe a finire.
Secondo la logica dei politici ucraini, dopo la svendita della proprietà nazionale agli oligarchi delle multinazionali occidentali, dopo il colpo di grazia all’economia locale, dopo lo smantellamento dei sindacati attraverso i roghi e gli assalti violenti alle riunioni sindacali da parte dei neonazisti e tifosi di calcio pilotati dalle organizzazioni governative, dopo i genocidi compiuti nelle regioni in cui la maggioranza dei cittadini non accettano il potere dei golpisti e rimangono fedeli alla Costituzione, il passo successivo per dare al Paese un taglio “moderno” e “democratico” è senz’altro l’ufficializzazione dei simboli del nazismo. Gli uomini del potere di Kiev lo sanno bene e si abbandonano di gusto alla nostalgia per i tempi in cui i loro antenati “patrioti” e “difensori dell’integrità nazionale” collaboravano con Hitler, sterminando centinaia di migliaia di civili ebrei, ucraini, russi, polacchi, bielorussi. La propaganda del nazismo è diventata l’apoteosi del nuovo regime portato al potere con il golpe di Maidan. Sulla TV Ucraina va in onda in continuazione una variante distorta della storia, in cui presentano in chiave eroica e gloriosa i personaggi che si sono macchiati di terribili crimini contro l’umanità, come il boia nazista Stepan Bandera, il fondatore dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), nonché il collaborazionista e filo-nazista a cui si ispirano i moderni movimenti neonazisti ucraini, in particolare Pravy Sektor (Settore destro), i membri del quale oggi ricoprono alte cariche nel governo e nel parlamento ucraino. Persino qui in Italia il rappresentante del potere golpista ucraino, niente di meno che l’ambasciatore in persona Yevhen Perelygin, non è riuscito a trattenere la sua esaltazione nazista, urlando in pubblico “Viva Bandera!”, per replicare alle proteste degli aderenti al comitato di solidarietà all’Ucraina antifascista in occasione della sua visita al rettorato dell’Università di Catania. Con questa semplice e apparentemente innocente frase (che non è stata notata da nessuno dei nostri politici o giornalisti) il rappresentante ufficiale dell’Ucraina ha chiarito i valori che il suo paese porta da noi in Europa Unita: xenofobia e razzismo ottusamente mascherati dietro i concetti di “democrazia” e “libertà”, che ci propone elogiando il regime nazista, approvando gli stermini di massa che avevano decimato la popolazione dell’Europa ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Ma il nuovo governo ucraino è andato ben oltre la banale rivalutazione storica dei criminali nazisti. Si è sentito talmente motivato e giustificato dall’appoggio dei protettori di Washington e di alcuni “illuminati” dell’UE da ufficializzare al livello statale anche i simboli nazisti. L’esempio migliore è lo stemma del reparto militare Azov composto da volontari provenienti dalle organizzazioni neonaziste ucraine che fa parte dell’esercito ucraino ed è oggi impegnato nel genocidio contro le popolazioni del Sud-Est ucraino che alcuni dei nostri politici e gran parte dei giornalisti ancora si ostinano a chiamare “operazione antiterroristica”. Questa “gloriosa” unità di boia nazisti si è già macchiata di molti crimini contro i civili, a cominciare dal massacro dei pacifici manifestanti a Mariupol, donne e uomini usciti a protestare contro la politica violenta del governo golpista, agli ultimi casi di fucilazione di massa dei difensori del Sud-Est feriti e massacrati direttamente sui letti dell’ospedale. Lo stemma del battaglione Azov riporta fedelmente un simbolo germanico che si chiama Wosfsangel, che sarebbe “dente di lupo”. Questo simbolo ha le origine runiche ed era adottato da numerose unità militari della Germania nazista. E nonostante i crimini compiuti dal nazismo condannato da tutta l’umanità, nessuno qui da noi, nell’Europa moderna, si scandalizza se nell’Ucraina golpista vengono usati i simboli nazisti, prima dai delinquenti violenti di Maidan e poi un’unità dell’esercito regolare. Qual è la prossima tappa? Lo sterminio dei propri cittadini che non acconsentono al potere del golpe, la censura, gli assassini dei giornalisti? O, scusate, che distratto, sta già accadendo! Persino il nostro connazionale, il giornalista Andrea Rochelli e il suo collega russo sono stati barbaramente uccisi dai nazisti dell’esercito di Kiev. E nessuno qui ha dato spazio a questa tragedia, nessuno ha raccontato la storia di Andrea, nessuno ha parlato della sua famiglia, nessuno ha condiviso con la sua nazione il momento dell’addio, dei suoi funerali. Che vergogna… Giocando con l’ideologia nazista gli ucraini e i loro sostenitori europei e americani non si rendono contro che stanno giocando con il fuoco. Contagiati dalla febbre della nostalgia, i politici e molti cittadini ucraini dimenticano che si tratta di un sentimento molto pericoloso, che a volte può fare dei brutti scherzi, può portare verso le situazioni che si ritorcono contro. La Storia ha molti esempi di questo genere, basterebbe studiarla attentamente e imparare dalle esperienze umane del passato. Ovviamente questo richiede tempo, che purtroppo molti di loro preferiscono investire nelle manifestazioni pro golpiste, saltando e urlando in un’euforica estasi nella venerazione nazista.
“Giorgio Almirante è stata espressione di una generazione di leader di partito che, pur da posizioni ideologiche profondamente diverse, hanno saputo confrontarsi mantenendo reciproco rispetto, a dimostrazione di un superiore senso dello Stato che ancora oggi rappresenta un esempio”. E’ quanto scrive il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un messaggio alla signora Assunta Almirante in occasione del centenario della nascita dello storico leader del Msi. (26 giugno 2014)
«Alle ore 24 del 25 maggio scade il termine stabilito per la presentazione dei posti militari e di polizia italiani e tedeschi, degli sbandati ed appartenenti a bande […] Tutti coloro che non si saranno presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi mediante fucilazione nella schiena». Queste frasi fanno parte di un comunicato apparso sui muri di Grosseto il 17 maggio 1944. Chi firmava la condanna a morte per i partigiani che decidevano di non arrendersi e consegnare le armi entro le 24 ore del 25 maggio era Giorgio Almirante.
Almirante nel 1938 fu firmatario del Manifesto della razza, anticamera dell’olocausto degli ebrei, e dal 1938 al 1942 collaborò alla rivista “La difesa della razza” come segretario di redazione. Su questa rivista si occupò di far penetrare in Italia le tesi razziste provenienti dalla Germania nazista, ma con tutto l’orgoglio di essere razzisti italiani: « il razzismo è il più vasto e coraggioso riconoscimento di sé che l’Italia abbia mai tentato. Chi teme ancor oggi che si tratti di un’imitazione straniera non si accorge di ragionare per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che il movimento inteso a dare agli italiani una coscienza di razza […] possa servire ad un asservimento ad una potenza straniera » (Giorgio Almirante, 1938). « Noi vogliamo essere, e ci vantiamo di essere, cattolici e buoni cattolici. Ma la nostra intransigenza non tollera confusioni di sorta […] Nel nostro operare di italiani, di cittadini, di combattenti – nel nostro credere, obbedire, combattere – noi siamo esclusivamente e gelosamente fascisti. Esclusivamente e gelosamente fascisti noi siamo nella teoria e nella pratica del razzismo » (Giorgio Almirante, 1942). “Il razzismo ha da essere cibo di tutti e per tutti, se veramente vogliamo che in Italia ci sia, e sia viva in tutti, la coscienza della razza – scriveva Giorgio Almirante -. Il razzismo nostro deve essere quello del sangue, che scorre nelle vene, che io sento rifluire in me, e posso vedere, analizzare e confrontare col sangue degli altri. Il razzismo nostro deve essere quello della carne e dei muscoli; e dello spirito, sì, ma in quanto alberga in questi determinati corpi, i quali vivono in questo determinato Paese; non di uno spirito vagolante tra le ombre incerte d’una tradizione molteplice o di un universalismo fittizio e ingannatore. Altrimenti – dice Giorgio Almirante -, finiremo per fare il gioco dei meticci e degli ebrei; degli ebrei che, come hanno potuto in troppi casi cambiar nome e confondersi con noi, così potranno, ancor più facilmente e senza neppure il bisogno di pratiche dispendiose e laboriose, fingere un mutamento di spirito e dirsi più italiani, e simulare di esserlo, e riuscire a passare per tali. Non c’è che un attestato col quale si possa imporre l’altolà al meticciato e all’ebraismo: l’attestato del sangue”.
Il 31 maggio 1972, in Peteano di Sagrado, in provincia di Gorizia, mentre in televisione trasmettevano Inter-Ajax, morirono dilaniati in un attentato il brigadiere Antonio Ferraro di 31 anni e i carabinieri Donato Poveromo e Franco Bongiovanni di 33 e 23 anni. Rimasero gravemente feriti il tenente Francesco Speziale e il brigadiere Giuseppe Zazzaro. Almirante fu incriminato per favoreggiamento dell’autore della strage di Peteano e fu rinviato a giudizio. Il capo dell’MSI godeva dell’immunità parlamentare dietro la quale si trincerò perfino per evitare di essere interrogato. La tirò avanti per anni di battaglie nelle quali non fu mai in dubbio la sua colpevolezza, finché non intervenne un’amnistia praticamente ad personam, della quale beneficiava solo in quanto ultrasettantenne. Giorgio Almirante, l’uomo d’ordine, dovette chiedere per sé l’amnistia perché il dibattimento lo avrebbe condannato e ne beneficiò per il reato di favoreggiamento aggravato degli autori (militanti e dirigenti del suo partito) di un attentato terroristico nel quale vennero uccisi tre carabinieri.
Nel 1972 l’allora Procuratore Generale di Milano, Luigi Bianchi D’Espinosa decise di chiedere alla Camera l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti con l’accusa di tentata ricostituzione del Partito Fascista. Nel documento redatto dal Procuratore generale si legge:
« Le numerose note a me pervenute in risposta alle mie richieste elencano un gran numero di fatti che testimoniano dell’uso della violenza nei confronti degli avversari politici e delle forze dell’ordine, della denigrazione della democrazia e della resistenza, dell’esaltazione di esponenti e principi del regime fascista, nonché di manifestazioni esteriori di carattere fascista da parte di esponenti di varie organizzazioni dell’estrema destra. […] è poi risultato che una parte preponderante di tali comportamenti trae origine dal Movimento sociale italiano (MSI), come si ricava dalla stampa di tale partito di cui in atti, sia dal particolare che molti dei fatti riferiti nelle varie note ufficiali allegate sono stati consumati da appartenenti alle varie organizzazioni di detto movimento, talvolta isolatamente, più spesso uniti fra loro […]
Video della manifestazione del 29 novembre 2010, quando l’Anpi di Mirano si è opposta all’intitolazione di una via al fascista Almirante (interventi di Angelo Pettenò e Marcello Basso):
Questo il discorso tenuto da Sandro Pertini il 28 giugno in Piazza Vittoria, prima dei gravi fatti del 30 giugno
Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova i1 suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.
Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.
La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.
Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.
E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.
A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.
(a cura del Centro Culturale Sandro Pertini)
Per chi vuole conoscere e approfondire i fatti di Genova questo è un documentario del regista Calopresti diviso in 4 parti, con i protagonisti di quei giorni:
L’intervista di Radio Popolare a Lorenza Carlassare:
Come andrebbe risolta la questione dell’immunità di cui tanto si parla in queste ore?
Se non fosse tragico sarebbe ridicolo. Ieri ho sentito che la ministra Boschi diceva di voler trovare una mediazione. La mediazione si ha tra persone che vogliono cose diverse. Sull’immunità nessuno la voleva. Tra chi mediano? Nessuna l’aveva messa, nessuno l’aveva pensata, che allora la eliminino, che mediazione è?
Ho sentito anche qualcuno dei miei colleghi parlare del ’700, delle origini celebri dell’immunità parlamentare, ma si sono dimenticati di ricordare da chi allora ci si voleva difendere. Già nel medioevo inglese le rivendicazioni delle libertà parlamentari nascevano dall’esigenza concreta, quotidiana, politica, di garantirsi dalle interferenze del re nell’attività parlamentare e più tardi viene addirittura codificata la regola del Bill of right nel 1689 che la libertà di parola, discussione e di azione in parlamento non può essere contestata in sede giudiziaria. Per difendersi. In Francia, quindi un secolo dopo, alla fine del ’700, mentre il re era pronto a usare la forza contro i rappresentanti del terzo stato riuniti in assemblea generale, Bailly disse “la nazione riunita in assemblea non riceve ordini da nessuno”. E si approvò una dichiarazione che sanciva l’inviolabilità della persona, di ciascun deputato, che discende dai principi che “nessun centro di potere può ergersi al di sopra del corpo rappresentativo della nazione” (Robespierre). Qui è tutto ridicolo: il re non c’è, i giudici non sono i giudici del re, del governo, da chi si devono difendere? Loro non sono i rappresentanti della nazione perchè non sono nemmeno eletti (questi del nuovo senato).
Nella Costituzione italiana l’immunità era stata prevista secondo quale ragionamento?
Quando siamo passati dalla monarchia alla repubblica è rimasta nella costituzione l’immunità, sempre per ragioni più fragili però sempre opportune. Una cosa rimane importante. La riforma del 1993 ha tolto il secondo comma dell’articolo 68, che prevedeva due cose: l’insindacabilità e questa va benissimo, questa deve rimanere per chiunque: i membri del parlamento non possono essere perseguiti – oggi è scritto chiamati a rispondere, un cambiamento semantico importante – per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questa è l’insindacabilità, questa è corretto che ci sia.
La seconda cosa era l’immunità, che chiedeva l’autorizzazione della camera per sottoporre a procedimento penale, che è stata tolta. E’ arrivata l’autorizzazione a procedere per gli arresti, le perquisizioni, le intercettazioni e i sequestri di corrispondenza. Questa no, non deve rimanere per sindaci e presidenti di regione spesso indagati.
Io vorrei però sottolineare una cosa importante: la prassi che è stata usata. Dopo la riforma del 1993 rimane l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio della funzione. Invece le camere cosa hanno fatto per difendersi fortemente, al massimo, hanno allargato il concetto di “opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni” fino a comprendere in pratica tutte le attività, ogni espressione di pensiero di ogni parlamentare.
La garanzia del secondo comma viene spostata nel primo, per estendere le garanzie e la difesa.
Allora che resti solo l’insindacabilità – senza parificare deputati e senatori perchè i deputati sono eletti dal popolo, mentre questi sono (in qualche modo nominati) dalle segreterie dei partiti. Vengono sì eletti, ma si elegge quello che il partito offre.
Io sono molto contraria a questa riforma perchè la vedo globalmente come il desiderio di togliere la popolo qualsiasi possibilità di interferire, la legge elettorale che mette la soglia di sbarramento all’8% per i partiti non coalizzati vuol dire togliere le minoranze. C’è il desiderio di andare avanti senza impacci.
Bisogna stare attenti quando si riducono gli spazi di democrazia e le garanzie, le minoranze espulse, un senato non elettivo…. questo senato non elettivo: o ne fanno un espressione che sia solo relativo alle questioni regionali, e allora più che un senato diventa un organo di consulenza. Ma qui si sta giocando male perchè ci sono delle funzioni importantissime che gli sono attribuite: ha la funzione legislativa più elevata possibile perchè nel progetto questo Senato che non è un Senato, è uno “sgorbio”, concorre insieme all’altra camera alla riforma della costituzione. Quindi una legge di riforma costituzionale, che è la più importante, è di competenza anche di quest’organo. Allora il discorso cambia. Io accetto il discorso di un senato delle autonomie ma non di un senato nominato così, che partecipi alla formazione della corte costituzionale su cui è tanti anni che vogliono mettere le mani.
Il suo giudizio è che questo “sgorbio” sia frutto di insipenza o di mediazioni eccessive, sbagliate…?
Non credo sia insipienza, il mio giudizio è che questo sgorbio sia frutto di un disegno che va avanti da tantissimi anni di cambiare la costituzione. E quando loro parlano di cambiare la costituzione non pensano ad alcune modifiche, pensano di toccarne il cuore, quella che è la sua forma e cioè la democrazia costituzionale. Democrazia costituzionale non vuol dire totalitaria o maggioritaria dove chi vince ha tutto, ma vuol dire limiti e regole al potere. Il costituzionalismo nasce per questo, per porre limiti e regole al potere. Il potere non le vuole e quindi reagisce in modi più o meno educati a seconda del momento storico e dei personaggi. Io sono veramente ostile. Se questo senato fosse un organo di consulenza e basta a me andrebbe anche bene, ma allora non devono dargli il potere di revisione costituzionale. Questo è inammissibile, veramente inammissibile. Devo dire la verità che mi sono un pò scoraggiata in quest’ultimo periodo, vedo che tutti saltano sul carro dei vincitori, anche alcuni miei insospettabili colleghi.
Devo aggiungere una cosa: tra le mediazioni possibili inserire la corte costituzionale nelle questioni politiche è un modo per ammazzare la corte, delegittimarla, sottoporla a critiche per il suo operato e ingombrarne inutilmente il lavoro. La funzione della corte andrebbe allargata nelle verifiche dopo le elezioni, per dire era ineleggibile. Facciamo l’esempio di Berlusconi. Quando è stato eletto non era eleggibile, c’era una legge che lo vietava perchè era titolare di una concessione pubblica. Il parlamento ha detto che andava bene lo stesso, perchè tanto non era lui che gestiva ma gestiva Confalonieri. Le varie forze politiche non sono una garanzia, negli altri paesi queste questioni dell’ineleggibilità sono gestite dalla corte costituzionale, sia in Francia che in Germania.
Questo darei alla corte.
In seguito al fallito tentativo di far saltare il ponte in muratura nei pressi della Bettola, da parte della Squadra Sabotatori; un automezzo tedesco proveniente da Casina, sopraggiunse sul posto per impedire ai partigiani di compire la definitiva distruzione. Ne seguì uno scontro a fuoco durante il quale morirono diversi tedeschi ed i partigiani Enrico Cavicchioni, Pasquino Pigoni, Guerrino Orlandini. La reazione dei tedeschi fu immediata. Il combattimento era avvenuto verso le 22,30 del 23 giugno 1944 e già alle 23,15 partirono da Casina, autotrasportati, circa 50 dei 140 uomini del presidio della gendarmeria tedesca. La rappresaglia iniziò verso le ore 1 del giorno 24.
I tedeschi circondarono cautamente alcune case situate nei pressi del ponte, penetrati nella casa di Liborio Prati e Felicita Prandi, due vecchi di 70 e 74 anni, li uccisero insieme alla loro figlia Marianna. La casa venne poi depredata ed incendiata. La bambina undicenne Liliana Del monte si gettò da una finestra per salvarsi, ma fu ripresa e gettata in una stalla che bruciava, riuscendo però miracolosamente a sopravvivere. A questo punto i nazisti passarono alla locanda della Bettola, dove per mezzo di un interprete, si fecero aprire la porta dall’oste Romeo Beneventi. Fecero uscire le donne, i bambini e gli uomini, radunandoli in parte nel garage dell’albergo ed in parte dietro la casa.
I primi furono mitragliati, poi ricoperti da tronchi d’albero, cosparsi di benzina e dati alle fiamme per incenerirne i cadaveri. Coloro che invece erano stati radunati dietro al grosso fabbricato, vennero trucidati a bastonate ed a colpi di pistola, quindi gettati anch’essi nel rogo insieme agli altri.
Tra loro fu arso vivo Piero Varini, un bimbo di appena 18 mesi.
La furia omicida dei tedeschi, non ancora sufficientemente appagata, investì anche due giovanissime donne, prima violentate, poi uccise ed infine arse nel fuoco. Riuscirono a salvarsi l’oste, alcuni carrettieri nascosti in cantina ed un giovane renitente, rifugiatosi nel solaio.
Alla fine furono 32 i morti, in gran parte impiegati sfollati dalla città, braccianti, carrettieri di passaggio, studenti e scolaretti in tenera età, uomini e donne di età compresa tra i 5 ed i 74 anni.
Se a Cervarolo i tedeschi avevano massacrato soltanto gli uomini, alla Bettola non venne risparmiato nessuno, nonostante la popolazione fosse assolutamente estranea allo scontro con i partigiani avvenuto nella notte. La gendarmeria tedesca ebbe come unica intenzione quella di uccidere quante più persone possibili, riuscendo persino a superare in efferatezza persino le torme selvagge dei paracadutisti della divisione “Goering”.
Liliana Manfredi, una delle sopravissute alla strage:
Il principio della resistenza è descritto nella Costituzione francese del 19 aprile 1946, articolo 21: “Qualora il governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Nella Costituzione Italiana non c’è un articolo che afferma questo principio ma Giuseppe Dossetti e Teresa Mattei, due dei padri costituenti, lo volevano inserire tra i principi fondamentali della Costituzione: l’iter dell’articolo di Dossetti si concluse con un voto finale negativo e così il diritto di resistenza non è entrato a far parte del testo definitivo. Questo è un articolo di Federico Bernini che tratta di questo argomento:
Quando qualche giorno fa Alessio Ciampini, mi ha chiesto se avessi voluto dare un contributo al blog “Fuoricomeva?” con un articolo sulla Costituzione italiana ho accettato volentieri.
Mi sono chiesto quale degli articoli avrei potuto prendere come spunto e quale taglio dare al testo.
Ho scelto di lavorare sull’assenza. Ho voluto scrivere un articolo su un argomento noto, ma credo oggi di grande attualità; mi riferisco all’Articolo sul Diritto di Resistenza, che Giuseppe Dossetti, partigiano, cattolico, padre costituente, membro di spicco della Democrazia Cristiana, che si allontanò dalla politica, divenendo sacerdote nel 1959, propose all’Assemblea Costituente e che non fu approvato.
Nella proposta di Dossetti, l’Articolo sul Diritto di Resistenza avrebbe dovuto essere l’Articolo 3 dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana.
Molto amico di Teresa Mattei, visse una vita complessa e travagliata, caratterizzata da una grande passione politica, da una spiccata sensibilità umana e da una continua ricerca verso il perfezionamento del sistema democratico.
L’orrore della Seconda Guerra Mondiale e la drammatica esperienza del Nazifascismo lo indussero, su ispirazione dell’Articolo 21 della Costituzione francese del 1946, a formulare questo articolo:
La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino.
È questo l’abituale principio della resistenza, logico corollario dei due articoli precedenti.
Dossetti era presente insieme a Teresa Mattei a Marzabotto, poco dopo la fine della guerra, quando i cadaveri della strage furono disseppelliti dalle fosse comuni. A Marzabotto scelse di essere seppellito, quando nel 1996, a causa di un tumore morì.
Come dicevo prima, questo articolo manca nella nostra Costituzione, è un’assenza, di cui però vale la pena parlare e che ci consente di riflettere su alcuni temi come le forme di resistenza civile e culturale o le forme di critica organizzata che hanno visto molte soggettività esprimersi sulla tutela dei beni comuni, di quelli artistici e architettonici, fino a quelli paesaggistici.
Comitati, intellettuali, associazioni e cittadini hanno assunto implicitamente il diritto di resistenza come strumento di critica, analisi, confronto e proposta davanti a una manifestata assenza di interesse pubblico in alcune scelte dei governi o delle amministrazioni locali.
Non solo il Diritto di Resistenza rappresentava una forma di ulteriore tutela dei cittadini e della forma democratica dello stato, ma incarna nella sua essenza la sovranità popolare all’interno di un sistema democratico e repubblicano.
Riconoscere la legittimità di una forma di resistenza qualora i diritti fondamentali della Costituzione siano traditi o eliminati sancisce la responsabilità e l’autonomia dei cittadini e il loro diritto a svolgere un ruolo di critica e di contestazione costruttiva.
La sola obbedienza non salva l’anima delle persone e neppure i diritti acquisiti e previsti dalla Costituzione. Basti pensare al testo fondamentale di Hannah Arendt, La banalità del male, dove il solo fatto di aver obbedito a degli ordini non sollevò i militari tedeschi dalle loro responsabilità nel realizzare il piano di distruzione di massa hitleriano.
Oggi in Italia esistono delle esperienze di resistenza civile, penso ai comitati per l’acqua, che hanno saputo costruire un movimento trasversale e di base che è stato capace di rivendicare una piattaforma comune sull’acqua bene comune e pubblico. Difronte al rischio di una selvaggia privatizzazione dei sistemi idrici, i cittadini hanno saputo unirsi, resistendo ad un processo che sembrava ormai già segnato: il risultato è stata la nascita dei referendum che hanno dato ragione ai motivi della “resistenza” dimostrando l’importanza di rivendicare con azioni pratiche e concrete forme di resistenza ai dettami dei poteri, politici e di lobby di interesse.
Sarà che Dossetti era un cattolico e forse questo in modo decisivo ha influito sulla sua spiccata umanità, sarà per l’esperienza da partigiano o perché visse gli orrori del nazifascismo, ma indubbiamente la sua testimonianza ci lascia quantomeno un monito importante, che la Costituzione e i suoi Principi Fondamentali vanno sempre difesi poiché garantiscono diritti, dignità, sviluppo a tutti i cittadini.
A questo proposito mi viene in mente un’altra recente forma di resistenza civile e culturale di cui ci parla Tomaso Montanari nel suo ultimo libro, Le pietre e il popolo, edito da Minimum Fax, e che fa riferimento in modo sostanziale all’Articolo 9 della Costituzione Italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Il libro è un bell’esempio di cattive pratiche italiane, a vario titolo connesse con la cultura, i beni artistici e paesaggistici italiani, dove la cancrena, la disattenzione e la modalità clientelare parte da degenerazioni interne allo Stato che avalla o comunque tace su evidenti scempi o palesi ingiustizie.
Una per tutte la questione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini di Napoli, vittima di un saccheggio sistematico di testi antichissimi da parte del suo direttore e complici alte cariche dello Stato con la silente “distrazione” dei due Ministri della Cultura, Galan e Ornaghi (per un approfondimento maggiore della questione cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Ed. Minimum Fax, pag. 39; Salvatore Settis).
Resistere ad uno scempio del genere, perpetrato nella noncuranza e nell’assenza di controllo da parte delle autorità preposte impone, per la salvaguardia di un patrimonio nazionale inestimabile, ma anche come esempio di buone pratiche, di resistere, di indignarsi e di procedere secondo i diritti che la Costituzione consente di attivare.
Il grande assente, il Diritto di Resistenza, di per se si presta a interpretazione e a strumentalizzazioni, inevitabilmente parlare del diritto di resistenza in questi giorni ci rimanda ai ricordi della primavera araba o più recentemente alle manifestazioni al Gezy Park di Istanbul. Il diritto di resistenza prevede o può prevedere la violenza?
La domanda è d’obbligo ma soprattutto le possibili risposte aprono scenari diversi. Ritengo che i contesti nei quali si sviluppano forme di dissidenza e critica, capaci di trasformarsi in atti di resistenza, determinino le modalità con cui la resistenza di sviluppa. Certo che se guardiamo alla Turchia, tutto nasce da una manifestazione pacifica di cittadini che volevano difendere uno spazio pubblico, un bene comune contro l’ennesima forma di speculazione edilizia. In questo caso dunque il rapporto e lo scontro si è creato tra la difesa di uno spazio pubblico e l’interesse privato del mercato. La repressione della polizia e del Governo di Erdogan e le evoluzioni successive in scontri rappresentano una conseguenza, evitabile, all’atteggiamento violento e intransigente del Presidente Turco.
La ridefinizione dei rapporti tra politica, governo e cittadini aiuterebbe a ricostruire intorno alle questioni importanti un discorso pubblico capace di rispondere ai bisogni e stimolare la partecipazione; altrimenti se tutte le decisioni e le questioni che riguardano i territori sono prese in forma privata o peggio ancora assecondando gli interessi di pochi, la frattura si allarga e le forme di distacco diventano sempre più profonde.
Forse se questo atteggiamento fosse stato tenuto anche per le questioni legate alla TAV in Val di Susa ci sarebbe stata la possibilità di costruire un percorso condiviso e certamente meno traumatico.
Chiudo rimandando ad un bel libro di Salvatore Settis, Azione popolare, ed. Einaudi, che ci aiuta a comprendere come le forme di “resistenza” passano attraverso modalità di condivisione e di partecipazione vera, ma soprattutto rappresentano il filtro di quei dodici Principi Fondamentali che i nostri padri costituenti vollero inserire come prima parte della nostra Costituzione. (di Federico Bernini da http://www.fuoricomeva.it)
Vivo per un pelo, con la faccia demolita, nella primavera del 1945 il partigiano siciliano Salvatore Di Benedetto torna al suo paese con il sogno della libertà in tasca e una giovane moglie sottobraccio. Si chiama Vittoria Giunti ed è fiorentina. Anche lei ha fatto la resistenza. Partigiana comunista. Un tipo sveglio, dinamico, sanguigno. n po’ strana, dicono in paese: la moglie di Totò Di Benedetto non è come le altre, viene dal “continente”, a Raffadali non ci sono femmine che parlano con questo accento, che ridono in quel modo e che portano camicie colorate. Tutti la guardano. All’ inizio con la diffidenza che si riserva ai forestieri, poi con ammirazione. Abita nel palazzo più antico del paese, fa mille domande, soprattutto alle donne, vuole sapere questo e quello, vuole sapere come si usa da queste parti, ha fretta di imparare il dialetto, ripete le parole, sbaglia, le ripete di nuovo. Sa tante cose, ma preferisce ascoltare. Le piace discutere. È una che sa il fatto suo. Quando rientra da Palermo, dopo avere partorito, si affaccia al balcone e senza parlare solleva in braccio suo figlio per presentarlo ufficialmente a un plotone di comari che ciarlano di sotto. Ora che ha deciso di vivere in Sicilia, è una siciliana come le altre (anche se manterrà sempre una distanza critica dalla tipica e complessa mentalità di chi vive in fondo allo stivale). E per lei, in un’ Isola libera dal fascismo ma non dalla miseria e dalla prepotenza, all’ indomani della seconda guerra mondiale, ancora stanca ed eccitata dalle battaglie combattute, comincia un’ altra vita, un’ altra battaglia, un’ altra resistenza. C’ è da difendere i diritti dei lavoratori, abolire il feudo e occupare le terre. Gli uomini sudano sangue nei campi sotto il sole, le donne stanno dietro alle persiane socchiuse. Pochi sanno cosa sono i diritti. Nessuno conosce le leggi scritte. Per tutti valgono quelle non scritte. La partigiana Vittoria si dà da fare, organizza incontri e comizi, spiega e scrive. È una donna colta. E di partito. Qualche anno dopo, nel 1956, diventa sindaco di Santa Elisabetta, piccolo centro a pochi chilometri da Raffadali. È lei il primo sindaco donna della Sicilia. La sua storia viene raccontata da un libro autofinanziato “Le eredità di Vittoria Giunti” curato da Gaetano Alessi della Rivista Ad Est. Nata nel 1917 e scomparsa tre anni fa. Una famiglia borghese, la sua: professionisti, medici, professori. Figlia di un ingegnere, alto funzionario delle ferrovie, vive un’ infanzia felice tra Firenze e le colline toscane: «Nella casa di campagna del nonno – racconterà lei stessa, pochi anni fa, a Gaetano Alessi – c’ era una biblioteca e in questa biblioteca c’ era una vetrina in cui era esposta una medaglia d’ argento che il mio bisnonno aveva ottenuto come garibaldino. Risale molto indietro nel tempo, in un Ottocento risorgimentale, quell’ ideale, quell’ atmosfera di libertà che si respirava nella mia famiglia. Atmosfera ottocentesca risorgimentale e liberale nel senso più vero della parola. Una cultura rispettosa di tutte le opinioni, nel senso critico, non nel significato negativo che danno a questa parola, ma nel senso di giudizio e di rispetto delle altrui opinioni». L’ anziana signora leggeva la sua storia e le sue scelte alla luce dell’ educazione ricevuta da ragazza. «Un’ educazione – raccontava – autenticamente antifascista, nel senso oggettivo del termine, nel senso di vissuta democrazia. Questa educazione è una delle radici della ragione della mia partecipazione alla vita civile. L’ altra è Firenze. La Firenze in cui ogni mattina, quando andavo a scuola, incontravo Dante, Michelangelo, Giotto. Incontravo il segno del libero comune, delle lotte anche furiose per la conquista di una libertà civile che anticipava di tanti secoli le libertà che qui in Sicilia sono state conquistate così tardi, compreso la rottura dei vincoli del feudalesimo». Ma c’ è ancora un’ altra radice alla base del suo attivismo politico: «La sorte fortunata di incontrare poi, quando la mia famiglia si è trasferita da Firenzea Roma, delle persone che mi hanno orientato decisamente verso quelle posizioni politiche che ho seguito per tutta la vita». Studia al Liceo Tasso, respira l’ aria dell’ antifascismo con polmoni affamati, si perde in lunghe discussioni politiche, guarda con avidità attraverso «quegli spiragli di libertà che sempre si trovano anche nei regimi dittatoriali». «Eravamo spinti – continuava – da ragioni ed esigenze di carattere morale, culturale, perché era veramente indegno il modo in cui si soffocavano i diritti della democrazia. La demagogia sfacciata, gli strumenti più volgari per ottenere il consenso della gente, si opponevano decisamente al nostro modo di essere. E ancora l’ assoluta impossibilità di approvvigionamento dei testi, degli strumenti del sapere, la censura, la proibizione non solo dei libri politici e di carattere economico, ma l’ occultamento dei romanzi dell’ intera letteratura americana ed europea, l’ impossibilità di ascoltare la musica dei giovani di allora come il blues e il jazz». Donna d’ acciaio, raffinata nei modi, laureata in Matematica e Fisica all’ Università di Roma, allieva dell’ Istituto di Alta Matematica, assistente all’ Università di Firenze, subito pronta a sacrificare la carriera accademica per l’ impegno civile. Durante la Costituente è componente di diverse commissioni nazionali, tra cui quella per il voto alle donne. Giovane staffetta partigiana, conosce Salvatore Di Benedetto, partigiano anche lui, più grande di sei anni, arrestato con Vittorini nel 1943, organizzatore della resistenza in Lombardia, poi parlamentare e dirigente comunista, sindaco per trent’ anni della stessa Raffadali che alla fine passerà in mano ai fratelli Cuffaro. Collezionista di libri antichi e pieno di interessi culturali, Di Benedetto sarà il compagno di tutta la vita. A Tivoli, durante una delle azioni a sostegno dell’ avanzata alleata, una bombaa mano gli ha devastato il volto e strappato un occhio. In ospedale, irriconoscibile, lo ha riconosciuto solo lei, Vittoria, e se n’ è innamorata. Due anni dopo si trasferiscono in Sicilia. E lì rimangono, a combattere. Fino al 2006. Lui se ne va il primo maggio, lei il due giugno. I lavoratori e la Repubblica. Manco a farlo apposta. (di Salvatore Fanzone da “Repubblica” del 3 settembre 2009)
La storia di Manlio Silvestri “Monteforte” è una esempio della vita e dei sacrifici che compirono i giovani partigiani italiani, ma purtroppo per molti anni è rimasta nascosta. Silvestri, nacque a Saccolongo di Padova nel 1916 da una famiglia agiata con idee progressiste.
Manlio si iscrisse al Pci e nel 1935 lasciò la famiglia per arrivare a Parigi. Nel 1936 fu in Spagna con la Brigata Internazionale Garibaldi dove si distinse per il coraggio e il valoroso comportamento. Nel 1939 fu costretto a riparare in Francia dove venne rinchiuso nel campo di Vernet insieme a molti altri antifascisti italiani e dove iniziarono a manifestarsi i sintomi della tubercolosi. Nel 1941 venne consegnato ai fascisti che lo inviarono al confino a Ventotene che lasciò nel 1943 quando rientrò a Padova ed iniziò il lavoro di raccolta armi e munizioni. A settembre di quell’anno venne inviato in provincia di Belluno per politicizzare un gruppo spontaneo comandato dal capitano Mione. Alla casera “Spasema”, il 7 novembre 1943, nacque il primo reparto partigiano bellunese che assunse il nome di “Luigi Boscarin”. Il reparto era formato da 22 elementi, fra cui tre sovietici e quattro jugoslavi e “Monteforte” ne divenne il commissario politico. Con il “Boscarin” Silvestri partecipò al trasferimento in Valle del Mis e in Val Mesaz. A casera “Ditta” Monteforte incontrò Mario Pasi “Montagna” che gli ordinò di lasciare la montagna per le sue precarie condizioni di salute. A Trento “Monteforte” continuò l’impegno nella Resistenza partecipando alla costituzione del distaccamento “Cesare Battisti”. Il 23 e 24 maggio 1944, guidati da una spia, i tedeschi e gli uomini del Corpo di Sicurezza Trentino catturarono Silvestri, Peruzzo e Bortolotti. Dopo due mesi di continue torture e sevizie, Silvestri venne condannato a morte. “Monteforte” non fornì alcuna informazione ai tedeschi e riuscì a far giungere ai compagni, fuori dal carcere, questo biglietto: “Non preoccupatevi di me. Continuate tranquilli il lavoro. Non parlo”.