La faccia nera del rebus ucraino

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Ultranazionalisti. Antirussi. Antisemiti. Ben finanziati. Organizzati in cellule paramilitari piccole ma efficacissime. Ecco chi sono i duri all’ombra della rivoluzione di Kiev. E perché i «filoeuropei» non possono più fare a meno di loro.

Kiev. L’anima nera della rivoluzione sta proprio dove non te l’aspetti. La grande insegna sulla porta d’ingresso dice “Proviamo ad amarci” ed è illustrata dalla foto di una coppia felice che si bacia appassionatamente in sella a uno scooter. Deve essere quello che i militari chiamano mimetizzazione urbana. E in qualche modo funziona perché davanti a quello che fu il negozio di jeans più trendy di Kiev, tra foto di strabilianti modelle in posa sexy e qualche rimasuglio di bigiotteria calpestata che brilla attraverso le vetrine sulla moquette nera, ci sono tre tipi dall’aria cattiva, il cappuccio nero e i calci delle pistole ben in vista che sporgono da cinturoni stile vecchio west. Tute nere fasciatissime e fresche di stiratura, protezioni da pattinatori nuove di zecca alle ginocchia, avranno al massimo vent’anni. Portano al braccio i nastrini rosso e neri di Pravij Sektor (Settore di Destra), gente dura che combatte da anni, e che in questa rivoluzione ucraina che sta sconvolgendo l’Europa ha avuto un ruolo strisciante, ben mimetizzato appunto. Restando nell’ombra quando la gente comune, le famigliole, i giovani con tanta sincera voglia di Europa, mostravano i loro volti puliti alle telecamere di tutto il mondo. Arrivando invece nei punti giusti, con le loro abili provocazioni, le bottiglie molotov, qualche carabina di precisione, la loro capacità di ingaggiare corpo a corpo con gli agenti speciali della polizia, quando serviva alzare i toni della rivolta, o riaccendere l’entusiasmo dei politici moderati che mostravano i primi segni di logoramento. La maggior parte della folla che riempie da oltre tre mesi la Majdan, non li ama. Fa finta che non esistano. Teme quell’etichetta di «Piazza fascista» che la loro sola presenza impone a tutta la rivolta e che a Mosca, il Cremlino sta sfruttando al massimo per bollare come un colpo di Stato quella che voleva essere una rivoluzione democratica e incruenta.
Ma senza i ragazzi cattivi di Pravij Sektor non ce l’avrebbero mai fatta. Perfino Yiulia Tymoshenko che, appena uscita dal carcere si sta giocando abilmente il ruolo di martire «della dittatura filo russa», piangendo i caduti, carezzando i bambini e invocando un futuro di «libertà e diritti umani», sa bene che non può fare a meno di loro. E con il pragmatico cinismo da ex oligarca ha ordinato ai suoi di concedere spazio a Pravij Sektor «senza dare troppo nell’occhio». Di colpo il gruppo emarginato e violento della Majdan è stato così riabilitato anche moralmente. Associato alle forze del Ministero dell’Interno del futuro governo rivoluzionario di Kiev, incaricato di pattugliare, controllare la piazza come una sorta di milizia popolare con licenza di violenza controllata pur di mantenere l’ordine. E i ragazzi della boutique-bunker sul viale Kreshatik prendono molto sul serio il nuovo ruolo. A modo loro. Sguardo truce attraverso i passamontagna, armi in pugno, cadenzato passo militare, attraversano la città come un piccolo esercito di occupazione, divisi rigidamente in centurie secondo uno schema preso di peso dai manuali di storia e che ricalca grossolanamente la formazione delle legioni romane. Ne hanno fatta di strada da quando erano visti come la peste fascista sia dai filorussi che dagli oppositori pro Europa. L’idea di base è venuta qualche tempo fa a Dmitrij Jarosh, 42 anni, ex ufficiale dell’Armata Rossa sovietica fondatore di Trizub (Tridente), un movimento che si ispira al famigerato Stepan Bandera, fiero collaboratore dei nazisti durante la Seconda guerra mondiale divenuto il simbolo del nazionalismo esasperato ucraino anti comunista, violento e, spesso, antisemita. Reso martire dal suo assassinio, avvenuto nel ‘59 con la evidente complicità di agenti segreti sovietici. Una figura vista con marziale adorazione dai tanti gruppuscoli di estrema destra nati soprattutto a Leopoli e nella Ucraina occidentale dove maggiormente si alimentano gli umori antirussi e separatisti. Quando in novembre è cominciata la protesta di Kiev con una grande manifestazione pacifica dominata da bandiere europee e striscioni inneggianti alla libertà, Jarosh ha messo insieme e federato sotto la sigla Pravij Sektor, tutti i gruppi assimilabili tra loro: i suoi ragazzi di Trizub, quelli del cosiddetto Esercito di liberazione ucraino, i duri similnazisti del Martello Bianco, sbrindellati gruppi minori specializzati nelle violenze da curva nello stadio della Dinamo di Kiev, e soprattutto gli amici di Unà-Unso. Roba seria, gente che si addestra in campi militari nei Carpazi, che vanta la partecipazione attiva con tanto di vittorie e tanti caduti nelle guerre più recenti. In Kosovo al fianco dei serbi pur di combattere le minoranze albanesi; in Georgia, invece, contro i russi. E restando quasi invisibile agli occhi del mondo, Jarosh ha dunque gestito l’ala violenta della Majdan, fronteggiando i non meno fanatici Berkut (aquile reali) gli agenti speciali della polizia ucraina. Ai poliziotti più cattivi di Yanukovich, quelli che abbiamo visto sparare dai tetti sulla folla, hanno offerto le provocazioni necessarie per scatenare l’inferno e allarmare l’Europa. Hanno lanciato sassi con rudimentali catapulte, hanno bruciato camion,
seguito agenti e loro ufficiali fino nei dormitori per pestarli a morte con le spranghe di ferro, catturato con operazioni militari intere squadre di agenti più giovani e meno esperti. E hanno sparato anche loro, evidentemente, se è vero che molti poliziotti sono stati crivellati da colpi di arma da fuoco. Poco importa accertare chi abbia cominciato prima e perché. Di certo il coordinamento di Pravij Sektor ha ottenuto quello che voleva, spingere al limite estremo la rivoluzione, ridicolizzare i tentativi dei cosiddetti leader moderati di stringere accordi con Yanukovich, stipulare una tregua.
Con la complicità e i massicci finanziamenti di tanti oligarchi dell’Ovest del Paese che sognano un’Ucraina in Europa non per tanto per sentimentalismi ideologici quanto per incrementare i loro affari che sono tutti impostati verso la Germania e la Polonia e che avrebbero avuto un grave colpo da un eventuale rientro totale nell’orbita di Mosca. Nel retrobottega del suo quartier generale, Jarosh divide le sue attenzioni tra una cartina topografica di Kiev e la gigantografia di una ragazza strizzata in un bikini di jeans. Si arrabbia e molto quando gli dicono dell’assalto incendiario a una sinagoga di periferia: «Non è il momento di fare stronzate». Convoca due ex ufficiali che indossano con orgoglio un Pakol, il cappello tradizionale afgano, segno delle loro esperienze passate nell’Armata sovietica: «Dobbiamo restare al margine, il meno visibili possibile».
Per condizionare nell’ombra, e con la necessaria durezza, quello che avviene nella Kiev «liberata».

di Nicola Lombardozzi (da “Il Venerdì” del 7 marzo 2014)