«I dolori della tortura non cadono in prescrizione»

Rapotez_OvadiaLuciano Rapotez, nato a Muggia, partigiano comunista, da anni segretario dell’Anpi di Udine, si è spento il 23 febbraio scorso, a quasi 95 anni. Se ne vanno con lui i dolori delle torture che gli vennero inflitte per 106 ore ininterrotte, per fargli confessare un delitto orrendo, un furto conclusosi con un triplice omicidio di una coppia di coniugi e della loro collaboratrice domestica. Di quel crimine, Luciano Rapotez era completamente innocente. Del fatto fu dapprima assolto in assise per insufficienza di prove, quindi rinviato in appello e, da ultimo, prosciolto in cassazione con formula piena, per non avere commesso il fatto. Con lui furono assolti i suoi presunti complici, tutti suoi compagni di lotta nella resistenza antifascista, tutti comunisti.
Di tutto ciò che avvenne, Luciano Rapotez conservava meticolosamente una doviziosa documentazione, ma io la sua storia l’ho conosciuta direttamente dalla sua voce e l’ho ascoltata ripetutamente nel corso di un documentario girato dalla regista Sabrina Benussi, una videomaker di grande vaglia animata da un’insopprimibile passione civile. A quel documentario girato nel 2010, ho partecipato insieme allo storico Marcello Flores e all’allora giudice Gherardo Colombo.
Luciano Rapotez era una persona di carattere gioviale, con un volto ridente. Era un uomo simpatico, diventammo infatti subito grandi amici e da allora, in ciascuna delle ricorrenze che hanno restituito all’Italia libertà e democrazia, dandole una dignità costituzionale dopo la vergogna dell’infame Ventennio nero, ricevevo una sua telefonata di saluto, nella quale mi richiamava alla comune militanza antifascista. Capitava, quando mi trovavo dalle sue parti in Friuli, che alla telefonata facesse seguito un incontro a qualche manifestazione o semplicemente in un caffè per un bicchiere di vino.
Ogni volta, ogni singola volta che l’ho incontrato, Luciano mi ripeteva quella frase: «Sai Moni, i dolori della tortura non cadono in prescrizione…».
La sua non era un’ossessione, non era neppure un lamento — non ne aveva assolutamente il tono — era un’indignazione vibrante per l’ingiustizia subita e, più che per quella subita da lui stesso, per quella intollerabile che permetteva ad esponenti degli organi dello Stato, di praticare quella ripugnante forma di vile e impunita brutalità contro esseri umani inermi, colpevoli o innocenti, anche dopo la proclamazione della Costituzione e a oltre due secoli dalla pubblicazione di Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri.
L’incredibile vicenda di Luciano Rapotez, è già stata raccontata in un libro-denuncia di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi, Il caso Rapotez, ed è stata oggetto di una trasmissione televisiva su Rete 4, condotta dal grande giornalista Guglielmo Zucconi.
Recentemente il calvario di Rapotez, è stato anche riportato alla memoria del lettore italiano sul Corriere della Sera del 4 Giugno 2011 da un appassionato articolo di Gianantonio Stella.
Ricordiamolo brevemente. In una sera di gennaio del 1955, dieci anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, Luciano Rapotez — ex partigiano che si era distinto per azioni di coraggio straordinario come il trasporto di armi ed esplosivi travestito da ufficiale repubblichino su treni pullulanti di soldati nazisti — viene circondato da tre uomini armati di pistola che si dichiarano poliziotti e mentre gli comunicano la grave imputazione, gli suggeriscono di fuggire per sfruttare la cosiddetta ley de fuga che permette di giustiziare un ricercato che tenti di scappare sparandogli alla schiena. Luciano non cade nella trappola. I tre poliziotti, ex fascisti reintegrati nei ranghi e probabilmente ebbri di spirito di vendetta, lo portano in questura e da quel momento inizia il suo inferno. Lo pestano per cinque giorni e quattro notti, lo sottopongono alla privazione del sonno, del cibo, dell’acqua, gli impediscono di espletare le funzioni fisiologiche, gli applicano l’elettricità ai genitali, inscenano perfino un finto suicidio.
Rapotez, nella Trieste di quegli anni, con il suo irredentismo revanscista, era il colpevole perfetto, comunista, ex partigiano, con un cognome slaveggiante: doveva essere colpevole. Ricordando quelle ore terrificanti, Luciano mi diceva: «Avrei confessato anche l’uccisione di Giulio Cesare». Poi, dopo 106 ore implacabili, ininterrotte, la cella e infine il lungo processo di cui ho già fatto cenno, il suo calvario ebbe fine.
Per porre fine a questa via crucis — e Luciano lo ricordava con profonda gratitudine — si era mosso anche Aldo Moro in persona dopo essere stato informato della sua persecuzione. Quando dopo tre anni e mezzo, esce finalmente dal carcere libero e riabilitato, Luciano non trova né la moglie, né i figli ad aspettarlo: la moglie si è rifatta una vita, «i tempi erano durissimi» spiega con partecipe comprensione.
Il sistema giudiziario riconosce le torture e le altre vessazioni che ha subito, ma per queste non viene risarcito e non gli vengono neppure porte delle scuse. Da quel momento, Luciano Rapotez inizia la sua battaglia legale per ottenere giustizia, assistito gratuitamente da avvocati solidali, rivolgendosi, ad ogni cambio di governo, alle più alte cariche dello Stato — dal Guardasigilli, al Presidente della Corte Costituzionale, fino al Presidente — ottenendo solo algide e ipocrite risposte burocratiche: «Quand’anche fosse provata la commissione (della tortura) da parte dei funzionari di polizia, di quegli atti che avrebbero causato i lamentati danni, tali atti non avrebbero potuto imputarsi alla pubblica amministrazione perché non rivolti ai fini istituzionali di uno Stato democratico, sibbene ai fini personali ed egoistici di chi li pose in essere». Agghiacciante.
Disgustato, Luciano emigra in Germania. Ciononostante non smette di condurre, indomito, la sua battaglia che continua anche quando, dopo la pensione, rientra in Italia.
Sta per cedere, ma nel 2001 vede in televisione la cronaca dei fatti del G8 di Genova e gli orrori della macelleria messicana della caserma Bolzaneto: capisce così che la sua lotta contro la tortura non è un fatto superato, ma una battaglia da proseguire nel presente e nel futuro.
In pieno XXI secolo, l’Italia è sprofondata nella sozzura di una dittatura sudamericana come testimonia Amnesty international.
Luciano riprende la sua missione sacrale e, combattendola, muore senza avere avuto l’agognata giustizia, ma trasmettendo un duro monito: «L’Italia è l’unico paese in cui le parole si pervertono oltre ogni limite: si scrive moderazione e si legge ferocia».
Ci lascia parole scolpite nel sangue e nelle lacrime: «I dolori della tortura non cadono in prescrizione». Lo sanno bene, oltre a Rapotez, i ragazzi di Genova 2001, i Giuseppe Uva, i Federico Aldrovandi, gli Stefano Cucchi, i Francesco Mastrogiovanni e tanti, tanti, troppi altri.

Moni Ovadia, Il Manifesto del 26 febbraio 2015

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