L’incendio di Odessa e la stampa italiana

imagesVediamo i lenzuoli sui corpi di decine di persone, nelle videoriprese di Odessa, in Ucraina. Lì è in atto un pogrom antirusso in pieno XXI secolo, con lancio di molotov, granate artigianali, assedi, bastonature. Squadre nazistoidi di Pravy Sektor (“Settore Destro”), protette e inquadrate anche nel resto del Paese da una giunta insediatasi dopo aver allontanato con la violenza un presidente eletto regolarmente, stanno devastando i luoghi di aggregazione sociale e politica – ossia i partiti, le associazioni, i sindacati – di una parte della popolazione di Odessa (maggioritaria) identificabile come russa, russofona o filorussa. La polizia della città sul Mar Nero ha lasciato fare per ore.
Ma le vergognose testate italiane fanno a gara per sopire e troncare la reale portata della notizia.
Distinguere fra un generico incidente e una strage politica: il confine per capire quali tempi di fuoco si avvicinano passa da qui, dai 38 morti del 2 maggio di Odessa (per tacere degli altri episodi da guerra civile nel resto di un paese in bancarotta).
In materia di guerra la stampa italiana, specie sul web, ci ha già abituati al peggio negli ultimi anni. Con il dramma dell’Ucraina si è già subito portata ai suoi peggiori livelli, già raggiunti nel disinformare i lettori sulla guerra in Libia e poi in Siria. Le pagine web italiote ci farebbero davvero ridere, se non parlassimo di una tragedia: i 38 filo-russi bruciati in una sede sindacale dai nazionalisti ucraini di estrema destra sono diventati delle generiche “38 vittime in un incendio”. «Quasi si trattasse di un incidente e non di un massacro politico», commenta Daniele Scalea, direttore dell’IsAG, un istituto di studi geopolitici molto attento alle vicende dell’Europa orientale. Scalea e anche noi ci domandiamo cosa avrebbero scritto nel 2011 il Corriere della Sera, o la Repubblica, o Il Fatto Quotidiano, se dei miliziani di Gheddafi avessero assediato decine di manifestanti fino a farli bruciare vivi.
Ecco come il canale televisivo russo RT riferisce i fatti:
«Almeno 38 attivisti antigovernativi sono morti nell’incendio della Camera del Lavoro di Odessa a seguito del soffocamento per il fumo o dopo essere saltati dalle finestre dell’edificio in fiamme, ha riferito il ministro dell’Interno ucraino. L’edificio è stato dato alle fiamme dai gruppi radicali pro-Kiev.»
Così invece li racconta il Corriere della Sera:
«Trentotto persone sono morte in un incendio scoppiato nella città ucraina di Odessa e legato ai disordini tra manifestanti filo russi e sostenitori del governo di Kiev.»
Così, genericamente, un incendio “legato ai disordini”…
Ancora, il pezzo su Repubblica suona così:
«È di almeno 38 morti anche il bilancio delle vittime degli scontri tra separatisti e lealisti a Odessa, città portuale ucraina sul Mar Nero. “Uno di loro è stato colpito da un proiettile”, ha riferito una fonte all’agenzia Interfax, “mentre per quel che riguarda gli altri non si conosce la causa della loro morte”. La sede dei sindacati è stata data alle fiamme. Le persone sono morte nell’incendio. Gli scontri sono violentissimi.» La macabra contabilità si disperde in un groviglio in cui non si capisce chi fa che cosa, quanti muoiono in un episodio o in un altro, chi appicca gl’incendi.
L’Unità riesce a fare peggio di tutti. La salma del giornale di Gramsci scrive infatti che la sede del sindacato è stata bruciata dai separatisti filo-russi (uno scoop malauguratamente ignorato in tutto il resto del mondo). A ulteriore dimostrazione che all’Unità non sanno quel che dicono, aggiungono che sono stati «abbattuti due elicotteri filorussi, Mosca furiosa», come se la rivolta avesse una sua aviazione all’opera.
Naturalmente la notizia era inversa: due elicotteri d’assalto Mi-24 delle forze speciali di Kiev (che stanno combattendo assieme a contractors stranieri e milizie naziste), sono stati abbattuti dalle forze ribelli. Notizia molto preoccupante, se vista nelle sue implicazioni, possibilmente quelle esatte, della possibile escalation del conflitto.Se puntiamo di nuovo l’attenzione al rogo di Odessa, la conclusione è dunque chiara: gli organi di informazione nostrani sono reticenti, quando non falsificano, perché non riferiscono che le vittime sono state tutte di una parte, né che la causa immediata della loro morte sia stato un incendio doloso appiccato dalla milizia del partito nazista Pravy Sektor presso la sede di un sindacato.
Questo accade nell’Odessa del 2014 e non nella Ferrara del 1921 né nella Stoccarda del 1932. A quel tempo c’erano ancora organi di informazione che raccontavano la portata reale della catastrofe, prima di esserne travolti.
Non sappiamo ancora se il veleno della catastrofe politica di questo secolo potrà essere evitato, data la risolutezza degli apparati atlantisti nel precipitare nel caos l’Ucraina, paese chiave della sicurezza comune europea.
L’unico antidoto esistente può funzionare solo se diventa un fenomeno politico e mediatico di massa: l’antidoto è informarsi e informare, fuori dalla ragnatela mediatica dominante, far sapere tutto su chi vuole estendere il grande incendio, ben oltre i palazzi di Odessa.  (di Pino Cabras da http://megachip.globalist.it)

L'incendio_dell'Hotel_BalkanIl 13 luglio 1920 il Narodni Dom (in sloveno, Casa del popolo) di Trieste, che era la sede delle organizzazioni degli sloveni triestini, oltre ad ospitare una banca, la tipografia dei principali giornali sloveni, un caffè e un albergo, veniva bruciato dai fascisti, in quello che Renzo De Felice definì “il vero battesimo dello squadrismo organizzato”. Dal 1919 gli italiani iniziarono una politica di “italianizzazione” delle nuove province conquistate alla fine della prima guerra mondiale, ma l’incendio del Narodni Dom fu l’inizio di decine e decine di azioni squadristiche che volevano distruggere anche fisicamente ogni traccia slovena dai nuovi territori. Un pogrom in piena regola. Una forte e inquietante analogia con i fatti di Odessa.

Schio, 1943-1945. Storia di dodici «elementi pericolosi»

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Questa è l’intervista di Alessandro Pagano Dritto a Ugo De Grandis autore del libro “Elemento pericoloso – Inquisizione e deportazione politica nella Schio di Salò” (Da http://www.vicenzapiu.com).

L’ultimo libro di Ugo De Grandis, Elemento pericoloso. Inquisizione e deportazione politica nella Schio di Salò (1943-1945). L’odissea dei partigiani del Btg. Territoriale «F.lli Bandiera» di Schio deportati a Mauthausen – Gusen (Centrostampaschio, Schio, 2014, 15 euro) racconta delle vicende che portarono all’arresto e alla deportazione in Germania di dodici antifascisti scledensi alla fine del 1944: di questi – Giovanni Bortoloso, Andrea Bozzo, Roberto Calearo, Italo Galvan, William Pierdicchi, Pierfranco Pozzer, Anselmo Thiella, Vittorio Tradigo, Andrea Zanon, Bruno Zordan – solo uno, William Pierdicchi, farà ritorno nel giugno 1945. VicenzaPiù ne ha parlato con l’autore.
In apertura di Elemento pericoloso il lettore trova due citazioni: una da una lettera di Ernesto «Che» Guevara, l’altra da Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Quest’ultima recita: «Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: […]. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo […]. Non ha importanza quello che si fa, diceva mio nonno, purché si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che abbia poi la nostra impronta».

Come mai proprio questa citazione in questo libro?

La risposta più banale è che ho letto Fahrenheit 451 mentre stavo leggendo questo libro. Devo confessare che anni fa ero un lettore vorace; più poi ho scritto di storia e meno ho trovato tempo per leggere libri che non fossero saggi storici. Questa frase mi ha colpito perché mi sembra rappresenti l’essenza di scrivere libri, soprattutto libri di storia, di voler lasciare un segno, una traccia della propria attività. Ogni libro che io scrivo è destinato a lasciare un segno e questo, nello specifico, è anche un libro che rompe con una visione distorta dell’episodio di giustizia sommaria avvenuto alle carceri di Schio nel luglio 1945.

Il libro si regge su un apparato di note che citano denunce presentate dopo la Liberazione, prima e dopo l’eccidio di Schio.
Come si è posto lei, da storico, nei confronti di questa documentazione? Non c’era il rischio che qualcuno, a liberazione avvenuta, calcasse la mano nel presentarle?

Vorrei prima di tutto specificare, visto che nominiamo l’eccidio di Schio, che questo non è e non va considerato un libro sull’eccidio di Schio. Lo dico perché mi capita di incontrare persone che mi chiedono se ho scritto un nuovo libro sull’eccidio di Schio: no. Certo, la vicenda principale che racconto – quella dei dodici antifascisti scledensi inviati in Germania – ha avuto dei riflessi sull’eccidio delle carceri e il libro stesso è nato dall’acquisizione dei fascicoli a carico dei fascisti detenuti al loro interno; fascicoli istruiti dai Reali Carabinieri ricostituitisi dopo il giorno della locale liberazione, il 29 aprile 1945. I Carabinieri condussero le indagini sulla base di segnalazioni di privati cittadini, del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) o dei partigiani e inoltrarono poi i verbali redatti alla Commissione di epurazione. Il rischio che qualcuno calcasse la mano nel denunciare ovviamente c’era; ma si tratta comunque di denunce autografe, che hanno condotto un ufficiale di polizia giudiziaria ad aprire un fascicolo e che quindi hanno un preciso valore. Questi fascicoli sono stati conservati nella sede del Tribunale di Vicenza, alla sezione «Corte d’Assise Straordinaria 1945-1946»: quella Corte che poi cessò di funzionare col famoso decreto Togliatti. Leggi tutto “Schio, 1943-1945. Storia di dodici «elementi pericolosi»”

La liberazione di Mirano

29 aprile 1945: partigiani, patrioti e soldati inglesi in piazza a Mirano
29 aprile 1945: partigiani, patrioti e soldati inglesi in piazza a Mirano
29 aprile 1945: il contingente tedesco si arrende
29 aprile 1945: il contingente tedesco si arrende

 L’attività del Comitato di Liberazione Nazionale di Mirano riprende nel marzo del 1945, quando Marcello Demonte, Erminio Nicoletti e Pellegrino Sperandio tornano ad incontrarsi per ricreare il gruppo di persone che avevano contrastato i fascisti e che, ora, devono pensare alla possibile liberazione. Nel medesimo periodo ricominciano gli incontri anche fra i partigiani rimasti nascosti nella zona. Come ricorda Tomat-Demonte, tornato a Mirano dopo la fuga dal carcere di Brescia, dove era stato rinchiuso dopo il processo del gennaio 1945: “a Mirano rimango in semiclandestinità e riprendo i contatti con quei pochi elementi della Resistenza che sono rimasti in zona”.
Il 26 aprile si ha fra gli elementi del Comitato di Liberazione un incontro che si tiene in casa di Sperandio ed al quale partecipa il dottor Fioridia. Durante la riunione si decide “di non porre ulteriore indugio all’azione sovratutto ai fini di tentare di creare in Mirano una situazione di equilibrio fra truppe tedesche uscenti ed eventuali truppe inglesi entranti, che non turbasse la vita cittadina e sovrattutto che non creasse vittime e distruzioni”. In pratica, si decide di impadronirsi dell’edificio del municipio e della casa del fascio cercando in entrambi i casi di evitare lo scontro coi tedeschi, “anche perché precise assicurazioni del Comando del presidio germanico escludevano il loro intervento”. In questo momento sono presenti in Mirano circa quattrocento soldati tedeschi in armi.
Intanto, “elementi della Resistenza locale e volontari del momento” si riuniscono a Scaltenigo per programmare la presa della casa del fascio e l’arresto dei fascisti prima che fuggano: essi contano sull’aiuto, al momento opportuno, di collaboratori della polizia e della Marina Militare. Inoltre cercano di evitare l’intervento del tedeschi “assicurandoli anzi che a noi interessano solo i fascisti ed eventualmente le S/S tedesche”.
Lo stesso 26 aprile i partigiani a Scaltenigo disarmano, comandati da Guido Gambato, la caserma della milizia ferroviaria ed un reparto di brigate nere di Bologna. La mattina del 27 tutto il materiale così sequestrato viene recuperato da automezzi del C.L.N. e portato a Mirano.
Alle dieci della stessa mattina i rappresentanti del C.L.N. di Mirano si recano nel Municipio e chiedono l’immediata consegna al Comitato stesso della gestione del Comune. Mentre sono in corso le trattative, i partigiani attaccano con una azione a sorpresa la casa del fascio: essi agiscono al comando del tenente della polizia che, al contrario di quanto stabilito dal Comitato di Liberazione, ordina l’attacco per crearsi un alibi. Intervengono i tedeschi che ingaggiano una sparatoria nella piazza di Mirano. La situazione diventa pericolosa e i rappresentanti del C.L.N. si recano nella casa del fascio a trattare con i tedeschi: sono attimi in cui si rischia la degenerazione del conflitto. Il tenente di polizia, intanto, fugge dall’edificio calandosi dalla finestra.
A mezzogiorno si riesce a far cessare la sparatoria. Come ricorda Tomat-Demonte: “noi per evitare inutili rappresaglie e vittime negli ultimi momenti di guerra, desistiamo dall’azione e così perdiamo anche l’occasione di catturare i fascisti che ci interessavano, tranne qualche mezza figura”.
Alla fine della sparatoria rimangono, comunque, dei caduti e dei feriti. Non è facile dirne il numero preciso. Secondo Tomat-Demonte: “restano uccise in piazza tre persone più un partigiano, tanti i feriti”; secondo la relazione del C.L.N. di Mirano al C.L.N. di Venezia in data 8 maggio 1945 cadono, invece, un partigiano, due civili ed un tedesco. Un partigiano (Luigi Tomaello), due tedeschi, una donna ed un bambino morti più vari feriti fra i rimanenti partigiani ed i civili è il bilancio della relazione della Brigata ‘Martiri’ in data 5 aprile 1946. Infine, sono due partigiani (il Tomaello e Mario Marcato), due tedeschi ed una donna morti e vari feriti secondo la relazione della Brigata ‘Martiri’ senza data.
Dopo questo scontro, i rappresentanti del Comitato di Liberazione intervengono nuovamente presso i comandanti tedeschi imponendo loro sei clausole alle quali attenersi e che, in breve, dispongono: “nessuna circolazione da parte dei soldati tedeschi, chiusi nelle loro caserme, allontanarsi al più presto possibile da Mirano e non fare uso alcuno delle armi”. Viene, in questo modo, superato un primo momento molto pericoloso per Mirano: la non accettazione da parte dei tedeschi delle clausole avrebbe procurato a Mirano gravi danni, visto che al momento della trattavia, sono in Mirano circa tremila soldati germanici con dodici carri armati.
Nel corso dello stesso 27 aprile il Comitato di Liberazione Nazionale di Mirano assume “tutti i poteri di amministrazione del territorio del Comune di Mirano” e nomina la giunta popolare amministrativa composta da: Luigi Bianchini, Franco Pezzoni, Emilio Prosdocimi e Pietro Ribon (per la Democrazia Cristiana); Marcello Demonte, Gioacchino Gasparini e Giuseppe Tizianello (per il Partito d’Azione); Erminio Nicoletti ed Antonio Naletto (per il Partito Comunista); Pellegrino Sperandio (per il Partito Socialista). Emilio Prosdocimi viene nominato sindaco; prosindaco è Marcello Demonte. Gli stessi Bianchini, Demonte, Nicoletti e Sperandio firmano il decreto come rappresentanti del C.L.N.
Come recita il primo articolo del decreto che annuncia la nomina della giunta (affisso in forma di manifesto in data 28 aprile 1945), “in attesa di una libera consultazione popolare e delle ulteriori disposizioni del governo democratico italiano (…) i cittadini come sopra designati entrano immediatamente in carica sostituendo i precedenti amministratori decaduti dalla funzione”. Gli articoli n° 4 e n° 5 dello stesso decreto invitano i facenti parte delle forze armate nazi-fasciste a consegnare le armi e l’equipaggiamento al più vicino posto dei Volontari della Libertà, sotto pena di morte; e afferma il passaggio di “tutte le forze armate nazionali del Comune” agli ordini del Comando dei Volontari della Libertà, rispondente a sua volta al Comitato di Liberazione.
Ma Mirano non è ancora formalmente libera.
Il 26 aprile Fioridia convoca i partigiani, distribuisce le armi a coloro che ne sono sprovvisti ed indica la linea da seguire: “veniva predisposto il blocco delle strade, Tinterruzione delle vie di comunicazione che danno accesso a Mirano con brilla¬mento di mine, il disarmo di gruppi di tedeschi, l’installazione di staffette segnalatrici dei gruppi tedeschi avanzanti onde stabilire di volta in volta il disarmo o meno a seconda della forza data la nostra esiguità di uomini e di mezzi”. Tutta la giorna¬ta viene impiegata per il disarmo di gruppi tedeschi in transito verso la ritirata: la situazione non è tranquilla, ma viene, comunque, controllata dai componenti del C.L.N..
La mattina del 29 aprile la sede del Comitato di Liberazione è teatro di una sparatoria fra resistenti e tedeschi. Dopo la costruzione di una barricata di fronte alla sede del Comitato, la colonna tedesca si blocca ed invia qualcuno a trattare coi rappresentanti del Comitato i quali sventano nuovamente un attacco contro Mirano.
Ma la paura non è finita: lo stesso giorno un gruppo di partigiani ingaggia appena fuori il paese un combattimento contro un contingente tedesco: si tratta di quat- trocentottanta uomini equipaggiati con lanciabombe, panzerfaust e mitragliere pesanti. L’armamento viene piazzato in attesa dell’arrivo dei mezzi inglesi ormai vicini. Il comandante tedesco viene contattato e condotto a parlamentare coi rappresentanti del Comitato di Liberazione per tentare di evitare lo scontro fra inglesi e tedeschi, scontro che metterebbe in pericolo Mirano. Mentre si svolge la trattativa, i partigiani avvertono le prime autoblinde inglesi dell’80 Armata, che “entrarono a Mirano, provenienti dall’autostrada e dalla Via Porara alle ore 15 circa del giorno di domenica 29 aprile 1945 e si diressero subito verso Mestre”: qui, in località Fossa di Mirano, inglesi e tedeschi si accordano senza sparare un colpo. Alle sei di sera il contingente tedesco si arrende, deposita le armi in piazza a Mirano e riparte verso Mestre, sotto la scorta degli inglesi.
A Mirano rimangono una quarantina di soldati russi consegnati, dopo pochi giorni, alle autorità alleate.
Mirano è ora libera. Come ricorda Monsignor Muriago: “così ebbe fine per Mirano la guerra. Esplosioni di gioia per tutta la serata e nei giorni seguenti”. E Bruno Tomat-Demonte, dopo avere controllato il disarmo degli ultimi tedeschi in piazza a Mirano: “dalla busta di un ufficiale tedesco, buttata nel mucchio, escono dalle carto-
line, ne prendo due-tre, me le metto in tasca: è il mio bottino di guerra… e me ne torno a casa terminando così 7 anni di vita donata alla Patria”.

(da “Mirano 1938-1948 – La Resistenza e la vita della società miranese” di Martino Lazzari e Cristina Morgante)

Appello per un’Europa democratica e antifascista

1902929_688714947858554_6567745475790193968_nQuesto il testo del discorso dell’Anpi  durante le celebrazioni della Festa di Liberazione in Piazza Martiri a Mirano:

L’ANPI, sez.“Martiri di Mirano”, esprime preoccupazione,  turbamento e indignazione per le vicende che stanno interessando l’Europa democratica e il suo futuro assetto, perché la lotta al nazifascismo è stata lotta dei popoli europei oppressi, uniti dai valori che sono stati, poi, posti a fondamento del progetto d’unione tra gli stati.
Un’onda nera, con i simboli orrendi del nazifascismo, sta infangando vaste aree d’Europa ancora segnate dal sangue del martirio di donne e uomini  perseguitati e uccisi a causa del loro amore per la libertà e per il diritto a vivere secondo i principi di  uguaglianza e di rispetto della dignità della persona.
Dalla Grecia di Alba Dorata, a Forza Nuova in Italia, all’estrema destra xenofoba francese guidata da Jean-Marie Le Pen, a quella olandese, alle formazione neonaziste, antisemite ungheresi giunte, nelle ultime elezioni, a sfiorare  il 20% , alle squadracce nere  ucraine, sino alle forme estreme di rifiuto dello straniero in Germania e nei paesi scandinavi, un vento di follia estremista sta gonfiando e strumentalizzando il profondo malessere di un continente in crisi, soprattutto, di valori .
I grandi ideali dei padri fondatori dell’Europa Unita, sorta dalle macerie della Seconda Guerra Mondiale, sembrano persi tra i mille canali di una burocrazia e di una politica che fondano le loro strategie di governo su logiche di profitto e  speculazione in ossequio ai centri di potere, economici e finanziari mondiali.
Se questa EUROPA così com’è oggi, non ci piace, non bisogna commettere il grave errore di volerne la disgregazione con programmi ispirati dal più squallido populismo, proprio per le ragioni storiche che l’hanno voluta e che ancora la motivano e che oggi possono, ancora unire i popoli partendo proprio dagli ideali dell’antifascismo.
E’ necessario che si formi un fronte democratico contro l’avanzata della destra estrema e populista, per raccogliere e animare le coscienze, quelle dei giovani in particolare, attorno ai grandi valori che la storia ci ha consegnato e che è nostro compito trasmettere alle future generazioni.
L’ANPI, custode dei valori dell’Antifascismo e della Resistenza italiana, rivolge un appello a tutte le forze democratiche perché contribuiscano a costruire e sostenere una vasta azione di mobilitazione delle coscienze, in sintonia con le altre Associazioni Resistenti a livello europeo, in un ritrovato spirito internazionalista.
Dalla difesa della Costituzione e dell’Ordinamento Repubblicano potranno derivare gli insegnamenti e gli stimoli per ripensare anche una diversa Europa Unita, proiettata verso il futuro, in grado di esprimere le qualità più alte della solidarietà sociale, il dialogo con le altre culture, la difesa della pace, nel ricordo e condanna di quanto la follia umana fu in grado di progettare ed eseguire, dominando le menti e le coscienze delle masse.
Scriveva nel 2004 Stephane Hessel nel suo volume “Indignatevi”: “Ci appelliamo ai movimenti, ai partiti, alle associazioni, alle istituzioni e ai sindacati eredi della Resistenza affinché superino le poste in gioco settoriali e lavorino innanzitutto sulle cause politiche delle ingiustizie e dei conflitti sociali e non soltanto delle conseguenze, per definire insieme un nuovo “Programma della Resistenza” per il nostro secolo, consapevoli che il fascismo continua a nutrirsi di razzismo, di intolleranza e di guerra, che a loro volta si nutrono delle ingiustizie sociali”.

PER UN’EUROPA DEI LAVORATORI, DEMOCRATICA E ANTIFASCISTA,
A DIFESA DEI VALORI  DELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
ORA E SEMPRE  RESISTENZA

23 aprile 1945: i partigiani liberano Genova

sfil23 aprile: Le nove di sera. Si riunisce  a il CLN genovese, per decidere se dare il via all’insurrezione o aspettare. Il Comando germanico aveva fatto sapere al vescovo Siri – e questi a Pittaluga (Taviani), che ne riferì subito in apertura di seduta – d’esser disposto a rinunciare alla minacciata distruzione del porto, se il Cln si fosse impegnato a rispettare quattro giorni di tregua ,permettendo all’esercito tedesco una ritirata indisturbata. Ci fu una calorosa discussione sul l’accogliere o meno il messaggio della Curia. Infine, a  notte fonda, con quattro voti contro due il CLN liberò l’ordine di insurrezione.

24 aprile: Alle quattro del mattino i primi colpi di fucile. Subito dopo, le raffiche di mitraglia.
Alle cinque, sempre più frequenti, i colpi di cannone e di mortaio. Durissima la battaglia al centro di Piazza De Ferrari.  Gli abitati di Sestri Ponente, Cornigliano,Pontedecimo, Bolzaneto, Rivarolo, Quarto, Quinto erano caduti fin dal mattino in mano agli insorti. Mancava, tuttavia, la continuità territoriale fra le loro posizioni e il centro cittadino.  Sulla camionale per Milano le colonne nemiche, bloccate nelle gallerie, tentano sortite: non possono più a lungo restare prive d’acqua.
La sera del 24 si chiude in una cupa atmosfera. La situazione era ancora più tragica e confusa per la minaccia che, dal Comando di Savignone, inviava il generale Meinhold: aprire il fuoco su Genova con le batterie pesanti di Monte Moro e con quelle leggere del porto, qualora non si lasciassero evacuare in ordine le truppe tedesche. Gli americani avevano appena raggiunto La Spezia, distanti dunque più di cento chilometri.
Fin dalla sera il Comitato ero conscio del rischio che accadesse a Genova quel che era successo a Varsavia. Adesso però – a differenza della sera prima – non c’era più il problema di fidarsi o meno della parola del nemico; adesso il Comitato poteva trattare in termini di forza: aveva nelle sue mani un numero cospicuo  di prigionieri tedeschi perciò decide d’inviare una lettera-ultimatum al generale Meinhold.

25 aprile: Alba: riprende la battaglia, praticamente in tutta la città. Ore nove: le Sap di Sestri espugnano il Castello Raggio. Ore nove e trenta: si arrendono i presidi di Voltri e di Prà.
Ore nove e quarantacinque: si arrendono le batterie di Arenzano.
Fra le otto e le dieci e trenta: le Sap conquistano Piazza Acquaverde (ma non la stazione Principe), le caserme di Sturla, l’ospedale di Rivarolo e alcuni punti di resistenza in Val Polcevera. Intanto il professor Stefano (Carmine Romanzi) dopo un avventuroso viaggio in ambulanza da Genova a Savignone ,consegna due lettere al gen. Meinhold (una del Cardinale Boetto e la proposta di resa del CLN). Il generale decide di trattare la resa, poiché viene a conoscenza anche del fatto che tutte le strade per la ritirata sulla linea Kesselring del Po, sono saldamente in mano ai partigiani (Divisione Pinan Cichero, comandata da Scrivia) e come garanzia consegna a Romanzi la sua pistola.
Ore quindici : il gen. Meinhold e i suoi accompagnatori arrivano con l’ambulanza in città dopo cinque ore di viaggio, scortati da due partigiani in motocicletta,e si recano a Villa Migone, residenza del Cardinale, dove si trovano già il console tedesco Von Hertzdorf e Giovanni Savoretti. Ore diciassette iniziano le trattative di resa. Rappresentano il Cln Scappini e Martino. Rappresenta il Corpo dei Volontari per la Libertà il maggior Mauro Aloni del Comando Piazza di Genova .
Ore diciassette e trenta: un grosso contingente dei reparti acquartierati nel porto si arrende ai partigiani.
Ore diciannove da Savona Carlo Russo telefona che anche là sono insorti.
Ore diciannove e trenta: a Villa Migone il gen. Meinhold firma l’atto di resa. Scappini testimonierà poi che il generale firmò quasi improvvisamente, dopo molte incertezze, e che tutti loro, osservandolo in quelle ore di trattative, ebbero l’impressione che stesse compiendo lo sforzo più impegnativo della sua vita. Prima che la resa sia  firmata si è fatta la conta dei militari tedeschi prigionieri degli insorti della città:1360. Numerosi altri sono stati e saranno catturati dai partigiani che stanno calando dalla montagna.

26 aprile Mezzanotte e mezza: il colonnello Davidson, comandante in capo delle missioni alleate, giunge alla sede genovese del CLN a San Nicola. Vista la situazione, riesce a contattare  telefonicamente gli Americani della 92a Buffalo, arrivati a Rapallo, per annunciar loro che proseguano pure perchè la via è libera.
Ore quattro e trenta:  il generale Meinhold trasmette l’ordine di resa ai reparti. Deve usare toni duri e minacciosi con i presidi che ancora resistono. Ufficiali tedeschi lo cercheranno senza esito in diversi punti della città per eseguire la condanna a morte emessa nei suoi confronti.
Ore nove: Pittaluga ( Taviani) raggiunge la stazione radio di Granarolo  e dà l’annuncio da Radio Genova della capitolazione tedesca, legge l’atto di resa e aggiunge: “Popolo genovese esulta. L’insurrezione, la tua insurrezione, è vinta. Per la prima volta nel corso di questa guerra, un corpo d’esercito aguerrito e ancora bene armato si è arreso dinanzi a un popolo. Genova è libera. Viva il popolo genovese, viva l’Italia”.
Mezzogiorno: giungono notizie inquietanti. Due reggimenti germanici in ritirata da La Spezia hanno raggiunto Rapallo. Che cosa accadrà a Genova se riescono a stabilire i collegamenti con gli assediati di Monte Moro e del porto?
Ore tredici: i partigiani della Cichero e della Pinan Cichero si attestano nei punti nevralgici della città…Intanto altre forze partigiane della montagna tengono saldamente in mano i passi della Bocchetta, dei Giovi, della Scoffera e di Uscio: da qui scendono a bloccare la via Aurelia tra Rapallo e Nervi, così la colonna tedesca…si dissolve.
Ore diciannove: una interminabile schiera di prigionieri tedeschi sfila per il centro cittadino inquadrata dai partigiani in armi.
Tarda serata: le avanguardie angloamericane arrivano a Nervi, dieci giorni prima del tempo previsto dai piani.

27 aprile Ore tredici il generale Almond, comandante in capo della V° armata americana rende per primo visita al Cln, nell’Hotel Bristol.  Almond ringraziò i patrioti per l’aiuto profuso, e manifestò la sua ammirazione per il modo in cui erano state condotte le cose e governata la città. I genovesi ritornano nelle vie della città liberata .
Anche se in queste cronache le vicende militari dei giorni della liberazione di Genova possono apparire piuttosto intrecciate a causa del tentativo fatto di verificarle contemporaneamente in tutti i Settori di città e di montagna, dobbiamo prendere atto che il quadro generale che ne risulta corrisponde alla definizione di “insurrezione modello” coniata da Roberto Battaglia per indicare gli avvenimenti genovesi dei giorni 23,24 e 25 aprile 1945. Lo abbiamo visto nell’applicazione dei piani operativi, tutti eseguitinelle direttrici previste, salvo alcuni tempi di attuazione peraltro non prevedibili.
Ne abbiamo avuto conferma nel vero e proprio salto di qualità compiuto sul piano militare, in breve tempo, dagli effettivi e dai quadri delle formazioni di montagna chiamate a marciare contro i presidi e a fermare le colonne di ripiegamento.
Le formazioni cittadine ci hanno rivelato, infine, la notevole capacità di trasformarsi rapidamente in reparti organizzati ed efficienti impiegando i numerosi volontari “insurrezionali”, altra grande novità nel quadro militare di quelle giornate.
L’unità politica emilitare appare comunque come premessa e base di questo successo, sostenendo il CLN Liguria nella responsabile decisione di dare tempestivamente il segnale dell’insurrezione e di seguire la spinta popolare senza attendere l’arrivo delle unità di montagna.
In tal modo si rende possibile, con alcune modifiche essenziali al piano A, respingere il ricatto del comando germanico e impedire le distruzioni, fermando, nello stesso tempo, la maggior parte delle truppe nemiche prima che lascini la città.
Unità, tempestività e una buona preparazione hanno reso possibile questa operazione di importante livello strategico, nella quale si è saputo imprimere alla grande sollevazione popolare le giuste spinte per liberare Genova in una situazione militare ancora tecnicamente favorevole al nemico……Con gli ultimi combattimenti dei partigiani e delle forze insurrezionali per liberare Spezia, Genova, Savona e Imperia finiscono le cronache militari della resistenza nella regione Liguria: 20 000 partigiani combattenti, 2 776 partigiani mutilati e invalidi, 2 500 caduti. (da http://www.istitutoresistenza-ge.it)

21 aprile 1945: Bologna libera!

27-grandeNelle prime ore della mattina del 21 aprile 1945, le unità alleate del 20 Corpo Polacco dell’8a Armata Britannica, della Divisione USA 91a e 34a, i Gruppi di combattimento Legnano, Friuli e Folgore e della brigata partigiana “Maiella” entrarono a Bologna senza sparare un colpo.
Infatti, nella notte precedente i tedeschi ed i fascisti, su ordine del generale Von Senger, avevano abbandonato la città. Più tardi nella mattinata arrivarono anche i bersaglieri del battaglione Goito che sfilarono percorrendo via Rizzoli mentre la folla, radunata ormai in centro, li acclamava.
Nel pomeriggio ebbero il permesso di entrare in città le Brigate partigiane Giustizia e Libertà di Montagna e 7a Modena. Gruppi di donne cominciarono a deporre fiori ed affiggere foto sul muro esterno del Comune in Piazza Nettuno poiché in quel luogo, chiamato dai fascisti “posto di ristoro dei partigiani”, furono fucilati molti partigiani. Nacque così, in maniera del tutto spontanea, il Sacrario dei partigiani. A Palazzo d’Accursio, il Sindaco Dozza ed il Prefetto Borghese, nominati dal CLN, portarono il saluto della città ai comandanti alleati. Anche il cardinale Nasalli Rocca si recò a Palazzo d’Accursio per incontrare i liberatori. L’arrivo dell’ex podestà Agnoli suscitò imbarazzo, anche perché pretendeva di dare le consegne, ma fu affidato a padre Casati che lo portò nel convento di San Domenico. Mentre Piazza Vittorio Emanuele II (oggi Piazza Maggiore) era ormai piena di cittadini, partigiani, soldati alleati e di
blindati sui quali erano saliti giovani, ragazze con fiori e bandierine tricolori, Dozza, Zoccoli (Presidente del CLN regionale) e Borghese si affacciarono sul balcone del Comune per salutare i cittadini ormai liberati e festosi. La festa fu turbata dal ritrovamento dei cadaveri di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli trucidati e abbandonati ai Prati di Caprara dai fascisti in fuga. (da https://storiedimenticate.wordpress.com)

La liberazione di Bologna nelle immagini di Luciano Bergonzini, giovane partigiano:

CLNAI: Ultimatum del 19 aprile 1945

arrendersiowebSia ben chiaro per tutti che chi non si arrende sarà sterminato.

Sia ben chiaro per i componenti delle forze armate del cosiddetto governo fascista repubblicano che chi sarà colto con le armi in mano sarà fucilato.

Solo chi abbandona oggi, subito, prima che sia troppo tardi, volontariamente, le file del tradimento, solo chi si arrende al Comitato di Liberazione Nazionale, consegna le armi – quante armi può – ai patrioti avrà salva la vita, se non si sarà macchiato personalmente di più gravi delitti.

Il Comitato di Liberazione Nazionale e le formazioni armate del Corpo dei Volontari della Libertà non accettano e non accetteranno mai – in armonia con le decisioni dei capi responsabili delle Nazioni Unite – altra forma di resa dei nazifascisti che non sia la resa incondizionata.

Che nessuno possa dire che, sull’orlo della tomba, non è stato avvertito e non gli è stata offerta un’estrema ed ultima via di salvezza.

Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia.

Achille Marazza per la Democrazia Cristiana

Augusto De Gasperi per la Democrazia Cristiana

Ferruccio Parri per il Partito d’Azione

Leo Valiani per il Partito d’Azione

Luigi Longo per il Partito Comunista Italiano

Emilio Sereni per il Partito Comunista Italiano

Giustino Arpesani per il Partito Liberale Italiano

Filippo Jacini per il Partito Liberale Italiano

Rodolfo Morandi per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria

Sandro Pertini per il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria

Quel che resta di Gramsci

albergo-gramsci-lapide-640x254«Qui Antonio Gramsci abitò negli anni 1919-21 nelle lotte operaie contro l’incombente reazione forgiando il partito comunista, guida decisiva per la libertà e il socialismo». La lapide posta nel 1957 sul muro del palazzo torinese che ospitò le riunioni di redazione dell’Ordine Nuovo sarà presto oscurata da un’insegna ben altrimenti visibile, in cui si leggerà: Hotel Gramsci.
In un paese in cui i teatri greci vedono rombare le macchine di lusso, le librerie si convertono in supermercati di lusso, i ponti vengono affittati a club di super-ricchi, le biblioteche ospitano partite di golf e i musei si riducono a location per sfilate di moda, non stupisce che quell’edificio di Torino vada incontro a una sorte simile. Quel che pare allucinante è che la catena NH Hotels e i suoi partner italiani (tra cui Intesa San Paolo) abbiano deciso di usare il nome di Antonio Gramsci per battezzare un albergo a cinque stelle, con area fitness e piscina sul tetto. Associando così ad un potente simbolo di lusso e diseguaglianza il nome di chi ha scritto che «non può esistere eguaglianza politica completa e perfetta senza eguaglianza economica». Chi chiamerebbe «Gesù spa» una banca d’affari con sede a Betlemme, chi intitolerebbe a Gandhi un poligono di tiro a Nuova Delhi?
Eppure, il direttore dell’Istituto Piemontese Antonio Gramsci, Sergio Scamuzzi, ha dichiarato: «non ci vedo niente di male, nessun elemento fuorviante o che va a collidere con la storia di Gramsci. Credo anzi che lui sarebbe molto contento di sapere che un albergo con il suo nome produrrà occupazione». È stupefacente come sia saltata ogni idea di decoro, che vuol dire saper mettere le cose al loro posto. Qui non si tratta di decidere se Gramsci avrebbe approvato l’esistenza di un albergo di lusso, si tratta di usare il suo nome per vendere quel prodotto: contribuendo alla marmellata generale che ci opprime, e che trova l’unico valore di riferimento nel denaro. Come ha detto Nicola Tranfaglia, «il carcere duro e la terribile morte che sono toccati in sorte a Gramsci hanno poco a che fare con l’immagine di un hotel di lusso». Punto. (Di Tommaso Montanari da “Il Fatto”)

Villa Opicina: 70° anniversario dell’uccisione di 71 ostaggi

800px-Trieste_-_Monumento_ai_71_ostaggi_fucilati_dai_nazisti_-_cippo_di_pietre_carsiche_e_lapidiDomenica 6 aprile 2014 alle ore 15 al poligono di tiro di Opicina ci sarà la Commemorazione nel 70° anniversario dell’uccisione dei 71 ostaggi. Parleranno Tit Turnšek, presidente della ZB per i valori della Lotta di Liberazione della Slovenia e lo scrittore Veit Heinichen. Partecipa il Coro partigiano triestino P. Tomažič. (ANPI-VZPI, ANED, ANPPIA provinciale di Trieste)

Il 3 aprile 1944 venivano uccise 71 persone (tra cui militanti antifascisti, partigiani italiani, sloveni, croati, rastrellati a Trieste e in altri centri della regione), presso il poligono di tiro di Opicina, vicino a Trieste, in seguito alla rappresaglia ordinata per un attentato avvenuto in un un cinema che causò la morte di 7 soldati tedeschi. Questi 71 cadaveri furono i primi ad essere bruciati nel forno crematorio della risiera di San Sabba a Trieste, unico campo di sterminio esistente in Italia.  Le testimonianze della gente del posto e dell’unico superstite della rappresaglia, il giovane partigiano Stevo Rodic, hanno permesso che venisse ricostruita questa ennesima strage in territorio triestino. Il Monumento dedicato a queste vittime del nazifascismo è in stato di abbandono, relegato in una via laterale, con scarne indicazioni, circondato da un centro di raccolta rifiuti e un poligono di tiro ancora funzionante in cui il 15 dicembre 1941 sono stati fucilati cinque antifascisti sloveni, Viktor Bobek, Ivan Ivancic, Simon Kos, Pinko Tomazic e Ivan Vadnal. Questo è un luogo simbolo della resistenza a Trieste e dovremo tutti domandarci perchè, a otto chilometri da qui, c’è un altro monumento ben curato e pubblicizzato diventato monumento nazionale. Due monumenti che non hanno lo stesso peso e non hanno lo stesso valore. Due monumenti che fanno capire la differenza tra strumentalizzazione  della storia e verità storica.

Venerdì 4 aprile 2014: “Tina Merlin, donna resistente”

maria segaVenerdì 4 aprile alle ore 20.45 a Mirano in Sala Conferenze di Villa Errera, Maria Teresa Sega interverrà sul tema “Tina Merlin, donna resistente”.

Il 22  dicembre 1991 moriva a Belluno Tina Merlin. Era nata a Trichiana (BL) il 19 agosto del 1926. Era sorella del partigiano Toni Merlin, organizzatore e comandante del battaglione “Manara”,  successivamente assorbito dalla brigata partigiana “7° Alpini”. Partecipò alla resistenza come staffetta partigiana nella stessa brigata e, dopo la guerra diventò giornalista collaborando con l’ “Unità”, diventandone la corrispondente da Belluno. Nel 1951 pubblicò “Menica“, una raccolta di storie sulla guerra  partigiana. In quel periodo iniziò a interessarsi alla diga del Vaiont e, per i suoi articolo di denuncia pubblicati sull’”Unità” che descrivevano la situazione pericolosa che si era andata manifestando con la costruzione della diga,  venne processata e assolta dal tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La sentenza porta la data del 30 novembre 1960 e anticipa di quasi tre anni la strage annunciata del Vaiont. Il suo libro più famoso è “Sulla pelle viva – come si costruisce una catastrofe”, un libro che nessuno voleva pubblicare e vide la luce solo nel 1983 per le edizioni “La Pietra” di Milano. Tanti giornalisti, molto più famosi di lei, scrissero articoli ignobili in cui la la strage (“la tragedia”) rimaneva relegata in un’ottica di fatale e naturale disgrazia rimanendo ammirati per la solidità della diga. Così descrisse l’evento Dino Buzzati  in articolo apparso sul Corriere della Sera, venerdì 11 ottobre 1963: “Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico.”  E così Giorgio Bocca in un articolo pubblicato su “Il Giorno” dell’11 ottobre 1963: “Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!… Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muovere guerra…”. Il giornalista Indro Montanelli scrisse inoltre un articolo sul periodico “La Domenica del Corriere” (novembre 1963) nel quale accusava i comunisti di speculare su una così grave tragedia: “nella vita delle nazioni – sosteneva Montanelli – ci sono sempre state tragedie di ogni genere, carestie, pestilenze, terremoti, che vanno affrontate con coraggio e senza creare odi interni”.
Ma Tina non era della stessa pasta, era una che non mollava e continuò a pubblicare e a fare inchieste, sempre dalla parte degli ultimi, degli indifesi, di chi non era tutelato da nessun potere. In uno degli ultimi suoi articoli sul giornale “Patria” scrisse ancora del Vaiont inquadrando il problema in un ottica storica lucida ed estremamente attuale anche ai nostri giorni. Grazie Tina.

“I giorni dopo il Vajont la gente era convinta che la tragedia dovesse essere un punto di partenza per una riflessione collettiva dalla quale partire per cambiare, per mettere in discussione rapporti e metodi. C’erano duemila morti ammazzati, dei quali tutti i poteri portavano una responsabilità diretta o indiretta. La Costituzione era stata messa sotto i piedi e si era rivelata incapace di garantire perfino la vita dei cittadini. Da più parti si proclamava, e si prometteva, che occorreva cambiare rotta. Invece, da allora, le compromissioni del potere politico con quello economico sono state infinite e scandalose. Si sono affinate nella degenerazione di ogni diritto, talchè la democrazia non ha più senso e reale consistenza in questo nostro paese governato da gruppi di potere palesi e occulti, dove uomini della politica e uomini dell’economia vanno sottobraccio a quelli della mafia, del terrorismo, della P2, per sostenersi a vicenda…..”