Salvatore Settis: Non hanno il diritto di cambiare la Costituzione

“Ho firmato l’appello del Fatto Quotidiano con grande convinzione perché ritengo che la Costituzione sia davvero in pericolo”. Salvatore Settis, studioso di fama internazionale e importante voce critica del nostro tempo, ha parole chiare e dure sulla vicenda.

Professore, che sta succedendo con il disegno di legge di modifica dell’articolo 138?

Sta avvenendo una forzatura. Questo è un governo di necessità e di scopo che doveva fare un certo piccolo numero di cose fra cui al primo posto c’era sempre stata la riforma di quell’orrenda legge elettorale che ci ritroviamo. Ora invece scopriamo che la prima cosa che deve fare è cambiare la Costituzione – e non è cosa secondaria, parliamo della forma dello Stato e di governo – mentre la riforma del porcellum , così chiamato non per caso, viene demandata alla stessa commissione come se fosse un pezzo della Costituzione. Non mi convince per nulla che questa modifica diventi una necessità immediata, addirittura da fare prima della legge elettorale. E l’intervista che ha dato la Gelmini (ieri su Repubblica, ndr) ci dice che siamo sotto scacco di un ricatto: il fatto che riforma costituzionale e quella elettorale stiano insieme dimostra che c’è tutta una manovra della destra per incidere profondamente sulla Costituzione, che Berlusconi definiva sovietica. Spero vivamente che il Pd rinsavisca in tempo.

I Padri costituenti, lungimiranti, pensarono al 138 in maniera articolata: in un suo intervento molto duro su Repubblica lei lo chiama frutto di “calibratissima ingegneria istituzionale”…

La Costituente vera, l’unica che abbiamo avuto nel 1946 e 1947, è tutt’altro rispetto alla Costituente finta, quella che si vuol fare adesso. Le due differenze principali sono che quella vera fu eletta per scrivere la Costituzione, aveva perciò uno scopo. Invece il Parlamento di oggi non è legittimato per esprimere una Costituzione, anche per il modo con cui non è stato eletto ma nominato col porcellum. Al lavoro della Costituente vera poi si affiancò una grande opera di alfabetizzazione costituzionale (c’era un ministero apposito, retto da Nenni sia col governo Pardi che con quello De Gaspari): c’erano trasmissioni quotidiane alla radio in cui si educava e si informava. Si trattava di coinvolgere nel progetto di scrittura della Costituzione più gente possibile. Ora si tratta invece di tenerlo il più nascosto e lontano possibile dall’opinione pubblica, magari promettendo improbabili sondaggi via web che sono tutt’altra cosa.

Qual era nel dopoguerra il livello di quella discussione?

Leggendo gli atti della Costituente – un testo meraviglioso che bisognerebbe antologizzare – si impara una cosa che oggi sembra quasi una favola: i deputati della Costituente studiavano! Andavano a fondo. Su proposta di Giorgio La Pira furono tradotte in italiano tutte le costituzioni del mondo. C’è un libretto prezioso che fu distribuito a tutti i costitutenti: quando affrontavano qualsiasi argomento, che fossero temi culturali o le modifiche costituzionali, avevano uno sguardo mondiale. In questo contesto si discusse se si poteva cambiare o meno la Costituzione.

Ed eccoci all’articolo 138.

Che è la procedura con il quale cambiarla. La Costituzione fu interpretata come rigida, che non è il contrario di flessibile, bensì di segmentata. Vuol dire che tutte le sue parti si tengono insieme. Un articolo non si può cambiare senza cambiare l’architettura dell’insieme. Appunto per questo c’è il 138, proprio per evitare che una maggioranza improvvisata o temporanea potesse modificare un articolo a sua immagine e somiglianza sfigurando l’intera architettura della Costituzione. La Carta può esser cambiata, ma con grande prudenza e largo consenso. Come ha detto il giurista Alessandro Pace, “è modificabile ma non derogabile”.

Nel dibattito di allora il democristiano Benvenuti disse che le modifiche non dovevano esser affrettate perché altrimenti potevano “recare la complicità del presidente della Repubblica”. Cosa voleva dire?

La preoccupazione era che un presidente fosse messo con le spalle al muro, costretto a firmare una modifica. Era una sorta di garanzia della figura suprema del presidente.

Vede analogie con oggi?

Esprimo la speranza che ci siano a Roma i custodi della Costituzione. Compreso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: spero che da una riflessione accurata su quello che sta accadendo possa ricavare la coscienza che la sua persuasione morale (se vogliamo dirlo in italiano e non col pessimo anglismo moral suasion) debba esser esercitata nella direzione di un rigorosissimo rispetto dell’articolo 138. (di Marco Filoni da “Il Fatto” del 30 luglio 2013)

Il costituzionalista Alessandro Pace: Riforma senza senso, la Carta non è merce di scambio

Agli occhi di un cittadino, quel che accade alle Camere può sembrare un ozioso rompicapo da giuristi. Invece quella che sembra una sciarada lontana dai problemi delle persone, potrebbe avere effetti dirompenti sulla vita democratica del Paese. Lo spiega bene Alessandro Pace, professore emerito di Diritto costituzionale alla Sapienza, commentando il disegno di legge 813: “È la sola Costituzione – ovvero la legge fondamentale della Repubblica che è posta al vertice dell’ordinamento – che ha il potere di indicare le vie per la propria modifica. Ne segue che il procedimento di revisione costituzionale, per essere legittimo, deve essere quello prescritto dalla Carta. Se questo potere lo avessero invece le norme di revisione, al vertice dell’ordinamento non ci sarebbe più la Costituzione, ma le norme sulla revisione, il che significa che il Parlamento, come sta accadendo, si porrebbe al di sopra della Costituzione”.

Dicono che è solo una deroga all’articolo 138.

Ma quale deroga! Si ha una deroga solo quando una norma speciale si sostituisce a una norma generale. Ma qual è nella specie la norma speciale e qual è la norma generale? La norma speciale, e cioè il disegno di legge 813, se divenisse legge, modificherebbe il nostro ordinamento. Per contro la norma generale, e cioè l’art. 138, si rivolge solo al Parlamento in ipotesi tutt’altro che frequenti.

Gli emendamenti approvati dal Senato sono peggiorativi o migliorativi ?

Assolutamente peggiorativi, sotto tre punti di vista. Il primo è l’articolo 2, comma 1, in cui è sparita l’espressione “modifiche afferenti alla forma di governo e del bicameralismo”. È bensì vero che almeno i primi due sono concetti vastissimi e forse anche un po’ scivolosi. Tuttavia, bene o male, ci facevano intuire in quale direzione si sarebbero dovute muovere le Camere nel rivedere la Costituzione. Lasciando la sola indicazione dei titoli I, II, III e V il perimetro delle possibili revisioni costituzionali si allarga invece notevolmente: si estende infatti a ben 69 articoli! In secondo luogo, al successivo comma 2, la possibilità di revisione viene addirittura estesa a tutte le disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali strettamente connesse alla revisione dei quattro titoli sopra indicati, il che vuol dire che potrebbe essere coinvolto anche il titolo IV, e cioè la magistratura, per non parlare della Parte prima. Ad esempio mi è giunta voce che tra i cosiddetti saggi gira la voce di riformare anche la disciplina del referendum abrogativo.

Qual è la terza cosa?

L’articolo 2 comma 3 dice che i Presidenti del Senato e della Camera assegnano o riassegnano al Comitato i progetti di legge costituzionale relativi alle materie di cui ai quattro titoli che siano stati “presentati alle Camere a decorrere dall’inizio della XVII legislatura e fino alla data di conclusione dei suoi lavori”. Il che implica un possibile ulteriore allargamento qualora questi progetti di legge – che forse qualcuno dei parlamentari che ha proposto questo emendamento conosce assai bene – coinvolgano la Parte prima e, perché no?, il titolo IV della Parte seconda. Spero che almeno resti fuori il titolo VI, relativo alle Garanzie costituzionali.

E così salterebbero le garanzie.

Appunto. I costituenti misero nel titolo VI della Parte seconda, insieme alla Corte costituzionale, il procedimento di revisione costituzionale proprio perché essa costituisce una garanzia per la Costituzione in quanto dovrebbe adeguarla alle mutate domande provenienti dalla società o dalla politica, mentre così la revisione si risolve in un rischio per la Costituzione.

Vogliono accorciare i tempi del procedimento di revisione, temendo che la legislatura non duri abbastanza.

Sbagliatissimo. Per definizione, i tempi della revisione non possono essere gli stessi del procedimento ordinario. In Assemblea costituente si sottolineò, ad esempio, l’importanza dell’intervallo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione che ora viene dimezzato a 45 giorni.

La scusa è che la materia è complessa, forse la verità è che non si vuole dar fastidio alle larghe intese.

Se davvero si volesse modificare la Costituzione come questa consente, e cioè con singole leggi costituzionali dal contenuto omogeneo e specifico, non ci vorrebbe molto tempo ad approvarle, sempre che vi fosse la volontà politica. Ma se si prevede un procedimento speciale, come questo, con una legge costituzionale madre e quattro leggi costituzionali figlie quanti sono i titoli oggetto di revisione, il tempo si fa ovviamente lungo e quindi il procedimento viene, come dice la relazione, “crono-programmato”, il che contraddice alla natura delle leggi di revisione. Ma c’è un altro inconveniente. L’articolo 4 comma 2 del ddl dispone, giustamente, che “Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico”. Una volta però che siano state tolte le indicazioni di massima “forma di Stato”, “forma di governo” e “bicameralismo” dove va a finire l’omogeneità delle quattro leggi costituzionali figlie, potendo queste potenzialmente modificare 69 articoli?

E le larghe intese?

Ma le larghe intese sono materie di indirizzo politico, non di revisione costituzionale. Non a caso il proponente del ddl è il governo, il cui intervento ha senso per le larghe intese, ma nessun senso per la riforma della Costituzione. Mettere sullo stesso piano revisione della Costituzione e legge elettorale andrà pure nel senso della pacificazione e delle larghe intese, ma è distorsivo sotto il profilo della revisione costituzionale: la sua importanza politica diviene infatti merce di scambio a detrimento della Costituzione. (di Silvia Truzzi da “Il Fatto”)

Appello di Raniero La Valle ai senatori: “Non tradite la Costituzione”

Questa settimana è fissata la discussione del disegno di legge Costituzionale n. 813, recante “Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali”, che giunge in aula, dopo essere stato esaminato con procedura d’urgenza dalla Commissione Affari costituzionali, che, per accelerare i tempi lo ha licenziato in seduta notturna. Tanta fretta non è sintomo di efficienza e non è giustificata dalla materia trattata, che ha per oggetto l’instaurazione di una procedura straordinaria per la revisione costituzionale, in deroga all’art. 138 Cost., allo scopo di agevolare una revisione profonda della Costituzione che investe i titoli I, II, III e V della Parte seconda, ma può estendersi anche alle garanzie giurisdizionali e costituzionali (titolo IV e VI) ed alla prima Parte.
La Costituzione non è una questione che possa essere trattata con somma urgenza come avviene per le leggi finanziarie, le cui correzioni possono essere imposte da situazioni contingenti e di mercato. Le Costituzioni non sono un puro atto di diritto positivo imposto comunque da un legislatore: esse nascono da un processo storico, sono memoria e progetto e, come tali, definiscono l’identità di un popolo, di una comunità politica organizzata in Stato. La nostra Costituzione porta dentro di sé la memoria di 100 anni di storia italiana, nel bene e nel male; contempla le ferite del fascismo, il suo ripudio attraverso la lotta di liberazione e realizza le garanzie perchè il fascismo non venga più riprodotto, attraverso una tecnica di equilibrio dei poteri che impedisce ogni forma di dittatura. La Costituzione italiana è stata forgiata in quel “crogiolo ardente” rappresentato dall’evento globale costituito dalla seconda guerra mondiale e porta l’impronta di uno spirito universale.
Mettere mano alla Costituzione non è mai un’azione banale, vuol dire mettere mano alla storia, interrogarci sulla nostra storia, sulle conquiste di civiltà giuridica faticosamente raggiunte, sui successi, sui fallimenti, sui pericoli che sono all’orizzonte. La Costituzione può essere riformata per adeguarla ai tempi, ma non tollera revisioni radicali che ne snaturino l’impianto. I beni pubblici repubblicani che i Costituenti hanno attribuito al popolo italiano, inerenti la garanzia dei diritti fondamentali e la qualità della democrazia, costituiscono un patrimonio irrecusabile, che non può e non deve essere smantellato. Proprio per tutelare l’indisponibilità di questo patrimonio, la Costituzione ha previsto un procedimento “rigido” di revisione, incardinato nei binari dell’art. 138, con il limite dell’immodificabilità della forma repubblicana e dei principi costituzionali supremi. Fra questi ultimi, come rimarcato da autorevole dottrina, rientra il principio della salvaguarda della rigidità costituzionale, che è il più supremo di tutti. Infatti, se si intaccasse la rigidità della Costituzione, tutti i suoi principi e valori verrebbero esposti agli umori delle contingenti maggioranze politiche e perderebbero di effettività.
Il fatto che per avviare un processo di revisione costituzionale (la cui iniziativa, comunque, non spetterebbe al Governo ma al Parlamento) si pretenda di incidere sulla rigidità della Costituzione, lascia trasparire l’intento (o quantomeno la possibilità) che il processo riformatore esorbiti dai limiti sostanziali che la Carta stessa fissa alla sua revisione; limiti che da molto tempo sono contestati da forze politiche portatrici di culture estranee ai principi e valori costituzionali, le quali, assieme all’antifascismo, contestano la divisione dei poteri ed il principio fondamentale che la Repubblica sia “fondata sul lavoro”.
Per queste ragioni ti chiediamo di votare contro questo disegno di legge, perché integra un vero e proprio illecito costituzionale: siamo infatti convinti che la fedeltà alla Costituzione debba prevalere sulla disciplina di partito e su ogni altra considerazione di opportunità politica e ti preghiamo di rivendicare la procedura normale dell’art. 138 per le pur opportune modifiche costituzionali.

Raniero La Valle e Domenico Gallo

Associazione per la Democrazia Costituzionale
Comitati Dossetti per la Costituzione

(8 luglio 2013)

Ancora falsità su Via Rasella

Lunedì 8 luglio è andato in onda su Rai Tre in prima serata il programma ‘Il viaggio’, con Pippo Baudo. Al suo interno è stato dedicato un servizio al Sacrario delle Fosse Ardeatine nel quale il presentatore Baudo ha intervistato il maggiore dell’Esercito Italiano Francesco Sardone. Purtroppo ancora una volta, parlando di via Rasella, si sono rappresentati i fatti come se si fosse trattato di un attentato terroristico, e non di una “legittima azione di guerra partigiana”, come è stato riconosciuto più volte dalla Corte di Cassazione italiana e da numerosi tribunali. Dispiace che uno dei più noti volti della TV italiana abbia scelto, ponendo le domande, di porre l’accento su presunti fatti poco chiari ancora oggi, quando la verità storica dovrebbe essere oramai riconosciuta e sedimentata. Ma le imprecisioni e i commenti equivoci non finiscono qui. Baudo, parlando di Don Pietro Pappagallo, dice che lui non c’entrava nulla! E’ vero, come innocenti però furono tutte le 335 vittime: non ci furono innocenti più di altri. Inoltre dobbiamo correggere il maggiore Sardone, che ha raccontato che dopo l’8 settembre del ’43 i Gruppi Armati Proletari cominciarono a compiere attentati contro i tedeschi, evidentemente confondendo i G.A.P. , Gruppi di Azione Patriottica responsabili dell’azione di via Rasella, con i Gruppi Armati Proletari, gruppo terroristico degli anni di piombo. Parlando della rappresaglia, le domande di Baudo sembrano legittimare le presunte leggi di guerra, solo in parte spiegate dal maggiore dell’Esercito, continuando a diffondere l’dea sbagliata che si potessero uccidere 10 persone per ogni militare morto. Baudo afferma: ”Dobbiamo dire la verità, sui fatti ancora si discute… gli autori non si sono mai presentati, anzi, sono stati insigniti di medaglia d’oro ed alcuni hanno fatto i deputati”. In realtà l’eccidio fu compiuto dai tedeschi in gran segreto e in tempi rapidissimi (21 ore dopo l’azione), in combutta con la polizia fascista, che consegnò alle SS di Kappler una parte delle vittime. Non fu rivolto alcun appello a consegnarsi agli autori dell’azione di via Rasella nè vi fu alcun preavviso della rappresaglia. Proprio per celare il posto dell’eccidio, i tedeschi fecero esplodere delle bombe all’ingresso delle cave Ardeatine. Ricordiamo quindi a Baudo, nel ’70 anniversario della Resistenza, e a tutti i cittadini italiani che lo hanno ascoltato, che la verità è un’altra ed è stata definitivamente stabilita dai tribunali.

Ufficio Stampa Anpi Roma

Le risposte alle affermazioni false su Via Rasella

Sicilia, 10 luglio 1943: una strage a stelle e striscie

I civili vengono fatti allineare a bordo strada, un sergente imbraccia un mitra e li falcia. Cadono in 37. Ma il fucilatore non è il solito tedesco con il tipico elmetto grigio calcato sugli occhi. E’ un G.I. americano, di quelli che al ritmo dello swing liberavano l’Europa regalando cioccolata, gomme da masticare e Lucky Strike alle popolazioni affamate e sinistrate dai bombardamenti. Quella strage non fu un caso isolato. Anzi. Ma per l’Italia fu un caso dimenticato. Finché il nipote di uno di quei 37 sfortunati «italian sons of bitches» non si è improvvisato storico…
E’ uscito un libro di cui pochi hanno parlato ma che svela una importante pagina della nostra storia recente, ingiustamente dimenticata. Stiamo parlando di «Le stragi dimenticate», dedicato ai massacri compiuti dagli americani subito dopo lo sbarco in Sicilia. Una sorta di «armadio della vergogna» di cui non si sospettava neppure l’esistenza. Lo ha scritto Gianfranco Ciriacono, (che lo ha dovuto pubblicare privatamente e a sue spese). Ciriacono è un appassionato studioso di storia, ma le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere questa ricerca sembrano principalmente influenzate dall’esperienza personale. Infatti suo nonno paterno era nel gruppo di contadini trucidati dagli americani nel luglio del ’43 nei pressi di Piano Stella. Suo padre, allora appena un ragazzino, si salvò solo perché uno dei soldati, un attimo prima di sparare, lo tolse dal gruppo e gli intimò di andar via.

Ciriacono, ricorda la prima volta che sentì parlare nella sua famiglia di questo episodio?

«Sin da bambino, mi chiedevo perché non avessi un nonno con cui giocare come tutti gli altri miei amichetti. Poi, crescendo, ho iniziato le ricerche che mi hanno portato a scoprire gli eccidi americani in Sicilia. Oltre alle motivazioni sentimentali, occorreva recuperare una pagina di memoria ignorata dalla storiografia ufficiale. Era opportuno dare voce a coloro che normalmente non lasciano tracce nella “storia”. Chi vince una guerra acquista – di fatto – anche il diritto a non essere giudicato per come si è comportato durante il conflitto: è la legge del più forte. Ma chi ha perduto, ingiustamente, i propri familiari, ha diritto alla giustizia? Ha diritto alla verità? Nei confronti dei tedeschi, il governo italiano ha rivendicato – e ottenuto – di processare ufficiali della Wehrmacht responsabili di massacri atroci. Io, con il mio libro “Le stragi dimenticate”, ho cercato di dare voce a vittime innocenti di cui non si conosceva neppure l’esistenza».

A un certo punto del libro, lei riporta notizie di violenze e stupri sulla popolazione civile che sarebbero stati perpetrati soprattutto da soldati americani di origine italiana. Quale documento ha letto? Su quali fonti si basa questa informazione?

«A raccontare degli stupri, così come delle violenze perpetrate nei confronti della popolazione civile inerme, sono gli atti della Corte Marziale americana. La struttura giudiziaria militare americana (JAG Branch) con giurisdizione sui reati commessi dai soldati in quell’ambito, ha processato diverse centinaia di soldati. Nella fattispecie, le mie informazioni provengono dagli interrogatori di alcuni membri della 45a Divisione che parteciparono allo sbarco e che raccontano come le peggiori atrocità furono commesse da soldati italo-americani. Altri scritti memorialistici, sempre in mio possesso, raccontano peraltro di molti altri italo-americani che si prodigarono per aiutare i propri conterranei sconfitti».

Il libro si sofferma sulla distribuzione delle terre che il regime fascista aveva attuato in quella parte della Sicilia sud orientale. Suo nonno, contadino bracciante, aveva ottenuto un piccolo podere con altre famiglie che appunto costituivano la nuova comunità “coloniale” di Piano Stella, in provincia di Agrigento. Poveri contadini che effettivamente avevano ricevuto un aiuto concreto da Mussolini. Potrebbe questo spiegare l’accanimento dei soldati americani contro di loro?

«Lo escludo. Nelle giornate immediatamente precedenti lo sbarco, gli abitanti dei borghi colonici avevano cercato di nascondere tutti gli orpelli che potevano ricondurre alle strutture al fascismo. Era gente umile e aveva mostrato sin dall’inizio la propria umanità nei confronti dei soldati americani. Basti pensare che, nelle ore precedenti la strage, mio nonno, assieme ad altri, aveva prestato le prime cure ad un paracadutista americano rimasto ferito ad una gamba. Tutto questo nonostante la presenza di truppe tedesche sul territorio. Purtroppo, la sincera umanità mostrata dai coloni di Piano Stella fu contraccambiata dalla cieca ed immotivata ferocia delle truppe americane».

Oltre alla strage di contadini di cui faceva parte il nonno dell’autore, nel libro si racconta che furono trucidati dagli americani soldati italiani presi prigioneri. Eccone una sintesi. Nei pressi dell’aeroporto di Biscari, il 14 luglio, il capitano John Compton (comandante di una compagnia di fanteria) «ordinò di uccidere i prigionieri», un gruppo di trentasei italiani, «parecchi dei quali indossavano abiti civili». «Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi. Un sottufficiale, il sergente Horac T. West, ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie perché fossero interrogati dal Servizio S-2 del Reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata, dove i componenti furono allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei «sons of bitches», il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporalmaggiore e, freddamente, eliminò gli sventurati italiani».
Lei, per ricostruire gli episodi, é riuscito a risalire ai documenti della Corte Marziale americana. Alla fine, solo West fu giudicato colpevole, scontando comunque solo pochi mesi di prigione per poi tornare a combattere, sempre in Italia. Per quale motivo, secondo lei, la giustizia militare americana, pur avendo subito individuato e processato i colpevoli di quei crimini, non andò fino in fondo?

Lo sbarco in Sicilia, Operazione Husky«Dai documenti in mio possesso si evince un interessamento delle alte sfere militari per non far trapelare nulla agli organi di stampa. Esiste un carteggio tra il generale Patton e il suo vice Bradley in cui il primo cerca di dissuadere Bradley di rendere pubblica la vicenda di Biscari. Tra i documenti si trovano anche lettere del futuro presidente Eisenhower e di membri del Congresso con cui si chiedeva una revisione del processo. Nei due processi celebrati si cercò di salvaguardare gli ufficiali. Infatti l’unico ad essere condannato fu il sergente West».

Nel libro, lei ricostruisce i primi giorni dello sbarco, lo stress dei soldati che prima avevano affrontato una tempesta in mare, il sergente West che non dorme da tre giorni… Secondo una delle testimonianze conservate nei documenti della Corte Marziale, alcuni commilitoni di West lo descrivono come “fuori di testa”. Lui, un soldato della Guardia Nazionale dell’Alabama, con due figli, di colpo si trasforma in un terribile assassino assetato di sangue. Come si spiega?

«Quell’uomo aveva pagato a duro prezzo la crisi del ’29. Era un cuoco affermato, ma aveva perduto il lavoro e sofferto la fame. Così, aveva preferito imbracciare un fucile mitragliatore, più che per liberare l’Europa dal giogo nazifascista, per cercare una rivincita economico-sociale. Questa la mia interpretazione, rafforzata dalla considerazione che, tra gli americani, c’erano parecchi volontari ormai non più giovanissimi, tutti travolti – chi più chi meno – dalla crisi economica del ’29».

Cosa è successo a West e Compton dopo la guerra? Hanno avuto una vita normale, o anche la loro vita è stata segnata da quegli episodi, come poi avverrà a molti reduci dal Vietnam?

«Il Capitano Compton, dai documenti in mio possesso, morì durante lo sbarco di Salerno del settembre 1943. Della vita del sergente West poco si sa. So soltanto che, prima la Procura Militare di Padova, e poi quella di Palermo, competente territorialmente, hanno chiesto all’Interpol di accertare che fine abbiano fatto sette militari che parteciparono alle stragi».

E’ rimasto il mistero dei resti di quei poveri soldati italiani, molti originari della provincia di Brescia, che non furono mai ritrovati. Lei é riuscito a sapere dove sono sepolti? Il governo italiano ha mai cercato questi soldati o rivolto ufficiale richiesta al governo americano? Se non lo ha fatto, secondo lei, perché?

«È mia convinzione, confermata anche da qualche accenno negli atti della Corte Marziale, che i corpi degli sventurati soldati italiani si trovino presso cimiteri militari americani. Di certo, negli archivi storici italiani questi uomini, di cui sono riuscito a ricostruire le generalità, risultano dispersi. Ancora oggi, le famiglie di quei soldati che ebbero la sventura di incrociare le divise delle truppe americane, rimangono in attesa di notizie certe e di un giaciglio dove poter ricordare con un fiore ed una lacrima il parente morto in guerra».

Secondo lei, chi fu il vero colpevole morale di quegli episodi?

«Il mandante morale delle stragi fu certamente il generale Patton. Già prima di partire per l’Algeria, e poi durante le fasi dello sbarco, aveva diramato ordini perentori del tipo: «Voi siete una divisione di killers, non bisogna fraternizzare con le popolazioni locali, non occorre fare prigionieri». E per finire: «Kill, kill, and kill some more» («Uccidere, uccidere e uccidere ancora»). Ordini inequivocabili di un generale, che le truppe eseguirono senza rendersi conto di venirsi a trovare palesemente fuori legge».

Perché ha deciso di scrivere «Le stragi dimenticate»? Per dimostrare che nessuno è immune dai crimini di guerra?

«Che la storia la scrivano i vincitori è fatto arcinoto e ciò può trovare una spiegazione, seppure perversa ed inaccettabile, laddove si tratti di storici appartenenti alla nazione vincitrice, ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli storici di casa nostra, di quelli che per più di 60 anni non hanno ritenuto importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli accadimenti di quei giorni. C’è voluto il mio lavoro per aprire il caso. Ritengo che dopo 64 anni occorra ristabilire la verità storica sugli eccidi di Biscari e Piano Stella: sarebbe, seppur tardivo, un atto di giustizia e il giusto riconoscimento per il tributo di sangue pagato dalla nostra gente».

L’operazione Husky per la principale storiografia rappresenta un grande successo strategico militare, decisivo per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Per lei, al di là del tragico episodio che ha coinvolto la sua famiglia, il primo sbarco alleato in Europa rappresenta soltanto l’inizio della fine dell’Asse o anche un crimine di guerra?

«La liberazione dal nazi-fascismo rappresentò certamente per un nuovo periodo storico che ha riconsegnato al nostro Paese libertà, democrazia, pace e prosperità. Ma le stragi americane, ahimè, non si fermarono solo a Biscari e Piano Stella, continuarono nelle giornate seguenti con la stessa virulenza a Comiso, dove furono uccisi, violando la convenzione di Ginevra, 60 soldati tedeschi e 50 soldati italiani. A Canicattì, poi, furono uccisi 8 civili per mano di un ufficiale americano. Così come a Butera, e via dicendo, fino ad arrivare nelle vicinanze di Palermo. Per lo più si trattò di stragi rimaste nella memoria delle comunità e confermate da diverse testimonianze oculari di soldati italoamericani, per le quali tuttavia manca il supporto documentaristico. Ma non c’è dubbio che quelle stragi vi furono».

L’impressione che resta dopo avere letto la sua ricostruzione, è che la popolazione locale abbia subito voluto dimenticare. E’ cosí? E secondo lei perché?

«L’icona del soldato americano rappresentava la libertà: dolciumi, sigarette e razioni di cibo. L’America aveva mandato la crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. Grazie alla martellante e danarosa propaganda che ha bombardato il mondo per sessant’anni, l’opinione pubblica ha, in linea di massima, recepito e fatto propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare, tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il vero comportamento degli arcangeli della libertà e della democrazia. Questo è certamente uno dei motivi per cui la popolazione locale ha faticato a creare una memoria comune. L’altro dato è che i 73 soldati, per lo più bresciani, non avevano alcun rapporto di parentela con gli abitanti del territorio. Pertanto la loro scomparsa non è fu notata da nessuno».

Il suo libro è ricavato dalla sua tesi di laurea presentata all’Universitá di Catania, pubblicata poi da un editore locale. Aveva provato a proporre la sua ricerca ad un editore nazionale?

«Proprio in questi giorni ho concluso un contratto con un buon editore nazionale. Le posso dire in tutta sincerità che non è stato facile. Ancora oggi, in Italia, è arduo parlare di verità scomode. Basti pensare che le istituzioni repubblicane non hanno ancora riconosciuto tali eccidi, nonostante gli atti della Corte Marziale americana che ha dichiarato colpevoli i soldati a stelle e strisce».

Luciano Garibaldi da www.storiainrete.com

http://www.nonsolobush.it/page9.php

Illeggittima l’esclusione della Fiom-Cgil dalla trattativa Fiat

Maurizio Landini: “La Costituzione rientra in fabbrica. E’ una vittoria di tutti i lavoratori. Non ci sono più alibi: il Governo convochi immediatamente un tavolo con la Fiat e tutte le organizzazioni sindacali per garantire l’occupazione e un futuro industriale. E’ ora che il Parlamento approvi una legge sulla rappresentanza.”

Questa la nota del collegio difensivo della Fiom-Cgil che commenta la sentenza della Corte Costituzionale che ha dichiarato illegittima l’esclusione della Fiom-Cgil operata dalla Direzione aziendale negli stabilimenti Fiat:

La Corte Costituzionale, nella sua nota fa sapere di aver ” dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, 1 c. lett. b) della legge 20 maggio 1970, n. 300 (cosiddetto ‘Statuto dei lavoratori’) nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale sia costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”.
È stata così neutralizzata la strategia della FIAT che aveva disconosciuto tutti gli accordi collettivi, compreso quello che istituiva le RSU, contando in una interpretazione dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori che le consentisse di tenere la FIOM fuori dalle proprie aziende, unicamente perché il testo della norma prevedeva il requisito dell’essere firmatari della contrattazione collettiva applicata in azienda.
La FIOM aveva promosso una serie di procedimenti per condotta antisindacale, mentre alcuni Giudici avevano proposto la lettura “costituzionalmente orientata”, oggi accolta dalla Corte e altri avevano invece respinto i ricorsi, i Tribunali di Modena, Vercelli e Torino avevano rimesso la questione alla Corte Costituzionale che è stata discussa nella giornata di ieri, 2 luglio, e decisa nei termini di cui alla nota della Consulta.
Il collegio difensivo della FIOM-CGIL esprime la sua piena soddisfazione per l’intervento dei Giudici delle leggi che ha ripristinato un principio di democrazia nei luoghi di lavoro che tiene conto della effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali, senza condizionare l’agibilità sindacale alla firma del contratto collettivo applicato, in armonia con lo spirito del recente accordo interconfederale del 31 maggio 2013.
Prof. Avv. Piergiovanni Alleva Prof. Avv. Vittorio Angiolini Prof. Avv. Franco Focareta Prof. Avv. Antonio Di Stasi Avv. Alberto Piccinini Avv. Elena Poli Avv. Emilia Recchi Avv. Pier Luigi Panici Avv. Enzo Martino Avv. Lello Ferrara Avv. Amos Andreonil

 

 

Mercanti di armi: l’industria italiana fa affari con la guerra in Siria

Energia, armamenti e telecomunicazioni. Nonostante il conflitto in atto e le misure di embargo, il business italiano in Siria esiste. È composto in buona parte da aziende di Stato come Eni e Finmeccanica. Più qualche nome minore che offre apparati di intelligence come Area spa. Le piccole e medie imprese del Made in Italy (dalla moda all’artigianato) che prima del 2011 esistevano in Siria, sono state spazzate via dalla guerra perché di mercato per loro non ce n’è più. Scavare negli affari siriani non è cosa facile: l’Eni, per esempio, non li cita in bilancio. Ma poi il gruppo guidato da Paolo Scaroni, recentemente indagato per la vicenda delle tangenti algerine della controllata Saipem, non può fare a meno di fornire dettagli alla Securities Exchange Commission, l’autorità di vigilanza dei mercati statunitensi.
Nel documento, depositato lo scorso aprile, il cane a sei zampe spiega ciò che in Italia non si dice: “Le nostre operazioni in Siria sono principalmente state limitate a transazioni realizzate nel segmento di raffinazione e marketing con la Syrian Petrol Co., società controllata dal governo siriano per l’acquisto di petrolio grezzo”. Il gruppo precisa poi che nel 2010 e nel 2011 è stato acquistato greggio per un totale di 338 milioni di dollari e ammette poi di aver “acquistato piccoli ammontare di greggio da trader internazionali, che sulla base della documentazione di trasporto fornitaci, ci lascia pensare si riforniscano da compagnie siriane”. Trasporto che per lo più avviene via mare attraverso grandi gruppi leader mondiali del settore come l’olandese Maersk o il gruppo svizzero-partenopeo Msc shipping della famiglia Aponte.
Nomi noti nel panorama internazionale del business delle aree più a rischio come Africa e Medio Oriente. Come del resto lo è quello di Finmeccanica, che, secondo quanto rivelato da file segreti di Wiki-Leaks nel gennaio 2012, ha fornito, attraverso la controllata Selex Elsag, il sistema di comunicazioni Tetra al regime del presidente Bashar Al-Assad impegnato nella repressione. Per il gruppo di viale Monte-grappa l’apparato, venduto nel 2008 “era destinato all’impiego da parte di organizzazioni per le emergenze ed il soccorso” e così “qualsiasi altro utilizzo che ne sia stato fatto è fuori dal controllo della società”. Non la pensano così però alla Procura di Firenze che il 6 marzo scorso ha notificato alla sede fiorentina della Selex Elsag un provvedimento per la richiesta di consegna del server contenente uno specifico software da cui si è appreso “che risultano indagati l’ex presidente, cessato dalla carica in data 31 dicembre 2012, l’ex amministratore delegato dell’allora Selex Elsag, cessato dalla carica in data 30 settembre 2012, e due dipendenti della società” nell’ambito di un procedimento penale per “l’attività svolta dalla suddetta società in Siria con riferimento alla realizzazione della rete di comunicazione tecnologica Tetra”.
Un brutto affare, insomma, come quello legato all’attività della società di Varese, Area spa, che vendeva alla Syrian Telecommunication Establishment prodotti come lo storage del gruppo californiano NetApp per archiviare grandi quantità di email, i software della società francese Qosmos e i dispositivi della tedesca Ultimaco Safeware. Secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, con una partita dal valore di 13 milioni di euro per la sola Area (di cui solo 7,7 poi realmente incassati), i rifornimenti servivano al regime siriano a monitorare tutto il traffico Internet del Paese con controllo puntuale della popolazione. Area ha in più occasioni dichiarato che i contratti siriani avevano data antecedente il blocco commerciale. Ma non si può trascurare che NetApp sia nel mirino delle autorità statunitensi per aver aggirato l’embargo stabilito negli Usa nel 2004 e la francese Qosmos è accusata dai magistrati francesi “di complicità in atti di tortura”.
Sarà difficile anche per i giudici delineare i contorni degli affari siriani che spesso transitano attraverso i confini di Paesi vicini che sostengono, a seconda delle opportunità, il regime o i ribelli. Ma non si può far finta di non vedere che gli affari italiani degli armamenti in Medio Oriente registrino un miglioramento: se si guarda al rapporto del-l’ex presidente del Consiglio, Mario Monti, su “lineamenti di politica del governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” relativo al 2011, di 2,6 miliardi di esportazioni di armi autorizzate dall’Italia, il 15,67 per cento è partito alla volta dell’Africa settentrionale e nel Vicino e Medio Oriente con un fatturato complessivo da 417 milioni di euro (contro 1,23 miliardi in Europa e 537 milioni in Asia). (di Costanza Iotti da “Il Fatto”)

Vicenza: la nuova caserma intitolata a un partigiano

Oggi, 2 luglio 2013 la nuova caserma di Vicenza che sarà una sede del comando americano Africom che sovraintende alle operazioni in Africa, è stata inaugurata ed è stata intitolata a Renato Del Din, partigiano bellunese al comando della 1ª banda di montagna del Gruppo Divisioni d’assalto Osoppo-Friuli,  medaglia d’oro al valor militare, morto il 26 aprile 1944 durante un assalto a un distaccamento di repubblichini a Tolmezzo (Udine). Questa è stata l’ultima decisione presa dal ministro della Difesa  Ignazio La Russa due giorni prima delle dimissioni del governo Berlusconi. Cinzia Bottene, consigliere comunale in prima fila nella protesta contro la base americana: «È l’ennesima presa in giro. Molti partigiani hanno lottato contro la base continuando a credere nei valori in cui credevano quando lottavano contro il nazifascismo. Il nome storico di quell’area è Dal Molin, il resto è solo propaganda» aggiungendo che «il 25 aprile la Liberazione sarà festeggiata al Parco della pace, a pochi metri dalla futura base, per ricordare che quella è un’usurpazione».
La scelta di La Russa esplode come una bomba a scoppio ritardato. Per la città medaglia d’oro per la Resistenza suona come una beffa a pochi giorni dal 25 aprile: Vicenza già ospita tremila soldati Usa, dal 2013 ne accoglierà altri duemila che dalla Germania si trasferiranno al Dal Molin, ed è sede di Africom, che sovrintende alle operazioni nel continente nero, alle dirette dipendenze del Pentagono. I primi a rivoltarsi comunque sono gli stessi partigiani. La voce grintosa di Renzo Ghiotto, uno dei «Piccoli maestri» protagonisti del romanzo capolavoro di Luigi Meneghello, è indignata: «È un’offesa, un ulteriore oltraggio alla città – spiega – Tutti i partigiani d’Italia sono contro questo tipo di violenze. Se credono di comprarci mettendo quel nome, si sbagliano. Vogliono come sempre smussare gli angoli facendo finta di celebrare un eroe della Resistenza, ma sono finte miserabili, da repubblichini. Raccoglieremo delle firme, faremo di tutto per impedirlo». Per Mario Faggion, segretario provinciale dell’Anpi, è «una scelta impropria. L’intitolazione suona strana: quasi parlassimo di una base che serve alla difesa del nostro paese, quel paese che Dal Din stava difendendo quando morì in modo eroico. La base, per come è stata concepita, realizzata e concessa, serve soprattutto agli Stati Uniti». Questo il comunicato ufficiale dell’Anpi di Vicenza approvato all’unanimità il 21 aprile:

Il Comitato Provinciale dell’A.N.P.I. di Vicenza, riunito il 21 aprile 2012, appresa la notizia che l’ex Ministro della Difesa La Russa, con uno dei suoi ultimi atti, ha stabilito che la caserma americana sorta nell’ex aeroporto Dal Molin sia intitolata al partigiano bellunese Renato Del Din, caduto a Tolmezzo nella notte tra il 24 e 25 aprile 1944, Medaglia d’Oro, esprime grandi perplessità e vivo disappunto nei riguardi di tale scelta per i seguenti motivi:

1. Perché il nome di un partigiano, medaglia d’oro, caduto battendosi per la libertà e l’indipendenza dallo straniero, non dovrebbe essere associato ad alcuna caserma straniera in Italia, anche se di uno Stato amico.

2. Perché il nome di un partigiano che ha dato la sua vita per i principi e i valori contenuti nella Costituzione non dovrebbe essere usato per una istallazione militare che, come abbiamo sempre sostenuto, è sorta in contrasto con la Costituzione stessa, in particolare con l’articolo 11. Esso, infatti, testualmente stabilisce che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: promuove e favorisce organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». In questo caso siamo in presenza di una cessione di sovranità non a “organizzazioni internazionali” e nemmeno per scopi di pace e di giustizia fra le  Nazioni. La nuova base non è infatti né ONU né NATO, ma è utilizzata esclusivamente per scopi e interessi propri ed inconfutabili di un solo Stato estero, rispetto al quale non si è nemmeno agito in condizioni di parità.

3. Perché in questo caso la scelta operata presenta, a nostro avviso, anche risvolti strumentali e provocatori. Infatti, fermo restando la nostra contrarietà alla intitolazione della base ad un partigiano, rileviamo che la storia di Renato Del Din, fulgida ed esemplare, non ha però mai avuto come riferimento il territorio vicentino, nel quale invece numerosi sono stati i partigiani caduti valorosamente e ugualmente decorati di Medaglia d’Oro.

4. Perché la scelta di questa intitolazione è ispirata a criteri di dubbia democrazia, in quanto operata senza consultare nessuna organizzazione o istituzione del territorio interessato.

Pertanto chiede al Coordinamento Regionale Veneto e al Comitato Nazionale dell’ANPI di farsi interpreti presso il Ministro della Difesa Di Paola affinché, tenendo conto di quanto sopra, addivenga ad un ripensamento sulla decisione del predecessore, presa ancora una volta con modalità impositive nei riguardi della comunità vicentina e senza tener conto delle sue specificità storiche, sociali e politiche.
Mario Faggion, Presidente dell’Anpi di Vicenza

Altro che Repubblica, è un Paese privato. Intervista a Gino Strada

Ascoltare Gino Strada, fondatore con la moglie Teresa Sarti di Emergency presieduta dalla figlia Cecilia, è come immergersi in un mondo smarrito in cui le parole riacquistano la loro umanità. Con quell’aria apparentemente stanca, quasi assente, scapigliato, quando parla cattura l’attenzione perchè il suo dire è passione e pratica di vita. Apostrofato dai giornali berlusconiani come “visionario, venditore di fumo, comunista”. È Amato da migliaia di volontarie e volontari e da quella sinistra in cerca di casa. E indicato dal popolo web di Grillo come candidato per il Quirinale. Strada è a Livorno per il XII Incontro di Emergency: “Diritti o Privilegi”.

Punto di domanda volutamente assente nel titolo?

Ovvio. Non dovremmo più chiamarci Repubblica italiana ma Paese privato. La messa in dubbio della sostenibilità della sanità, dell’acqua, della scuola pubblica. Ormai è al di fuori della politica. La Costituzione sta diventando la più grottesca del mondo, non siamo più una Repubblica fondata sul lavoro, ma sui licenziamenti.

Deluso da Grillo?

Il M5S è stato e resta un segnale forte per i “signori della politica”. Il problema non è M5S, ma questa nuova formazione bulgara che ci governa: la messa in pratica o meglio la conclusione di un processo che dura da decenni. Destra, sinistra, al di là del codice stradale vuol dire guerra o pace, pubblico o privato e tante altre cose. Quando una parola come la sinistra viene stuprata meglio cambiar parola.

Ne ha una nuova?

No, serve a poco. Non sono ottimista sul fatto che le cose cambieranno. Il che non significa che bisogna smettere di parlare di certi valori, di promuoverli, di fare delle cose giuste che cambiano la vita delle persone. Più delle coglionate dei politici. Se siamo in tanti ci troveremo in una società migliore. In questo sono ottimista.

Pentito di non aver accettato la candidatura al Colle proposta dal popolo di Grillo?

Era una proposta-provocazione, il Presidente lo eleggono i grandi elettori e siccome lì dentro ci sono condannati, papponi, pedofili…

Però il ministro della Sanità lo avrebbe fatto…

Intanto è il premier che forma il governo ma se uno qualsiasi, non importa chi, me lo chiedesse seriamente risponderei: il mio programma è questo: fuori il profitto dalla sanità, nessun soldo pubblico deve più finire nelle tasche del privato, via le convenzioni.

Emergency dal 2006 opera anche in Italia. Chi l’avrebbe mai detto?

Stiamo mettendo in piedi ambulatori mobili. Strutture di alta qualità e gratuite come da diritto costituzionale per chi, e sono tanti, non può più permettersi di essere curato. Stiamo costruendo una sanità non profit contro quella profit. Sanità che è stata rovinata con l’introduzione del concetto di azienda che risponde alla domanda: quanto bisogna spendere? Quanto serve, non un euro in più. Qualcuno ci dice che noi spendiamo 35 miliardi meno della Germania e della Francia ottenendo risultati migliori e che abbiamo tecnologie superiori ad altri Paesi ma non le usiamo? Però ci dicono che il sistema è in crisi. E il cittadino paga un ticket superiore a quello che pagherebbe in una struttura privata. Mi chiedo dov’è l’aggettivo pubblico? Cosa vuol dire ticket? Da quando in qua bisogna pagare i propri diritti? Il sistema resiste grazie alla volontà di tanti medici e infermieri che operano contro le politiche sanitarie.

Teoria ineccepibile. In pratica?

Basterebbe non firmare piu nessuna convenzione, riesaminare quelle esistenti e tagliare quelle senza senso ma non c’è la volontà politica perchè la casta ha profondi intrecci con la cricca del settore della sanità. Perché gli ospedali comperano lo stesso prodotto di Emergency e lo pagano 3,5,10 volte di più? Perchè nel gonfiare i prezzi c’è spazio per le mazzette. Secondo l’Oms il maggior determinante della salute è la giustizia sociale. La sanità non riguarda solo ospedali e ambulatori, ha a che fare con la difesa dell’ambiente. E vogliamo parlare delle malattie costruite a tavolino?

Parliamone.

Veicolazione della malattia vuol dire assicurarsi che vengano consumati sempre più farmaci da persone sane convinte di essere malate per fare soldi. Dicono che se hai la glicemia alta hai il diabete. Se il livello di normalità della glicemia prima era 125, la abbassano a 110. Uguale per il colesterolo, l’ipertensione… Parte una nuova campagna e si vendono i farmaci. Porcherie con il coinvolgimento dei medici.

Torniamo alla politica lei è molto critico però non vota da 35 anni.

Non voterò mai chi non mi garantisce che non mi porti in guerra, non ho bisogno dell’art 11 della Costituzione mi basta la mia coscienza civile. So che fino a che ci sarà questa casta politica non sarà possibile costruire un sistema etico, un sentire comune con regole certe. Invece di una società stiamo costruendo una grande giungla. Nello statuto dei diritti umani si dice che gli uomini debbono comportarsi in spirito di fratellanza, se siamo insieme il rispetto per gli altri è il rispetto per noi. (intervista di Sandra Amurri da “Il Fatto”)

Un bavaglio per i blog (anche per questo sito)

Dire che ci fischiano le orecchie è poco. I Monti boys tornano alla carica con una proposta di legge contro i giornali online e i blog. Per ridurli al silenzio o strangolarli economicamente in caso di “diffamazione”.
Alla Camera torna alla carica la cosiddetta “legge ammazza-blog”. La norma, che ha come obiettivo quello di rivedere le sanzioni per diffamazione, è contenuta in una proposta di legge depositata da Scelta civica, il partito dell’ex premier Mario Monti. Il testo, porta come prima firma quella di Stefano Dambruoso. L’on. Dambruoso, è in magistratura dal 1990. E’ stato sostituto procuratore ad Agrigento, applicato alla procura distrettuale di Palermo, ha indagato su associazioni mafiose e reati contro la Pubblica Amministrazione ed è stato Pubblico Ministero in vari maxiprocessi a Palermo. Alla Procura della Repubblica del tribunale di Milano, si è occupato di terrorismo, cominciando a collaborare anche con altre autorità giudiziarie europee. Componente della Direzione distrettuale antimafia di Milano, dopo l’11 settembre 2001 con la Law Enforcement americana ha perfezionato nuovi strumenti investigativi, finalizzati a prevenire e combattere il crimine organizzato e il terrorismo.
La proposta di legge è stata depositata il 6 giugno scorso ed è stata assegnata alla Commissione Giustizia dove già è stato avviato l’iter sulla riforma della diffamazione a mezzo stampa. Una proposta di legge simile, promotore l’attuale ministro D’Alia, era stata avanzata anche nel 2011 durante il governo Berlusconi.
La proposta di legge è stata sottoscritta da altri 13 deputati centristi tra cui Andrea Romano Mario Marazziti, ed estende l’obbligo di rettifica, su richiesta di chi si ritiene offeso, anche alle testate telematiche (quindi è il nostro caso). Il comma, che contiene la norma, reca modifiche all’articolo 8 della legge del ’48 e recita cosi’: “per i siti informatici, ivi compresi i blog, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate entro quarantotto ore dalla richiesta, in testa alla pagina, prima del corpo dell’articolo, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono”. Per chi non rispetterà l’obbligo di pubblicazione della rettifica scatterà una multa da un minimo di “euro 8.000” a un massimo di “euro 16.000”.
L’obbligo di rettifica viene esteso anche alla stampa non periodica, includendo quindi anche i saggi e i libri: la pubblicazione dovrà avvenire entro sette giorni dalla richiesta su due quotidiani a tiratura nazionale e nelle successive edizioni e ristampe con chiaro riferimento allo scritto ‘incriminato’. La proposta di legge Dambruoso, anche per le testate tradizionali, prevede che la rettifica venga pubblicata “senza commento”. Il testo cancella la pena del carcere in caso di diffamazione a mezzo stampa per un fatto determinato prevedendo solo la multa da “euro 5.000 a euro 50.000”.
L’on Dambruoso nega che lo scopo della sua proposta sia quello di “ammazzare” i blog. “La valorizzazione del momento della rettifica coglie da un lato l’esigenza di salvaguardare le persone che hanno un interesse alla correzione di dati inesatti, quando non addirittura diffamatori, e dall’altro introduce un correttivo che avrà ricadute significative nella determinazione del danno, il quale, dopo la pubblicazione della rettifica non potrà che risultare ridotto e in alcuni casi persino esaustiva”, spiega il deputato di Scelta Civica. “E’ dunque errato – aggiunge – denominare la proposta che introduce per blog e libri l’obbligo della rettifica come uno strumento ‘ammazza blog'”. E’ curioso però che il sistema sanzionatorio indugi piuttosto sul dato economico che su quello penale. Apparentemente sembra una cosa positiva, nella realtà sancisce la strada adottata in questi anni dai poteri forti e dalle “personalità” nel tentativo di zittire chi parla di loro in modo non lusinghiero. Molto spesso i processi per diffamazione a mezzo stampa non trovano soddisfazione in sede penale ma la trovano in sede di tribunale civile con provvedimenti sanzionatori economici che la maggior parte dei giornalisti e delle piccole testate non sono in grado di sopportare. (http://www.contropiano.org)