Marcello Basso: intervento al Senato del 16 marzo 2004 (Istituzione della giornata del Ricordo)

Marcello Basso
Marcello Basso

Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, intervengo sul provvedimento “Istituzione del “Giorno del ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati”, perché turbato dalla lettura dei Resoconti pervenutici dalla Camera dei deputati; perché scosso dal fatto che negli interventi dei deputati, ma anche dei senatori, della destra non ci sia alcun riferimento alla guerra di aggressione dell’Italia fascista e della Germania nazista alle popolazioni della Iugoslavia, anche da parte di chi, lo voglio dire, autorevole rappresentante della Lega, andava in tempi assolutamente recenti in pellegrinaggio da Milosevic; perché scandalizzato dal fatto che nella relazione al provvedimento l’onorevole Menia citi in positivo l’opera dei reparti della X MAS e del Battaglione bersaglieri Mussolini sul confine orientale; scorato, altresì, dal fatto che non emerga sforzo alcuno per capire il contesto storico che ha originato la grande tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata; preoccupato – anche questo voglio dire – da talune recrudescenze irredentiste. Si parte, magari come fa il senatore Servello, dalla richiesta della restituzione dei beni agli esuli, per poi magari pretendere la restituzione dei territori.

Sono queste le ragioni per le quali ho deciso di riaprire qualche libro di storia e di riascoltare le versioni ed i racconti di alcuni rappresentanti dell’Associazione nazionale partigiani. Da questo punto di vista è senz’altro utile – lo suggerisco – la lettura dei “Quaderni della Resistenza” pubblicati da parte del Comitato regionale dell’ANPI del Friuli-Venezia Giulia.

La memoria storica va sottratta alla speculazione. Quando parliamo di seconda Guerra mondiale, di fascismo e di Resistenza vi è un’unica storia. Questa storia riguarda tutti gli italiani ma – direi – anche tutti gli europei. È una storia che non può essere né ignorata né oltraggiata. È incontestabile, allora, che la Germania nazista e l’Italia fascista, scatenando la seconda Guerra mondiale, si macchiarono della responsabilità di causare all’umanità oltre 50 milioni di morti, la metà dei quali, circa 25 milioni, civili.

Tra il 1940 e il 1945 si verificò un vero e proprio scontro di civiltà. La libertà e la democrazia alla fine prevalsero, ma il prezzo pagato fu senz’altro immane. Né la “riconciliazione” di cui oggi si parla può comportare il riconoscimento di valori comuni fra chi combatté per restituire il mondo alla libertà e alla democrazia e chi propugnò la cosiddetta civiltà dei cimiteri, dei reticolati e del cono d’ombra dell’Olocausto.

A quasi sessant’anni di distanza, guardiamo con sentimento di cristiana pietà a tutti i morti. Di fronte alla morte, il giudizio si interrompe! La morte rende tutti uguali! Ma fermo e dirimente rimane il giudizio sulle vite consumate. Quelle vite possiamo continuare a giudicare: le vite per la libertà e le vite per il regime. “Tutti uguali davanti alla morte, non davanti alla storia”, scrisse Italo Calvino.

E ancora, possiamo interrogarci non sulle ragioni, ma sulle motivazioni di chi quasi per un soffio o per un impennamento dell’anima, scelse, giovanissimo, di stare dall’altra parte della barricata. Rispondere a queste motivazioni significa trovare una spiegazione storica, non una giustificazione. E comunque nessuna revisione storica potrà mai cancellare gli orrori di Marzabotto, di Sant’Anna di Stazzema e della Risiera di San Sabba. Nessuna revisione storica potrà mai cancellare i campi di sterminio di Dachau, di Auschwitz e le tante altre stazioni di un’interminabile via crucis di dolore e di vittime innocenti.

La nuova Europa, della quale l’Italia è parte importante e integrante, e che andrà via via comprendendo gran parte dei Paesi dell’Est europeo, nasce dalla Resistenza e dalla liberazione dal nazismo e dal fascismo. Dobbiamo avvertire in modo forte la necessità di ravvivare il ricordo di una storia di cui si rischia di perdere traccia.

Ai giovani andrebbe spiegato che c’è una differenza sostanziale tra dittatura e democrazia e che la forza di una Nazione come la nostra, ma direi la forza dell’intera Europa, sta proprio nella sua memoria storica, non come eredità di un odio e di una vendetta, ma come memoria costitutiva della sua vita civile e politica. L’Europa unita non potrà permettere che rinascano gli orrori del passato.

La nuova Europa ha davanti a sé grosse responsabilità: i problemi enormi di interi popoli che devono riorganizzare il loro futuro sulla democrazia e sulla libertà, affermando il valore universale della pace e della convivenza tra gli uomini come attuale e vitale esigenza, ricostruendo una cultura che sappia ascoltare e che sia in grado di considerare le diversità come una ricchezza.

Nelle zone della frontiera orientale, nelle terre istriane e dalmate, per secoli italiani e slavi hanno vissuto in pace, senza violenza alcuna. L’equilibrio tra le diverse etnie fu mantenuto prima, e per diversi secoli, dalla Repubblica di Venezia, successivamente dalla stessa Austria.

A rompere questo equilibrio è stato il nazionalismo fascista, che introdusse ogni sorta di violenza, compreso un vero e proprio genocidio culturale. Si può dire che la spirale d’odio fu innescata dal discorso di Mussolini a Pola, già nel 1920: “Di fronte a una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica dello zuccherino, ma quella del bastone”.

Fu così! All’avvento del fascismo seguì una politica di “snazionalizzazione” nei confronti di oltre mezzo milione di slavi incorporati nel Regno d’Italia dopo la prima Guerra mondiale. Il fascismo proibì a queste popolazioni di parlare la loro lingua e di stampare i propri giornali; si chiusero le loro scuole, si sciolsero le loro organizzazioni culturali, sportive e ricreative; si bruciarono le loro sedi.

Si volle, in questo modo, italianizzare e fascistizzare tutta la Venezia Giulia, eliminando ogni espressione politica e culturale slava. Si italianizzarono persino i cognomi. Si trattò di una sistematica opera di colonizzazione dei territori slavi della Venezia Giulia; molti contadini slavi furono cacciati e le loro terre affidate a contadini italiani. Il tribunale speciale emanò sentenze di condanna a morte anche nei confronti degli sloveni, colpevoli – si dice – di cospirazione per l’abbattimento delle istituzioni italiane.

Il 5 aprile 1941 l’Italia dichiarò guerra al Regno di Iugoslavia. Fu un’aggressione, come si sa, assolutamente immotivata. La Iugoslavia soccombette alle 56 divisioni italiane, tedesche, ungheresi e bulgare. Fu l’inizio di una violenza inaudita, di massacri di civili, di fucilazioni di partigiani. Lo Stato iugoslavo fu smembrato e diviso tra la Germania e l’Italia. In Croazia il Governo fu affidato ad un fascista croato, Ante Pavelic, e agli ustascia. Vennero armati cetnici e ustascia, che iniziarono una lunga lotta intestina che causò quasi 800.000 morti.

Iniziarono anche le deportazioni di massa: decine di migliaia di civili, vecchi, donne e bambini, vennero rinchiusi in tanti lager gestiti da italiani, come quello di Arbe, l’attuale Rab. È questa un’altra pagina vergognosa dell’occupazione italiana della Slovenia che contribuì ad allargare la spirale d’odio.

Dopo l’8 settembre il Friuli e la Venezia Giulia escono dalla sovranità italiana per essere affidati a un commissario nazista. Con ordinanza di Hitler si costituì la “Zona d’operazioni Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana; territori destinati a diventare una marca del Terzo Reich tedesco, qualora la Germania avesse vinto la guerra.

Le formazioni fasciste della Repubblica Sociale vennero usate per l’attività poliziesca, delatoria e antipartigiana sotto il comando delle SS. Questo fu il vero ruolo dei fascisti, del Battaglione bersaglieri volontari “Benito Mussolini” e dei battaglioni della X MAS, tanto cari all’onorevole Menia da citarli – come dicevo – nella relazione al provvedimento in esame!

La resistenza iugoslava agli aggressori fascisti e nazisti iniziò già nel luglio del 1941; come si sa, fu guidata dai comunisti di Tito unitamente alle diverse espressioni del nazionalismo iugoslavo. Si fece valere l’equazione “italiano uguale fascista”, equazione che le migliaia di italiani che morirono combattendo al fianco delle formazioni partigiane slave riuscirono solo in parte a mettere in discussione. Del resto, tale equazione era stata introdotta e diffusa proprio da Mussolini.

Qui va ricercata la ragione per cui le foibe del 1943 in Istria furono la tomba anche di qualche innocente che aveva il torto di essere italiano.

Dopo l’8 settembre molte regioni iugoslave insorsero contro gli invasori perpetrando persecuzioni particolarmente violente. Le vittime furono, a volte, semplici impiegati comunali, simbolo del potere dominante italiano, commercianti e piccoli gerarchi locali, sacrificate sull’altare di vendette personali che poco c’entravano con la politica e la guerra.

Tristemente esemplare – lo voglio ricordare – è l’uccisione della studentessa universitaria Norma Cossetto, colpevole unicamente di chiedere notizie del padre arrestato dai partigiani. L’allora rettore dell’università di Padova, il grande antifascista professor Concetto Marchesi, volle apporre una targa in ricordo della studentessa presso la sua università.

È indubbio che tra gli insorti vi fu anche la presenza di autentici criminali. La vicenda delle foibe è stata, sicuramente, una grande tragedia. È comunque da rifiutarsi, perché aberrante, un accostamento tra foibe da una parte e Shoah dall’altra che, con la Risiera di San Sabba, visse sul confine orientale una pagina particolarmente drammatica. Quest’ultima fu il frutto razionale e scientifico dell’ideologia nazista, la stessa che produsse Auschwitz, Mathausen e Dachau.

I partigiani slavi e italiani non hanno mai avuto tra le loro finalità la purezza della razza, così come risulta fra l’altro dalla relazione finale della commissione mista italo-slovena che recentemente ha concluso i propri lavori.

Diversamente i nazisti avevano programmato lo sterminio dei popoli da loro considerati inferiori: ebrei, slavi, zingari. Stessa sorte era ovviamente riservata agli oppositori politici. Il metodo adottato dai nazisti era il ricorso agli eccidi di massa, alle stragi, alle rappresaglie contro ostaggi innocenti. Ecco allora che usare le foibe come contraltare dell’Olocausto per dimostrare che tutti sono stati ugualmente colpevoli e operare, così, una indiretta rivalutazione del fascismo è un esercizio da evitarsi.

Rimane la gravità degli infoibamenti anche come conseguenza dello scoppio di odi e rancori collettivi a lungo repressi.

Alle foibe del 1943 seguirono le foibe dell’aprile-maggio 1945. Anche in questo caso vi furono coinvolti non solo fascisti e nazisti, ma altresì persone che con il fascismo non c’entravano: è ragionevole pensare, allora, che qualcuno c’entrasse in quanto italiano. Fu sicuramente la conseguenza dell’odio che permeava il confine orientale; fu la conseguenza dell’imbarbarimento dei costumi, dello stravolgimento dei valori, degli odi nazionali.

Nelle foibe finirono anche esponenti del CLN che si opponevano all’annessione dei territori italiani di confine da parte di Tito, il quale, sul finire del conflitto, assunse l’antico comportamento di tutti i vincitori di guerra: annettere parti, anche consistenti, del territorio degli sconfitti, proprio nella logica del nazionalismo espansionistico.

E, infine, è possibile collegare le foibe con l’esodo, è possibile, cioè, considerare l’esodo come la conseguenza della paura delle foibe?

Un illustre istriano, il professor Diego de Castro, autore di due pubblicazioni (“La questione di Trieste” e “Memorie di un novantenne”) lo esclude. Se si fosse trattato di pulizia etnica i morti sarebbero dovuti ammontare a centinaia di migliaia. Le motivazioni erano, piuttosto, politiche e non etniche.

Si può dire, in riferimento all’esodo, che solo le persone fuggite nel maggio 1945 lo fecero per paura dell’infoibamento: si trattava di persone compromesse con i fascisti e con i nazisti. Sicuramente i grandi esodi, da Fiume nel 1946 e da Pola nel 1947, non sono ascrivibili a questa paura.

Non è certamente ascrivibile alla paura delle foibe l’ultimo esodo, quello del 1955, conseguente all’Intesa di Londra dell’ottobre 1954 che definì la spartizione del territorio libero: Trieste all’Italia e la zona B, comprendente fra le altre le cittadine di Pirano, Umago, Porto Rose, Isola e Capodistria alla Iugoslavia. L’esodo fu la conseguenza di una precisa scelta di libertà: vivere sotto il regime comunista di Tito, con un confine chiuso e una frontiera invalicabile, o, invece, scegliere l’Italia.

Si trattava di optare per la cittadinanza italiana o per quella iugoslava. Per la grande maggioranza degli istriani era impensabile vivere separati da Trieste, considerata la vera capitale dell’Istria.

Questa è stata la vera tragedia dell’Istria, assieme, ovviamente, a quella degli infoibati, che vanno ricordati con pietà e ai familiari dei quali è doveroso conferire una medaglia in ricordo, escludendo coloro i quali hanno compiuto efferati delitti contro la persona e hanno giurato fedeltà e volontaria sudditanza al supremo commissario del Terzo Reich.

L’esodo è stato un’immane tragedia umana. Una ferita che, così come è stato scritto, inciderà fino alla morte nell’animo di tutti coloro i quali abbandonarono la propria terra. Per questo l’abbandono non rappresentò l’ultimo momento del dolore, ma soltanto il suo inizio.

Una tragedia, dicevo, immane che, come sostiene Mario Bonifacio, istriano, classe 1928, antifascista, andatosene con la famiglia da Pirano nel 1955 e che oggi vive a Venezia ed è attivo nell’Istituto storico della Resistenza di quella città, determinò la scomparsa dei cosiddetti istro-veneti, la popolazione veramente autoctona dell’Istria, almeno da 2.500 anni. Si tratta dei discendenti degli Istri, affini ai Venetici e, al pari degli altri veneti, culturalmente latinizzati da Aquileia.

Questa è storia! Io voterò questo provvedimento! Lo farò perché ritengo giusto ricordare chi è morto in modo orrendo nelle profondità delle foibe carsiche. Lo farò perché ritengo sia inderogabile ricordare il dramma dell’esodo istriano-dalmata; vorrò farlo, però, nella chiarezza più assoluta.

Delle nefandezze e delle violenze perpetrate anche dall’esercito italiano in Iugoslavia mi ha parlato a lungo un artigliere, mio padre. La sua divisione, nel Sud della Iugoslavia, dopo l’8 settembre 1943, si riscattò combattendo non contro, ma assieme alle partigiane e ai partigiani di Tito; non facendosi prendere dai tedeschi, ma facendo prigioniera un’intera divisione tedesca. Poi, gli artiglieri italiani si imbarcarono per Bari e da lì, assieme agli Alleati, parteciparono alla liberazione totale dell’Italia. (Applausi dai Gruppi DS-U, Mar-DL-U e del senatore Colombo. Congratulazioni).

Giustizia e Libertà, movimento rivoluzionario antifascista.

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Questa è la ricevuta e buono di restituzione per il finanziamento del movimento Giustizia e Libertà durante il periodo clandestino. Interessante l’appassionato appello contenuto sul retro del buono. Il possesso di questo documento veniva considerato dai fascisti come prova e giustificazione per la fucilazione immediata del possessore. (Grazie a Renzo Tonolo)

Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos

Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943
Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943

Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo.
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ‘900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hof­fmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fascista emana l’ordine di arresto di tutti i Rom e Sinti italiani e non, e il loro trasferimento in specifici campi di concentramento. «Se non fosse arrivato l’8 settembre quelle persone sarebbero sicuramente transitate verso i campi di sterminio tedeschi, i collegamenti c’erano e i documenti provano questa linearità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fascisti salta completamente, riescono a fuggire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di competenza della Repubblica sociale, vengono arrestati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathausen». Qualcuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai partigiani, come dimostrano le storie del piemontese sinto Amilcare Debar o di Walter Vampa Catter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre circensi, giostrai e teatranti trucidati dalle Ss tra i dieci martiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».
Una memoria taciuta
Eppure del Porrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza.
I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».

Eleonora Martini, Il Manifesto del 25 gennaio 2015

22 gennaio: La sovranità appartiene al popolo

LOCANDINA Carlassare e Gallo cgil

Il 22 gennaio 2015 ORE 17,30 a Mestre presso l’I. C. “GIULIO CESARE” ci sarà una conversazione con Lorenza Carlassare e Domenico Gallo. Introdurrà il Presidente provinciale dell’Anpi Venezia Diego Collovini.
La Costituzione della Repubblica Italiana del 1948 fu il risultato dell’incontro tra diverse forze politiche riunite in un’Assemblea Costituente, un’Assemblea nata per scelta dei cittadini italiani chiamati a votarla secondo il criterio proporzionale.
Oggi un Parlamento dichiarato illegittimo il 13 gennaio 2014 dalla Corte costituzionale, massimo organo dell’ordinamento statale, sta per modificare la Costituzione Italiana.

Tutto questo pone alcune domande a cui cercheremo di dare una risposta:

1. Cosa sanno i cittadini della discussione in corso in Parlamento sulla modifica della Costituzione e sulla nuova legge elettorale che dovrebbe sostituire l’incostituzionale Porcellum?
Essere informati per esercitare i propri diritti civili e politici: è questa la premessa dell’agire democratico.
2. Può un Parlamento, eletto con una legge incostituzionale, approvare una nuova legge elettorale che ripropone i difetti della precedente? Può questo Parlamento modificare il sistema istituzionale espresso dalla seconda parte della Costituzione?
La sovranità appartiene al popolo e deve essere esercitata nelle forme e nei limiti sanciti dalla Costituzione: è questa la prima regola di uno Stato costituzionale. In uno Stato costituzionale la volontà del popolo deve trovare espressione in un legittimo Parlamento.
3. L’organo legislativo che è espressione della nostra Repubblica parlamentare può garantire la rappresentanza dei cittadini se proviene da liste bloccate e da un premio di maggioranza alla lista o alla coalizione più votata? In una democrazia è accettabile che in nome della “stabilità di governo” venga sacrificato il principio della rappresentanza?
L’uguaglianza dei cittadini nel diritto di voto è necessariamente al centro di una democrazia rappresentativa. E’ il voto di ogni cittadino a garantire una democrazia, non lo sono né un meccanismo matematico né la scelta dei candidati fatta in altre sedi. Il rispetto della rappresentanza permette la stabilità di governo.
4. Quali conseguenze potrebbero ripercuotersi sui diritti dei cittadini con le modifiche alla Carta costituzionale e con una legge elettorale fondata su liste bloccate e sul premio di maggioranza?

A.N.P.I. Provinciale Venezia, C.G.I.L. Venezia, LIBERA Venezia e terraferma, LIBERTÀ E GIUSTIZIA Venezia, RETE PER LA COSTITUZIONE Venezia.

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Riforme: era (ed è) una questione democratica

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Appello dell’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)
ai parlamentari, ai partiti, alle cittadine e ai cittadini

Il 29 aprile 2014 l’ANPI Nazionale promosse una manifestazione al teatro Eliseo di Roma col titolo “Una questione democratica”, riferendosi al progetto di riforma del Senato ed alla legge elettorale da poco approvata dalla Camera. Da allora, molta acqua è passata sotto i ponti; ma adesso che si vorrebbe arrivare ad un ipotetico “ultimo atto” (l’approvazione da parte del Senato della legge elettorale in una versione modificata rispetto al testo precedente, ma senza eliminare i difetti e le criticità; e l’approvazione, in seconda lettura, alla Camera della riforma del Senato approvata l’8 agosto scorso, senza avere eliminato i problemi di fondo) è necessario ribadire con forza che se passeranno i provvedimenti in questione (pur non in via definitiva) si realizzerà un vero e proprio strappo nel nostro sistema democratico.

Non è più tempo di inascoltate argomentazioni e bisogna fermarsi all’essenziale, prima che sia troppo tardi.
Una legge elettorale che consente di formare una Camera (la più importante sul piano politico, nelle intenzioni dei sostenitori della riforma costituzionale) con quasi i due terzi di “nominati”, non restituisce la parola ai cittadini, né garantisce la rappresentanza piena cui hanno diritto per norme costituzionali. Una legge elettorale, oltretutto, che dovrebbe contenere un differimento dell’entrata in vigore a circa un anno, contrariamente a qualunque regola o principio (le leggi elettorali si fanno per l’eventualità che ci siano elezioni e non dovrebbero essere soggette ad accordi particolari, al di là di ogni interesse collettivo).
Quanto al Senato, l’esercizio della sovranità popolare presuppone una vera rappresentanza dei cittadini fondata su una vera elettività. Togliere, praticamente, di mezzo, una delle Camere elettive previste dalla Costituzione, significa incidere fortemente, sia sul sistema della rappresentanza, sia su quel contesto di poteri e contropoteri, che è necessario in ogni Paese civile e democratico e che da noi è espressamente previsto dalla Costituzione (in forme che certamente possono essere modificate, a condizione di lasciare intatte rappresentanza e democrazia e non sacrificandole al mito della governabilità).
Un sistema parlamentare non deve essere necessariamente bicamerale. Ma se si mantiene il bicameralismo, pur differenziando (come ormai è necessario) le funzioni, occorre che i due rami abbiano la stessa dignità, lo stesso prestigio, ed analoga elevatezza di compiti e che vengano create le condizioni perche l’eletto, anche al Senato, possa svolgere le sue funzioni “con disciplina e onore” come vuole l’articolo 54 della Costituzione. Siamo dunque di fronte ad un bivio importante, i cui nodi non possono essere affidati alla celerità ed a tempi contingentati.
In un momento di particolare importanza, come questo, ognuno deve assumersi le proprie responsabilità, affrontando i problemi nella loro reale consistenza e togliendo di mezzo, una volta per tutte, la questione del preteso risparmio con la riduzione del numero dei Senatori, perché uguale risultato potrebbe essere raggiunto riducendo il numero complessivo dei parlamentari.

Ai parlamentari, adesso, spetta il coraggio delle decisioni anche scomode; ed è superfluo ricordare che essi rappresentano la Nazione ed esercitano le loro funzione senza vincolo di mandato (art. 67 della Costituzione) e dunque in piena libertà di coscienza.
Ai partiti, se davvero vogliono riavvicinare i cittadini alle istituzioni ed alla politica, compete di adottare misure e proporre iniziative legislative di taglio riformatore idonee a rafforzare la democrazia, la rappresentanza e la partecipazione anziché ridurne gli spazi.
Ai cittadini ed alle cittadine compete di uscire dal rassegnato silenzio, dal conformismo, dalla indifferenza e far sentire la propria voce per sostenere e difendere i connotati essenziali della democrazia, a partire dalla partecipazione e per rendere il posto che loro spetta ai valori fondamentali, nati dall’esperienza resistenziale e recepiti dalla Costituzione.
L’Italia può farcela ad uscire dalla crisi economica, morale e politica, solo rimettendo in primo piano i valori costituzionali e le ragioni etiche e di buona politica che hanno rappresentato il sogno, le speranze e l’impegno della Resistenza.
Dipende da tutti noi.

L’ANPI resterà comunque in campo dando vita ad una grande mobilitazione per informare i cittadini e realizzare la più ampia partecipazione democratica ad un impegno che mira al bene ed al progresso del Paese.

La Segreteria Nazionale ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia)

Roma, 16 gennaio 2015

16 gennaio 2015: commemorazione dei partigiani uccisi al cimitero dei Mirano

17gennaio1945 Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni): questi sono i nomi dei 7 partigiani fucilati la mattina del 17 gennaio 1945 al cimitero di Mirano.

Da un’intervista a Carlo Toniolo del 2002:
Ero a prendere il cavallo e mi trovavo tra i due ponti.
Che ora era?
Di mattina, le otto, otto e mezza.
Che stagione?
Era freddo sì, era il 17 gennaio 1945; e trovo questi due ammanettati con uno da una parte e uno dall’altra, altri due e l’ultima fila tre. Due e due quattro e tre sette ammanettati così.
Non ne conosceva nessuno?
No, neanche uno. Erano bianchi in faccia!
Erano giovani?
Giovanissimi! Mi sembrava quasi che qualcuno avesse quindici anni. Erano bianchi, sapevano che andavano a morire. Quando siamo stati in piazza abbiamo sentito gli spari.
Erano quelli fucilati alla mura del cimitero?
Sì. Adesso la mura è più bassa perché una volta non c’era l’asfalto, era terra battuta: qualcuno ha sparato in alto per non colpirli, si vedono i fori in alto.

Per commemorarli ci troviamo venerdì 16 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera con questo programma:

– Proiezione documentario di Giorgio Sticchi
– Consegna delle tessere ad honorem
– Proiezioni foto dal libro “Mirano1938-1948” di Cristina Morgante e Martino Lazzari
– Intervento di testimonianze presenti in sala
– Giornata del tesseramento

Sabato 17 gennaio alle ore 11.00 ci sarà il corteo che partirà dalla caserma della Guardia di Finanza (ex casa del fascio) e arriverà al cimitero di Mirano.

17 gennaio 2015

Quel Natale del ’44 (60 anni dopo, bellissima lettera di un Partigiano alla sua figlia)

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Lettera scritta dal partigiano Vladimiro Diodati, Paolo, alla figlia Milena:

In questa notte di Natale voglio scriverti questa lettera, figlia mia, perché avverto il peso del tempo, e sento che i miei giorni volgono ormai al tramonto.
Sono trascorsi sessant’anni dalla fine della guerra e tante cose ho serbato nel cuore. Ma in questa notte sento il desiderio di offrirti questa semplice testimonianza. Te la dono con il mio affetto, con tutto il mio bene, affinché sappia che tuo padre ha vissuto la sua vita con la coerenza degli ideali.
In quel periodo accadde tutto così in fretta, figlia mia. Allora c’era poco tempo per pensare… le scelte si facevano sulla nostra pelle. A volte bastava un attimo: stare di qua o di là della barricata poteva essere anche una questione di emozioni: la libertà oppure l’onore? Il desiderio di un’Italia migliore o l’orgoglio di non venir meno a una parola data? Questo, sia chiaro, per chi le scelte le operò in buona fede. Gli altri, non so… Non c’era tempo, allora, per approfondire…
Sicuramente ci saranno stati errori anche dalla nostra parte. Forse degli eccessi… Ma noi sognavamo la libertà, non dimenticarlo, figlia mia… Altri stavano dalla parte della dittatura, del terrore, della morte.

Io scelsi di stare dalla parte della vita…

C’è un episodio, però, che oggi voglio consegnare ai posteri. Una storia che, sino ad ora, è appartenuta alla sfera del mio privato, delle mie emozioni, di quei profondi sentimenti che hanno albergato nel mio cuore. Non l’ho mai raccontata prima; ma, a sessant’anni dalla fine della guerra, voglio fissarla sulla carta per te, affinché possa ricordarti del tuo papà…

Accadde nell’autunno-inverno del 1944.

Dal settembre 1943 avevo scelto la via dei monti, quella della libertà.
Nella valle in cui operavo iniziava il primo freddo di quel secondo autunno di lotta. Era la fine di ottobre e, dopo lungo girovagare, una sera, verso le 10, arrivammo nel paesino di…, che già allora era chiamata la “piccola Svizzera della Liguria”.
Eravamo una decina in tutto: tre o quattro del Comando, con sei o sette partigiani sfiniti dalla stanchezza e dalla paura.
Il grosso della nostra Brigata era rimasto nell’altra vallata, quella a ridosso del Piacentino. Ci avrebbero raggiunti la mattina seguente, in prossimità del Passo.
Bussammo a una Colonia che ci avevano segnalato: una bellissima costruzione moderna che si affaccia in alto, a sinistra del paese, tutta luccicante per le vetrate che ne fasciano l’intera perimetria.
Mi avevano informato ch’era abitata da alcune suore con molti bambini.
Nel buio pesto ci aprì una sorella. Madre Ignazia, questo il suo nome, sussultò sbigottita di fronte alla luce fioca di una lampada che lasciava trasparire i nostri volti. Uomini stanchi, con fazzoletti rossi al collo, con le barbe e i capelli lunghi, i caricatori sul petto, le bombe alla cintura e le armi a tracolla non avrebbero offerto tranquillità ad alcuno, in quel periodo…
Ci presentammo a nome del CLN: “Abbiamo bisogno di far riposare i nostri uomini. Siamo stanchi, sfiniti…”. Dapprima Madre Ignazia cercò di dissuaderci: “Siamo completi, ci dispiace, non un solo letto è libero. Non possiamo proprio ospitarvi”.
Poi, impietosita, ci fece accomodare.
La suora aveva una cinquantina d’anni suonati, un bel volto largo, aperto, simpatico, incorniciato da un velo bianco inamidato che glielo ricopriva sino alle gote. Ed una voce chiara, musicale.
Mi presentò alle altre suore, una ventina, in buona parte giovani che, spaventate, erano scese una ad una dalle loro camere. Appartenevano all’Ordine di Santa Marta ed erano sfollate dal loro convento con duecento bambini in tenera età, abbandonati dalle autorità fasciste al loro destino.
Il quadro che mi si presentò, man mano che osservavo, era pietoso e desolante. La Colonia era gelida, le suore avevano freddo e sicuramente i bambini, già a dormire nei loro lettini, saranno stati più intirizziti che mai.
“Non abbiamo di che riscaldare l’edificio”, mi disse la Madre. Poi proseguì narrandomi di come erano state costrette a girare le frazioni della Valle per elemosinare un po’ di pane per aggiungerlo alle poche scorte alimentari che avevano per sfamare i bambini e loro stesse.
Alla fine trovammo riparo, per quella sera, negli scantinati, con qualche materasso recuperato alla bell’e meglio in soffitta.
L’indomani mattina, mi recai nell’ampio refettorio e constatai che le razioni di cibo erano alquanto misere.
“Quando le autorità ci condussero qui – mi raccontò Madre Ignazia – ci avevano promesso che non avremmo dovuto preoccuparci di nulla. Avrebbero pensato loro a non farci mancare niente. Questa è una colonia estiva per i figli dei lavoratori di una grande azienda e vi doveva essere tutta l’attrezzatura per il suo buon funzionamento. Invece non abbiamo trovato neppure le pentole e le posate. Ora eccoci qui, con duecento figlioli di povera gente, alcuni senza genitori, a cui pensare, da sfamare e da vestire”.
Me ne andai con il cuore stretto, pensando a come poter intervenire in quella pietosa situazione.
Intanto la nostra Brigata, attraversata la catena che divide il paese dal Piacentino, si ricongiunse a noi.
I nostri uomini avevano catturato due camion tedeschi lungo la Via Emilia, liberando gli autisti, trattenendo i mezzi e le scorte, soprattutto scatolame di salsa di pomodoro, oltre a quattro-cinque quintali di marmellata.
La visione di quei bambini affamati non ammetteva esitazioni. La decisione fu istantanea e non trovò alcuna resistenza. Tutti i rifornimenti furono trasportati con un carro alla colonia, mentre le suore, meravigliate, ringraziarono la “Provvidenza”.
Fra me e Madre Ignazia si instaurò così un rapporto di simpatia e fiducia.
Il giorno seguente convocai i paesani, con i muli e le slitte. Avevo notato, in un certo punto della strada che dal paese scende verso la vallata, un deposito di alcune tonnellate di legna da ardere, pronta per essere trasportata e venduta nelle città della costa. Indicai il da farsi e, per tutta la giornata, fu un via vai di slitte trainate da muli, stracariche di quella legna, che si trasferirono alla colonia.
Le suore accesero le stufe e tutto, all’interno, si riscaldò. Come per incanto, i bimbi sentirono il tepore e giocarono felici. Per loro era iniziata una nuova vita.
Nei giorni successivi, anche i montanari, seguendo il nostro esempio, fecero a gara per rendersi utili.
Si mobilitarono ancora, con i loro muli, in una cinquantina, superando fatiche e difficoltà, valicando il passo e raggiungendo, accompagnati da una nostra staffetta, la colonia, stanchi ma felici, con 50 quintali di farina di grano.
Madre Ignazia mi confidò le prime impressioni ricevute allorquando ci accolse la prima volta. Con quei fazzoletti rossi al collo e quelle barbe lunghe cosa poteva pensare di noi? Eravamo quelli della guerra di Spagna, quelli che bruciavano le Chiese e violentavano le religiose. Questo, almeno, scriveva la stampa fascista. Questo avevano raccontato di noi.
Ora si trovava davanti degli uomini, soprattutto giovani, che si erano accorti di loro. In mezzo alla guerra che infuriava, col nemico alle calcagna e fra un rastrellamento e un’azione di guerriglia, per settimane ci preoccupammo di far rivivere quella Comunità abbandonata negli stenti.
Un giorno, via radio, ricevemmo l’ordine di predisporre l’arrivo di alcuni lanci di aerei, comunicandoci le coordinate del luogo prescelto.
La vigilia della data stabilita ascoltammo da radio Londra il messaggio in codice: “Paolo e Francesca”, che preannunciava l’arrivo. Il prato riservato al lancio era in una conca non lontana dalla colonia.
All’ora fissata arrivarono gli aerei. Fecero alcune evoluzioni attorno alla zona; quindi, riconosciuto il segnale convenuto disegnato sul prato, iniziarono a passare e ripassare a bassa quota seminando nel cielo tanti piccoli puntini, variopinti ombrelloni che scesero dondolando dolcemente.
A quel punto, dalla terrazza della colonia, si levò un allegro cinguettio di voci: erano i bimbi e le suore radunatisi per salutare la pioggia dal cielo, quasi fosse una festa.
Raccolto il materiale, feci caricare i paracadute di seta, una sessantina, e li inviai alla colonia. Le suore, con tutto quel ben di Dio, cominciarono pazientemente a scucire le tele, recuperando persino il filo con cui erano composte le corde.
Una sera, una staffetta del Comando di Zona giunse in paese con un messaggio di poche righe, col quale mi si informava che era iniziato un rastrellamento di grandi proporzioni nella valle del Piacentino e che un centinaio di partigiani feriti, dell’ospedale di zona, doveva essere evacuato. Sarebbero arrivati con ogni mezzo: a dorso di mulo, con le slitte, a piedi, durante la notte. La nostra Brigata avrebbe provveduto a riceverli.
Che fare? Sembrava impossibile trovare una soluzione così su due piedi. Alla fine pensai di fare un tentativo.
Mi diressi alla colonia, in quella gelida serata. Bussai alla porta e, alla Madre che mi venne ad aprire, porsi il biglietto ricevuto poco prima: “Legga”, le dissi, attendendo in silenzio come se avessi posto una domanda.
“Faremo così. – rispose subito la Madre – Ci sono duecento letti; metteremo due bimbi per ogni letto: uno alla testa e uno ai piedi. In tal modo avremo cento letti per i partigiani feriti che arriveranno stanotte”.
L’avrei abbracciata.
Fu così la colonia diventò anche un ospedale partigiano.
Per tutta la notte ci furono arrivi di feriti, alcuni mutilati, intirizziti dal freddo, stremati dal lungo, estenuante viaggio.
Man mano che giungevano, venivano accolti dalle suore, dissetati e sistemati nei letti messi a disposizione. Le Sorelle divennero tutte infermiere che provvidero ad ogni cosa, dalla cucina alle cure mediche.
Arrivarono le feste di Natale e Madre Ignazia mi pose, con tatto e cautela, il problema della Comunione per i partigiani ammalati.
“Non si preoccupi, Madre – le dissi. – Interroghi ogni partigiano ed esaudisca ogni singolo desiderio. Vedrà che troverà giovani desiderosi di essere comunicati”.
Quindi venne il mio turno.
“Sorella – risposi – potrei benissimo comunicarmi. Per me non significherebbe niente e Lei sarebbe felice. Ma non posso carpire così la sua buona fede”.
Madre Ignazia non si scompose, ma cominciò a pregare: “Ave Maria, gratia plena…”.
Fu allora che, commosso e quasi trascinato da una forza misteriosa, cominciai a ripetere la preghiera che mia madre mi insegnò quand’ero fanciullo: “Ave Maria, gratia plena, Dòminus tècum…”.
La vigilia di Natale una staffetta ci informò dal Comando che il giorno dopo avremmo dovuto lasciare il paese, perché tedeschi e fascisti stavano organizzando un rastrellamento di vaste proporzioni.
Durante la messa di mezzanotte, molti partigiani parteciparono alla funzione religiosa e si comunicarono.
La mattina di Natale salutammo le suore con grande commozione e Madre Ignazia ci benedisse.
Ma prima della nostra partenza, trovammo nel refettorio duecento figlioli tutti vestiti con fiammanti grembiulini: rossi, bianchi e celesti. Erano le stoffe dei paracaduti.
Le sorprese, però, non erano finite. Madre Ignazia ci consegnò uno scatolone con dentro decine e decine di fazzoletti rossi, di quella stoffa setificata da addobbi religiosi. Sulle due punte dei triangoli, ricamate in seta, due stelle a cinque punte con il tricolore d’Italia.
Piansi di gioia… Poi ci separammo.
Ecco, figlia mia, perché ho voluto raccontarti questo episodio.
Quel fazzoletto, che ho sempre conservato da allora e che tu ben conosci, fu confezionato dalle Suore di Santa Marta che avevano lavorato in segreto per chissà quanto tempo!
Quando entrai a Genova liberata, io e tutti gli uomini della mia Brigata portammo al collo un fiammante fazzoletto rosso: quello con la stella a cinque punte e il tricolore ricamati.
Ancora oggi, in questa notte di Natale, mentre lo osservo appeso al muro della mia stanza, mi commuovo al ricordo.
Vedi, figlia mia, in tutti questi anni non sono riuscito a ritrovare la Fede, ma ogni volta che guardo il fazzoletto, il mio pensiero corre a quel Natale del ‘44. E, ogni volta, quasi trascinato da una forza misteriosa, torno a ripetere la preghiera che mi insegnò mia madre: “Ave Maria, gratia plena. Dòminus tècum. Benedicta tu in mulièribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus…”.
Ritrovo così la mia giovinezza e i miei sogni, mentre rivivo le speranze di quei giorni.

Nota dal sito da cui è stata riportata questa lettera: “Questa bellissima lettera fu pubblicata nella mailing di Deportazione mai più. Ringrazio la Signora Primarosa che mi autorizzò la pubblicazione sul sito anpipianoro che gestivo e che ripropongo oggi nel mio blog.” (da http://storiedimenticate.wordpress.com/2014/12/25/quel-natale-del-44-60-anni-dopo-bellissima-lettera-di-un-partigiano-alla-sua-figlia/)

Auguri a tutti i simpatizzanti, iscritti e lettori del sito anpimirano.it

Il Forum Antifascista a Spalato

anpiQuesto è l’ordine del giorno approvato dal Forum Antifascista  all’unanimità a Spalato il 15 novembre dalle delegazioni, greca, albanese, croata, slovena, serba montenegrina e dalle rappresentanze dell’Anpi di Gorizia, Venezia, Macerata, Ancona.

 

Il Forum Permanente delle Associazioni Antifasciste e Partigiane e degli Istituti di storia delle città adriatiche e ioniche, riunito a Spalato il 15 novembre 2014, esprime la sua riconoscenza all’Associazione Croata per l’accoglienza in questa splendida città, che ha celebrato un mese fa il 70mo anniversario della Liberazione dal nazifascismo.

Il Forum non dimentica gli effetti devastanti dell’invasione nazifascista della Jugoslavia, della Grecia e dell’Albania; il Forum non dimentica che Germania ed Italia, scatenando la seconda guerra mondiale, si sono assunti la responsabilità di causare all’umanità quasi 60 milioni di morti.

La II Guerra mondiale fu una tragedia immane, i cui numeri sono terrificanti:

  • 6 milioni di ebrei sterminati nei campi di concentramento

  • 7 milioni di internati

  • migliaia di vittime di orrende stragi, ai quali vanno aggiunte le distruzioni materiali, Paesi e città ridotti alla più completa rovina, cumuli di macerie, popolazioni ridotte alla fame.

Il Forum è profondamente grato ai Liberatori, ai Partigiani, alle Forze alleate che – assieme – contribuirono ad estirpare il fascismo, ed è in particolare profondamente riconoscente al valore della Resistenza slava, che nessuno – ed in nessun modo – può oscurare; non dimenticando il valore della Resistenza Greca, Albanese ed Italiana.

Il Forum respinge fermamente quanti, ancora oggi, gettano fango sulla Resistenza, tentando di riscrivere la storia, inventandosi un «lato buono» del fascismo o cercando responsabilità anche tra i Liberatori.

Il Forum esprime la sua ferma preoccupazione per il «fascismo di ritorno», che si manifesta in Europa con forze che cercano di nascondersi dietro il populismo, macchiandosi di colpe inaccettabili: razzismo e persino antisemitismo. La crisi economica sembra alimentare questi fenomeni; il nemico è quello di sempre: l’ebreo, il nero, il cosiddetto «diverso», l’immigrato.

Forze populiste e di destra fanno proprio l’uso politico della paura, divenendo paladini della legittima richiesta di sicurezza che proviene da tutti i ceti sociali.

È un estremismo che ha crescente popolarità, si organizza – anche a livello internazionale – e fa suo il mito della forza, rifacendosi a Hitler e Mussolini.

Il Forum ricorda che il nazifascisti furono particolarmente violenti con i bambini, i vecchi, le donne, gli omosessuali, i rom; ma ricorda anche quanto furono pavidi e vigliacchi davanti alle vittorie dei Resistenti armati e delle Forze alleate.

Per questo il Forum intende sottolineare il «valore della differenza», l’indiscutibile opposizione tra democrazia e dittatura, che fa della memoria storica la nostra forza.

È da questa consapevolezza che nasce l’Europa, che affonda le sue radici negli ideali antifascisti ed è un’idea della Resistenza. E grande è il ruolo che oggi può e deve svolgere l’Europa, per una politica di pace e di cooperazione, verso una reale stabilità economica, per il rispetto dell’articolo 1 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti».

Nel mondo perdurano guerre, conflitti regionali, terrorismo e fanatismi vari. Il ruolo dell’Europa dovrebbe essere più forte, quello di un’organizzazione che, per la prima volta nella storia del nostro continente, ha garantito 70 anni di pace tra i Paesi che ne fanno parte; potrebbe essere un esempio di coesione sociale e culturale, non solo di mercato.

Il Forum ritiene che l’Europa debba ricominciare ad impegnarsi per una politica di Pace, per il riconoscimento ed il mantenimento dei diritti umani e delle conquiste sociali e del lavoro, non solo all’interno dei propri confini e nei Paesi vicini, ma in ogni parte del Pianeta.

Pianeta che soffre delle contraddizioni della globalizzazione, incapace di gestire e di guidare una mondializzazione che approfondisce i divari invece di colmarli.

L’Europa ha dunque un compito importante, un ruolo nell’applicazione della «Memoria attiva», che blocchi ogni tentativo di negazionismo, per garantire il rispetto della Storia.

Il rispetto che si esprime anche nel non cambiare i nomi delle strade dedicate ai martiri, o nel rifiutare l’intitolazione di strade a criminali di guerra, come succede a Jesolo, dove si onora il Prefetto di Zara nell’epoca fascista. Il rispetto che non può accettare richieste come quella degli esuli istriano– dalmati e italiani, tendente a revocare l’onorificenza conferita al Maresciallo Tito dall’allora Presidente della Repubblica Italiana; il rispetto che non può tollerare sedicenti spettacoli teatrali che diffamano la Resistenza slava.

Il Forum, riunito a Spalato, rilancia l’appello all’unità della cultura e della storia antifascista, nella profonda convinzione che l’Antifascismo, sentinella della Democrazia, potrà nuovamente vincere su ogni tentativo di far riemergere il nazifascismo con la sua forza, le sue radici, l’attenzione alla memoria viva ed attiva.

In ricordo dei caduti della Brigata Martiri di Mirano

Il 30 novembre è stato pubblicato un articolo (“L’inaugurazione a Mirano del monumento ai caduti“) in cui si faceva riferimento ad un opuscolo distribuito durante la manifestazione, contenente le biografie dei partigiani della Brigata “Martiri di Mirano”. Con l’immancabile aiuto di Martino Lazzari siamo venuti in possesso dell’opuscolo in questione: quelle sopra sono le riproduzioni del libretto originale.