Emily e Clorinda, due giovani donne di generazioni diverse, ma vicine, accomunate da un segno di parentela, ma non solo, anche da un’identificazione di ideali e prospettive. Clorinda Menguzzato non aveva ancora vent’anni (li avrebbe compiuti di lì a poco), quando cadde a morte dopo tre giorni di sevizie e torture da parte dei tedeschi, lungo un tornante sulla strada che collega Castello a Pieve Tesino. Era l’ottobre del 1944.
Emily Menguzzato ha trent’anni ed è la nipote di Clorinda, vive a Trieste dove lavora in una cooperativa sociale e si occupa di minori e di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva. “Mio padre mi parlò di questa storia, per la prima volta, in una delle rare occasioni in cui da bambina mi portarono a Castello Tesino”. Emily ha un bel volto, lo sguardo solare, la tensione di chi è aperto alle possibilità. “Avevo circa 7 o 8 anni e, assieme ai miei due fratelli maggiori, entrammo nella casa dei bisnonni. Ci fermammo lungo il corridoio dove era appesa la foto di Clorinda. Papà ci spiegò che quella era la sorella del nonno, uccisa durante la guerra”.
“E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento”…
“Non somiglia un po’ a Emily?”, aveva concluso il babbo in quella circostanza.
“Ricordo – osserva adesso – che quella frase me la fece sentire più vicina”. E’ l’inizio di un percorso di avvicinamento alla storia della sua famiglia paterna, la prima di una serie di tappe che porta Emily alla conoscenza della zia, del perché andò in montagna e si unì ai partigiani, della sua morte quando era giovanissima, dell’incomprensione che è durata a lungo riguardo alle sue scelte coraggiose. E’ per Emily anche un passaggio dalla conoscenza all’empatia, un immedesimarsi amorevole nelle ragioni di quella sua zia che era più giovane di lei quando si trovò davanti a difficili strade da percorrere, a ostacoli da oltrepassare. Scopre che “Veglia” era stata torturata e violentata dai tedeschi durante gli interrogatori perché facesse i nomi degli altri partigiani, ma lei non parlò; che ciò le è valso di essere insignita – fra le pochissime donne della Resistenza – della Medaglia d’Oro al Valor militare. La storia di quella sua zia rimane però per la nipote solo “una storia”, nonostante senta forte il valore simbolico anche quando comincia a parlarne con i ragazzi con cui lavora.
Poi, circa un anno fa, qualcosa cambia nel senso di una ancora maggiore consapevolezza. “Ero in viaggio per un corso di formazione per operatori della giustizia minorile – racconta Emily -; si parlava di valori e democrazia ed erano presenti parenti di vittime di mafia. Di colpo la vita di Clorinda ha smesso di essere una storia ed è diventata una realtà”. Emily comincia così a pensare a lei in altri termini, sotto altre sembianze: non era più solo l’eroina di famiglia. “Era una ragazza giovanissima che mi sembrava di conoscere e che, per stare dalla parte più difficile e scomoda, aveva dato la vita sacrificando il suo futuro e la possibilità di essere moglie e madre”. Comincia a guardare a quella lontana vicenda molto più da vicino. “E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento. Sapevo della sua morte, ma solo allora ho provato un forte dolore”.
Emily sente di esserle grata non solo per il suo contributo alla costruzione della nuova democrazia nata dalle fatiche e dai sacrifici della Resistenza, ma è conscia che senza il suo silenzio mantenuto sotto tortura probabilmente suo nonno Rodolfo (nome di battaglia “Menefrego) sarebbe stato catturato e ucciso, suo padre non sarebbe nato e nemmeno lei. “Sentivo che in qualche modo le dovevo anche la vita!”. E il pensiero di Emily va a suo nonno, che insieme alla sorella Clorinda fu parte attiva del battaglione Gherlenda, lassù tra gli aspri declivi di Costabrunella. A lui, premiato poi con una croce al merito di guerra. “A lui, che si tenne questo dolore per sé per tutta la vita”.
E’ così che in questa giovane donna trentenne nasce il bisogno fortissimo di mettersi sulle tracce di Clorinda, di conoscere la sua storia fino in fondo, di leggere tutto ciò che è stato scritto su di lei e di parlare con chi l’ha conosciuta. Vuole prendersi tutto il tempo necessario per conoscere e vivere con calma i luoghi e i posti che sono stati significativi per sua zia Clorinda, la casa, le strade, i vicoli, l’aria che si respira nel paese nelle ore più solitarie del giorno. Un posto in qualche modo magico, un luogo dove coltivare la memoria. “Fare in modo che la sua memoria sia preservata – ha pensato Emily – è il minimo che io possa fare”. E questo viene tradotto nel suo lavoro quotidiano. “Spesso, parlando con i ragazzi di giustizia e libertà si sente la necessità di fornire loro esempi positivi. Don Ciotti dice che la memoria deve trasformarsi in impegno per mantenere vivi gli insegnamenti che le vittime delle ingiustizie sociali ci hanno lasciato. Fare memoria non deve limitarsi a ‘celebrare’ ma deve tradursi in azioni concrete nel nostro quotidiano”. Solo così Clorinda, Ancilla – “Ora”, l’amica staffetta partigiana pure lei trucidata dai nazisti – e gli altri non sono morti invano. (da http://www.vitatrentina.it)
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18 giugno 1944: Repubblica Partigiana di Montefiorino
Il 18 giugno dell’estate del ’44, la prima «bozza» di repubblica italiana democratica e antifascista nacque tra le montagne dell’Appennino reggiano e modenese. La storia ci tramanda quell’esperienza come la Repubblica di Montefiorino, dal nome della sua «capitale». Un territorio di 600 chilometri quadrati, con 50mila abitanti e paesi importanti come Carpineti, Ligonchio, Toano, Villa Minozzo. Esperienza eroica, creata dai partigiani e sostenuta dalle popolazioni, contro cui si scatenò la furia tedesca e dei fascisti repubblichini di Salò. Montefiorino cadde, ma il seme della democrazia dopo ventidue anni di dittatura era ormai gettato.
Dopo la sconfitta tedesca a Cassino e la liberazione di Roma da parte degli alleati (4 giugno 1944), il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (Clnai) lancia un appello per un’offensiva generale: l’indicazione è quella di creare in zone liberate vere forme di governo amministrativo. In questo appello si legge che bisogna «assumere la direzione della cosa pubblica, di assicurare in via provvisoria le prime urgenti misure di emergenza per quanto riguarda la prosecuzione della guerra di liberazione, l’ordine pubblico, la produzione, gli approvvigionamenti, i servizi pubblici e amministrativi».
La Repubblica di Montefiorino è stata la prima in Italia ad alzare la bandiera della democrazia dopo oltre vent’anni di regime fascista.
In quei 600 chilometri quadrati a cavallo dell’Appennino modenese e reggiano si respira un’aria diversa nell’estate del ’44. Qualche mese prima il movimento partigiano, già attivo nella pianura, ha cominciato ad estendersi verso la montagna. A formare i primi nuclei di combattenti sono giovani renitenti alla leva che trovano punti di riferimento in alcuni anziani antifascisti e in parroci.
I primi scontri fra opposte fazioni nascono per impedire il rastrellamento di renitenti e tra il febbraio e il marzo i partigiani compiono una serie di azioni importanti.
La risposta tedesca è spietata: il 18 marzo 1944 nazisti e militi fascisti della repubblica di Salò compiono nel Modenese la strage di Monchio, Susano e Costrignano durante la quale vengono trucidati 136 civili.
A pochi chilometri di distanza a Cervarolo, nel Reggiano, vengono uccise 24 persone.
Nei mesi successivi le forze partigiane, sempre più organizzate, sconfiggono tutti i presidi delle guardie nazionali repubblicane e il 18 giugno cade l’ultimo, quello più importante della zona: il presidio di Montefiorino. Nasce così la Repubblica Partigiana e pochi giorni dopo i capofamiglia scelgono i membri delle giunte amministrative attraverso una vera forma di partecipazione democratica.
Uno dei primi impegni delle giunte è quello di ristabilire un rapporto diverso e più equo con le categorie produttrici, i contadini innanzitutto, coinvolgendoli in una soddisfacente politica dei prezzi.
La Repubblica di Montefiorino viene attaccata già nelle settimane successive alla sua nascita, a causa della sua posizione strategica nelle immediate retrovie della linea Gotica, contro la quale si è spenta l’avanzata delle colonne angloamericane. Intanto a Montefiorino arrivano dalla pianura alcune migliaia di giovani partigiani.
L’offensiva tedesca vera e propria contro questo vero e proprio primo esperimento di vita pubblica democratica, ha inizio il 29 luglio lungo tre diretrici principali e con l’impiego di circa cinquemila soldati: da nord lungo il Secchia e la strada delle Radici; da ovest contro Carpineti e Villa Minozzo; da sud contro Sant’Anna Pelago, Ligonchio e Piandelagotti.
L’operazione può considerarsi conclusa il 6 agosto, ma il grosso grosso delle formazioni partigiane ha cominciato a sganciarsi il 31 luglio ripiegando nell’alta valle del Panaro. La Repubblica vive una sospensione a partire dal primo agosto.
Ma la Resistenza non è per nulla annientata com’era nell’intenzione dei tedeschi che si vendicano rabbiosamente prendendo a cannonate e bruciando alcuni paesi della Repubblica, come avviene a Villa Minozzo e Toano. A partire da ottobre le giunte popolari riprendono però a funzionare e nasce il comitato di liberazione nazionale della montagna. Il seme della libertà ha ripreso a germogliare.
Un protagonista di quei giorni: Torquato Bignami
Il museo della Repubblica Partigiana di Montefiorino
Turchia, Piazza Taskim
Istanbul, concerto Piazza Taksim, il concerto di pianoforte continua, ed appena il pianista turco Yiğit Özatalay, supportato dal collega Davide Martello, intona “Bella Ciao”, la folla estasiata lo accompagna con le parole. “Bella Ciao” ha una versione turca e negli ultimi anni è diventata simbolo della resistenza, della lotta per i propri diritti e la libertà.
13-14 giugno 1944: 83 minatori uccisi a Niccioleta e a Castelnuovo Val di Cecina
“Il 14 giugno 1944 ottantatre minatori, fra i quali venticinque miei compaesani per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo in Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Sento che devo essere degno di loro, che la mia cultura non mi deve staccare da loro, che anzi accresce le mie responsabilità di solidarietà con il mondo.” Padre Ernesto Balducci
Niccioleta nel 1944, era abitata da 150 famiglie di minatori che provenivano da Massa Marittima, Santa Fiora, Castell’Azzara, Abbadia San Salvatore, Selvena e che lavoravano in una miniera di pirite di ferro. La miniera era gestita dalla ditta Montecatini e aveva come responsabile il direttore Ubaldino Mori, coadiuvato dal vice direttore ing. Boekling, dal segretario dott. Lavato e dall’addetto alle ricerche geofisiche ing. Ferrari: essi erano ritenuti filotedeschi. Il direttore, infatti era un fervente fascista, che dopo il 25 luglio aveva cambiato l’atteggiamento e dall’8 settembre era in contatto col movimento partigiano. Tra gli operai di Niccioleta, vi erano sedici famiglie di fascisti, che non avevano rapporti con gli altri minatori e che sembravano inoffensivi, invece covavano un pensiero fisso, quello di vendicarsi. Vendicarsi, ma di che cosa?? Questi operai, si recavano spesso al comando tedesco, dicendo che il paese era quasi tutto antifascista e che la popolazione stava cercando di attuare un piano per ribellarsi all’oppressione tedesca. In realtà tutto ciò non accadeva, perchè le preoccupazioni della gente di Niccioleta erano quelle di tutelare esclusivamente il posto di lavoro e non avevano nessuna velleità nè nei confronti di chi era al comando, nè contro questi compaesani fascisti. Infatti, quando il paese il 25 luglio festeggiò la caduta del fascismo, nessuno torse loro un capello.
La prima avvisaglia, però di ciò che sarebbe accaduto, si ebbe il 5 giugno quando dei soldati tedeschi, si recarono alla direzione della miniera dicendo che alcuni operai si manifestavano antifascisti e che aiutavano i partigiani. I militari, allora, tirarono fuori una lista con alcuni nomi di persone sospette, che a loro avviso dovevano essere ìnterrogate. Solo tre operai appartenenti a quell’elenco, furono condotti dal comandante tedesco che disse loro di cambiare atteggiamento altrimenti sarebbero intervenuti con maniere forti. Dal 9 al 12 giugno, un gruppo di partigiani entrò in paese e disarmò la guardia repubblicana; perquisirono le case dei fascisti ma non compirono atti di violenza nei loro confronti. Fecero anche sventolare una bandiera bianca per non far bombardare Niccioleta dagli aerei alleati. I partigiani, dopo qualche giorno andarono via consigliando agli operai di stilare una lista di nomi per cominciare a fare dei turni di guardia alla miniera, temendo che i tedeschi ormai allo sbando sabotasscro gli impianti. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, dei reparti di SS. e fascisti, arrivarono silenziosamente ai piedi del paese. Le sentinelle della miniera, tra le quali c’era anche il figlio del direttore, si diedero alla fuga non potendo avvertire nessuno. I membri del comitato dei minatori, fecero appena in tempo a nascondere nel rifugio antiaereo alcuni fucili da caccia, assieme al famoso elenco con i nomi delle persone addette a fare la guardia. Fu forse questo l’errore che causò poi la tragedia.
I fascisti e i tedeschi, che intanto avevano fatto irruzione nel paese, fecero uscire gli uomini in strada e chiusero le donne e i bambini in casa sprangando porte e finestre. Dopo alcune ricerche, furono trovate le armi e con loro la lista; gli operai furono radunati in massa nella piazzetta e inziò così l’interrogatorio; nel frattempo alcuni miliziani controllavano nelle abitazioni sperando di trovare qualcosa di compromettente. Mentre il paese veniva rovistato in lungo e in largo, sei operai tra i quali Ettore Sargentoni con i figli Aldo e Alizzardo e Bruno Barabissi, tutti selvignani, vennero portati nella sala del dopolavoro e qui, tra una domanda e l’altra, furono picchiati selvaggiamente a causa delle risposte evasive che essi davano. Il Barabissi fu visto uscire barcollante e mentre veniva sospinto verso il muro di una casa, implorava pietà. In quel momento uno sparo di mitra gli sfiorò la testa; avevano così voluto intimorirlo. Fu riportato dentro alla sala, assieme agli altri e qui continuarono le percosse. Dopo un pò il Sargentoni con uno dei suoi figli e un altro operaio di nome Antimo Chigi furono trascinati fuori; vennero portati in un cortile dove con alcuni colpi di arma da fuoco vennero massacrati. Toccò poi al Barabissi e a Rinaldo Baffetti, che alla vista dei tre cadaveri cominciarono a gridare, finchè, colpiti dai proiettili caddero a terra in una pozza di sangue. L’ultimo fu Alizzardo, che quando vide quella scena, si gettò sopra il padre ed il fratello abbracciandoli teneramente, ma anche lui non fu risparmiato. Gli altri operai rimasti, prima di partire per Castelnuovo Val di Cecina, dove loro credevano che da lì sarebbero stati deportati in Germania, ebbero l’occasione di rivedere per l’ultima volta i familiari che portarono loro degli effetti personali. Un gruppo di uomini sopra i cinquant’anni fu liberato e rispedito a casa; gli altri, i settantasette rimasti, con un età che oscillava tra i venti e i quarant’anni, alle 21,30 si incamminarono verso Castelnuovo dove arrivarono all’1,OO. Furono portati dentro alla sala cinematografica e vennero sorvegliati a vista, In quel luogo le ore passavano lente, c’era chi non resse alla stanchezza e si addormentò, mentre la maggior parte di essi rimasero svegli aspettando con trepidazione la sorte che sarebbe loro toccata.
Il giorno dopo i minatori restarono dentro alla sala, senza che fosse data loro alcuna notizia, fino al tramonto quando furono portati verso la strada che va a Larderello. Dopo aver percorso un chilometro il corteo fu deviato in una stradina che scendeva verso i soffioni di Castelnuovo. Alle 19,30 arrivarono nel luogo dove sarebbe avvenuto l’eccidio, un posto tetro, vicino a quei soffioni ululanti, che coprivano qualsiasi tipo di rumore, anche le poche parole che quei “disgraziati” cercavano di scambiarsi. I tedeschi li divisero in tre gruppi, il primo dei quali fu fatto incamminare verso un sentiero che costeggiava un burrone e dopo una svolta a destra quegli uomini furono falciati dai colpi delle mitragliatrici ben posizionate e nascoste dalle fascine. Anche il secondo gruppo fece la stessa fine, mentre l’ultimo, composto dai più giovani, fu fatto passare dalla parte opposta della strada. I ragazzi quando videro i loro familiari e gli amici in fondo al burrone coperti di sangue, tentarono la fuga, ma non riuscirono che a fare pochi passi cadendo nel precipizio sopra gli altri. Un contadino che abitava lì vicino, vide tutta la scena e raccontò che alcuni fascisti scesero in fondo al dirupo e dopo aver rubato le misere cose che i minatori avevano addosso, per sicurezza gli spararono ancora un colpo di pistola alla testa. La popolazione di Castelnuovo avvertita dell’eccidio che si era compiuto accorse sul luogo, trovando una scena veramente macraba: 77 operai uccisi barbaramente. Gli stessi abitanti, riuscirono a portare con grande difficoltà quei corpi straziati e già in stato di avanzata decomposizione (dovuta al caldo e al calore dei soffioni), in un luogo vicino al paese e qui li seppellirono. In seguito, quando fu possibile, i corpi furono portati nei luoghi di provenienza, grazie anche allintervento della ditta Montecatini.
Per quell’eccidio solo pochissime persone hanno pagato, si parla di tre fascisti che scontarono una pena di trenta anni; troppo poco per 83 vittime innocenti. (http://selvena.altervista.org)
Guerra di Liberazione e non guerra civile
Nino De Marchi “Rolando”, classe 1920, della Divisione Garibaldi “Nino Nannetti”, intervenuto alla manifestazione di Vidor del 2 giugno 2013, ha ribadito con forza queste parole:
“Non voglio fare discorsi, voglio semplicemente dirvi questo: quando sentite parlare di “guerra civile” rispondete che la nostra è una Guerra di Liberazione e basta!!!”
Quando si parla di guerra civile deve esistere il presupposto che entrambe le parti in conflitto si riconoscessero come parte dello stesso stato o della stessa nazione. Non c’è dubbio che una delle due parti in conflitto aveva deciso, tradendo il proprio paese, di riconoscersi in un altro stato e nelle ragioni di un’altra nazione. In una sentenza contro alcuni appartenenti della legione Tagliamento emessa dal tribunale militare di Milano il 28 agosto 1952, i giudici spiegano in modo chiaro come poteva essere inquadrata la Rsi:
“Non essendo sorta la Rsi da una norma giuridica che la riconoscesse come leggittimo successore del governo italiano, e contemporaneamente non avendo i requisisti del governo di fatto insurrezionale, devesi concludere ch’essa consistette in un ente alle dipendenze dell’occupante germanico, il quale volta a volta riconosceva ad esso determinati poteri nei limiti dall’occupante consentiti, che comunque, secondo l’ordinamento internazionale, non potevano andare oltre i poteri dello stesso occupante…per questo la Rsi deve essere ritenuta come un’associazione o organismo senza veste giuridica, posto in essere da cittadini italiani onde combattere contro lo Stato italiano, onde alla stessa Rsi non può essere riconosciuta leggitimità alcuna, nè ai suoi atti, nè agli ordini delle autorità da esse costituite; tali ordini e tali atti, oltre a non avere rilevanza giuridica, hanno indubbi requisiti di antigiuridicità”
Chi parla di guerra civile vuole far intendere che, essendo i protagonisti delle due parti cittadini italiani e tutti in buona fede nel sostenere i propri ideali (senza spiegare con chiarezza quali erano gli “ideali” fascisti e non ammettendo che non erano per niente equiparabili a quelli antifascisti) bisognerebbe stabilire una memoria condivisa dalla quale i fascisti e i reduci di Salò dovrebbero trarre nuova leggitimazione; peccato che, proprio la storia repubblicana di questi 70 anni, dimostra come una delle parti non intende affatto riconoscersi nella Repubblica e nella Costituzione nata dalla Resistenza. Anche in Francia c’è stata una Guerra di Liberazione e anche lì c’era un regime fantoccio (Vichy), ma nessuno in quel paese si sogna di etichettare come “guerra civile” la lotta combattuta contro dei francesi che avevano tradito la nazione e come traditori sono stati perseguiti con ben maggiore durezza che nel nostro paese. In Italia dal ’43 al ’45 c’è stata una Guerra di Liberazione e basta, come dice “Rolando” e bisogna ribadirlo sempre, in tutte le occasioni e in tutte le sedi, come fanno i nostri ultimi testimoni che hanno vissuto sulla loro pelle la lotta per liberare l’Italia dai nazisti e dai fascisti traditori.
Le foto dell’incontro di Vidor con i partigiani della provincia di Treviso: http://imgur.com/a/lti3G
Felice Casson: sospendere l’acquisto degli F-35
“Sospendere immediatamente la partecipazione italiana al programma sugli F-35 e procedere, in prospettiva europea, ad una visione strategica della politica di difesa destinando le somme risparmiate ad investimenti pubblici riguardanti la tutela del territorio nazionale dal rischio idrogeologico, la tutela dei posti di lavoro, la sicurezza dei lavoratori”. È quanto chiede Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, con una mozione firmata da altri 17 senatori Pd.
“Non esiste a tutt’oggi alcun impegno all’acquisto di questi velivoli – spiega – e non c’è alcun contratto firmato e tantomeno alcuna penale. Peraltro i Governi francese e tedesco negli ultimi mesi hanno piu’ volte cercato di coinvolgere i piu’ importanti Paesi europei al fine di sviluppare insieme attivita’ industriali in questo settore considerando il fatto che nel settore aeronautico il consorzio Eurofighter è in grado di produrre un velivolo assolutamente competitivo”.
“Rivedere queste scelte – aggiunge Casson – appare quantomeno sensato e congruo rispetto all’attuale situazione economica e finanziaria del Paese e va inoltre rilevato che al momento si sono ritirati o hanno sospeso la loro partecipazione al programma i seguenti Paesi: Norvegia, Olanda, Australia, Turchia, Danimarca e Canada. La Gran Bretagna ha falcidiato le previsioni di spesa (ne doveva comprare circa 130, oggi ne conferma solo 20); persino gli Usa stanno valutando l’annullamento della versione B, a decollo corto e atterraggio verticale, che interessava la nostra Marina”. “La nuova normativa e le nuove procedure adottate – conclude Casson – consentono di ripensare qualunque programma e attribuiscono al Parlamento un ruolo decisivo, di cui il Parlamento stesso deve fare oculato e motivato uso, soprattutto in presenza di tagli ai vari settori della vita pubblica, che sono continui e pesanti, mentre i costi per il programma F-35, circa 12 miliardi, appaiono francamente esorbitanti e fuori luogo”.
Festa della Repubblica: Lettera al Presidente Napolitano, no alla parata militare
Egregio Presidente,
nell’avvicinarsi della celebrazione della Festa della Repubblica, il prossimo 2 giugno ci permettiamo di scriverle ancora una volta per sollecitare e valorizzare un’altra forma di celebrazione, che non associ simbolicamente la nostra Repubblica alla sola forza militare.
Noi crediamo che celebrare la Festa della Repubblica sia anche e soprattutto il valorizzare le tante storie di chi ogni giorno si impegna per il bene del nostro paese, lavorando per la coesione sociale, costruendo storie di pace, di giustizia, di solidarietà.
Una scelta che esprime la volontà e le energie che il nostro Paese è in grado di mettere in campo e che prende le mosse dalla nostra Carta Costituzionale, scritta subito dopo il flagello del secondo conflitto mondiale e proprio per questo tesa al ripudio della guerra stessa. La stessa Costituzione ci indica come fondamento della nostra Repubblica sia la forza del lavoro, e non delle armi. Un lavoro che in questa fase di crisi manca a molti nostri concittadini e concittadine e che quindi è ancora più da valorizzare e celebrare. Perché sul lavoro si fonda il nostro vivere comune.
Noi desideriamo che si riportino al centro i valori fondanti della nostra Repubblica, rappresentati da quelle categorie sociali (vere e proprie forze vive dell’Italia) che hanno davvero il pieno diritto di essere celebrate in occasione del 2 giugno: le forze del lavoro, i sindacati, i gruppi delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile.
In particolare questi ultimi sono ai nostri occhi elementi importanti da celebrare, come simbolo di chi quotidianamente permette al nostro Paese di andare avanti favorendo la coesione sociale e il supporto a quei diritti e servizi senza i quali non si può parlare di vera cittadinanza. Senza dimenticare – poi – che il Servizio Civile oggi è l’unico parziale elemento che riesce a concretizzare quella difesa “non armata” della Patria (prevista del nostro ordinamento) che costituisce una strada innovativa e a noi cara di assolvere al dovere previsto dalla nostra Costituzione all’articolo 52 (Lo ha ribadito in più occasioni anche la Corte Costituzionale).
E quindi tutte le realtà del mondo del Servizio Civile, come negli anni passati, vogliono partecipare a questi festeggiamenti, ricordando il valore della Pace, l’impegno per la giustizia, la ricerca del dialogo, la pratica della nonviolenza soprattutto in questo momento di crisi dove le povertà, le disuguaglianze e le ingiustizie sembrano frantumare ed aumentare la disgregazione sociale sia nel nostro paese che nel resto del mondo.
A 40 anni dalla legge 772 è importante non disperdere – soprattutto nell’attuale momento storico – il patrimonio dell’obiezione di coscienza e della nonviolenza riproponendolo in forme rinnovate e ribadire il valore dell’esperienza di servizio civile nazionale come pratica di costruzione della pace, di rispetto della dignità umana, di riconciliazione pacifica, di ricucitura del tessuto sociale ed umano, pratica di cittadinanza.
Vogliamo festeggiare la festa della Repubblica per riaffermare che solo attraverso l’impegno di tanti si può costruire un paese coeso e solidale, dove la pace è declinata nei tanti piccoli gesti di responsabilità, disponibilità, di dialogo, di ricerca delle ragioni dello stare insieme.
Per tutte queste motivazioni a Lei Presidente della Repubblica chiediamo, viste anche le attuali necessità di sobrietà, di festeggiare la nostra Repubblica senza spendere un euro, valorizzando l’impegno quotidiano di giovani ed enti che al di là della retorica e delle manifestazioni pubbliche sanno calarsi dentro le ferite dei nostri territori e delle nostre comunità e costruire storie di speranza, libertà e democrazia.
Da parte nostra ci impegniamo a rendere vivo il 2 giugno su tutti i territori in cui le nostre realtà sono presenti, per celebrare nelle nostre sedi e con le nostre attività l’Italia che “ripudia la guerra”: apriremo le nostre porte nello spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione. Un passaggio importante anche per cambiare i simboli (che sono rilevanti per il vivere comune) legati a questa che non è la Festa delle Forze Armate ma di tutta la Repubblica.
E cercheremo inoltre di valorizzare le storie di tanti giovani che hanno scelto di mettersi al servizio del bene comune, dei nostri territori e delle nostre comunità. Giovani che dal sud al nord del nostro paese, in ambiti diversi d’intervento, testimoniano con vivacità ed entusiasmo una voglia di mettersi in gioco e di rendersi protagonisti che riteniamo preziosa per il presente e il futuro di questa nostra Patria.
Il 2 giugno dunque – e sarebbe importante un Suo Patrocinio a riguardo – le nostre organizzazioni terranno aperte le proprie sedi in tutta Italia per incontrare i cittadini mentre i giovani in servizio civile nazionale si recheranno nei Comuni colpiti dal terremoto emiliano del Maggio 2012. Un modo aperto per testimoniare il contributo concreto che il Servizio Civile nazionale porta alla coesione sociale e alla difesa del Paese.
Infine, diversi di noi si ritroveranno in quella giornata a Roma per festeggiare la Repubblica con le categorie già prima ricordate: le forze del lavoro, i sindacati, i gruppi delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri…
Ci piacerebbe poterLa incontrare, per condividere anzitutto con Lei questo grande abbraccio all’Italia che tutti vogliamo dare.
Rete Italiana per il Disarmo – Controllarmi Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile – CNESC Forum Nazionale per il Servizio Civile – FNSC Tavolo Interventi Civili di Pace – ICP Campagna Sbilanciamoci e altre 100 associazioni di volontariato
CasaPound, fascisti del 5×1000
Fra il 2010 e il 2011 i sedicenti fascisti del terzo millennio, quelli di CasaPound, riceveranno oltre 41 mila euro del 5 per mille come si legge dalle liste dell’Agenzia delle Entrate: 27 mila è la somma indicata dagli ultimi dati diffusi – del 2011 – frutto della libera scelta fatta davanti al commercialista da un migliaio di italiani (il totale si aggira tecnicamente sui 25 mila, cifra alla quale si vanno poi ad aggiungere altri 1800 euro “in dote”, cioè la porzione ridistribuita proporzionalmente per settore, a pioggia, dal meccanismo).
Non è ancora dato sapere quanto prenderanno per il 2012, ma già si preparano alla loro quarta tornata consecutiva, il 2013. Nel frattempo gli altri 14 mila euro, datati 2010, sono arrivati a destinazione. Con i complimenti dello Stato italiano, che finanzia così de facto un partito che si richiama esplicitamente all’esperienza fascista.
Nonostante il fatto che ai partiti il 5 per mille non spetti. Perché CasaPound è, sì, un’associazione di promozione sociale, ma è principalmente un movimento e un partito politico: sta facendo campagna elettorale per un proprio sindaco alle comunali di Roma – Simone Di Stefano, già candidato governatore del Lazio – mentre alle scorse elezioni nazionali aveva provato a entrare in Parlamento.
E la legge parla chiaro: “Non si considerano in ogni caso ONLUS […] i partiti e i movimenti politici”. Lo stabilisce la cosiddetta “Legge Zamagni”, cioè il decreto legislativo 460 del 1997, all’articolo 10. Lo stesso Stefano Zamagni, ex presidente dell’Agenzia per le Onlus spenta da Mario Monti, interpellato dall’HuffPost conferma quest’interpretazione: “Niente partiti nel 5 per mille”. Inoltre, in nessuna riga del Decreto del Presidente del Consiglio del 23 aprile 2010, che aggiorna i parametri per l’accesso al 5 per mille, e al suo ricco bouquet di sgravi fiscali (criteri confermati anche l’anno seguente) si fa menzione di un’inclusione dei partiti fra i soggetti destinatari. Eccezion fatta per le cosiddette fondazioni politiche, che sono però un animale ben diverso.
Anche per questo, sfogliando gli elenchi del volontariato che attinge a questi soldi pubblici, proprio non ti aspetteresti d’incappare in CasaPound. Pregiudizio vuole, d’altronde, che parlando di organizzazioni di utilità sociale il pensiero corra più facilmente al mondo dell’associazionismo, della ricerca o della spiritualità, che a un gruppo dell’estrema destra italiana (per quanto sociale). E in effetti “CasaPound Italia”, nelle oltre ottocento pagine delle liste del 5 per mille, formalmente non ce la trovi, neppure a cercarla con il lanternino: né scritta con la “u” italiana, né con la “v” latina. Ciò che vedi, piuttosto, è una società cooperativa onlus a responsabilità limitata: “L’isola delle tartarughe”. Nome che – per chi non ha familiarità con la testuggine ottagonale del logo casapoundiano – potrebbe sembrare soltanto una delle innumerevoli associazioni animaliste dedicate al panda di turno.
Allora che cos’è veramente, questa mitica Isola delle Tartarughe? Il cosiddetto codice “Ateco” con cui è registrata (93299) indica “altre attività di intrattenimento e di divertimento”. Cioè nello specifico: sagre, mostre, animazione di feste e villaggi, ludoteche, marionette, fuochi d’artificio e stand di tiro a segno. Ma sfogliando un’aggiornata visura camerale, l’oggetto sociale della cooperativa lievita alla lunghezza monstre di sei pagine. Per prendersi cura degli emarginati – dagli ex degenti di istituti psichiatrici ai tossicodipendenti – i mezzi sono infiniti: dalla raccolta differenziata alla tutela delle arti, dalla consegna pacchi alla vendita di pezzi di ricambio per auto. Tutto ciò, con due (2) dipendenti.
Non è chiaro che cosa c’entri questo con CasaPound Italia. Sul sito, se cerchi le parole “isola delle tartarughe”, ti si risponde pacatamente: “Nessun post corrispondente alla query”. Il legame però salta facilmente agli occhi: in apertura della loro homepage campeggia a caratteri cubitali la scritta “5×1000 A CASAPOUND”, e il codice fiscale riportato in bella vista sotto la scritta – cioè 09301381001 – non lascia spazio a dubbi: è quello dell’Isola delle tartarughe (del resto neanche per una tartaruga un codice fiscale può fare riferimento a due soggetti diversi).
La parentela fra le due testuggini l’avevano già fatta notare due senatori democratici della scorsa legislatura, Francesco Ferrante e Roberto Della Seta, i quali – incuriositi dalla vicenda di un casale “regalato” da Gianni Alemanno alla cooperativa in questione – in aula illustravano quanto segue: “La cooperativa ‘Isola delle tartarughe onlus’ a quanto consta agli interroganti è chiaramente riconducibile a CasaPound: Paolo Sebastianelli [l’amministratore unico, ndr] è uno stretto collaboratore del leader di CasaPound Gianluca Iannone”.
Allora come ci sono finiti negli elenchi del 5 per mille – seppure sotto altro nome – i “fascisti del terzo millennio”, e per quattro anni di seguito? La responsabilità della scelta non è dell’Agenzia delle Entrate: le cooperative sociali, infatti, una volta iscritte nell’albo tenuto dal Ministero dello sviluppo economico, diventano in gergo “onlus di diritto”. E dunque – quando ne fanno richiesta – vengono automaticamente incluse negli elenchi.
Non è dato sapere come e perché sotto l’ultimo governo Berlusconi il Mise abbia spalancato ai casapoundiani le proprie porte. Ma il risultato è che queste tartarughe sono oggi tutt’altro che in estinzione. Con quei 27.352,61 euro che gli arriveranno per il 2011, non solo raddoppiano il raccolto da un anno all’altro – senza dubbio segno del crescente successo dei fascisti ispirati allo scrittore americano Ezra Pound – ma balzano fulminee dal 2390esimo a un decorosissimo posto numero 1009 fra i più premiati dagli italici contribuenti. Subito sopra tanti altri nomi più immediatamente riconoscibili, come Soccorso degli Alpini e Fondazione Intesa San Paolo (rispettivamente poco più e poco meno di 26 mila euro), e dando uno stacco enorme ad altre, come la Fondazione Teatro la Fenice (16 mila e rotti).
“CasaPound Italia opera dal 2008 nel sociale, nel volontariato, nello sport, nella politica al servizio dei cittadini senza alcun finanziamento pubblico” – si legge sul loro sito di raccolta fondi – Hai l’opportunità di sostenerla in una campagna elettorale che sarà completamente autofinanziata”. Restano da capire due cose: il 5 per mille conta come finanziamento pubblico a un partito? E la testuggine, in questo caso, non somiglia più a un camaleonte? (http://www.huffingtonpost.it)
Firenze: i fascisti buttati fuori dall’università
Questa mattina, al Polo universitario di Novoli, i neofascisti di Casaggì, avevano allestito un banchetto per la campagna elettorale in vista delle elezioni universitarie. Contestati e allontanati dagli studenti dei collettivi. Arriva la Digos.. e identifica gli antifascisti.
Qui di seguito il comunicato degli studenti del polo universitario di Novoli:
Come sempre il teatrino elettorale universitario attira gli animali più bizzarri della città. Casaggì, centro sociale di destra, approfittando della candidatura di alcuni suoi militanti nella lista Centrodestra per l’università (quindi con Studenti per le libertà e Azione universitaria), si è presentata questa mattina al polo delle scienze sociali con volantini di propaganda fascista. Novoli però ha dimostrato ancora una volta di essere antifascista. Decine di studenti e studentesse hanno letteralmente cacciato fuori dalla facoltà i provocatori neri. Di questo infatti si è trattato, di una risposta alla provocazione di alcuni soggetti esterni all’università. Questi sono stati invitati ad andarsene ma hanno assunto un atteggiamento strafottente e rissoso (attrezzandosi anche con tirapugni). A questo punto studenti dei collettivi e altri studenti antifascisti li hanno costretti ad interrompere il volantinaggio.
Li abbiamo buttati fuori, ma non si è trattato di una guerra tra bande né di un atto antidemocratico. Non possiamo accettare la provocazione di un gruppo dichiaratamente e orgogliosamente FASCISTA, che si nutre della nostalgia del ventennio, che fomenta l’odio, che ospita nella propria sede ex terroristi neri di Terza posizione e dei Nar (vedi Adinolfi e Merlino, coinvolti rispettivamente nelle stragi di Bologna e Piazza Fontana) e che imbratta la città con croci celtiche, orrendi manifesti e inutili adesivi. Ci ripugnano le loro commemorazione dei franchi tiratori, cecchini che sparavano sui civili per coprire la ritirata nazifascista durante la liberazione, dei macellai della repubblica di salò e i loro insulti ai partigiani. Tutto questo in una città medaglia d’oro per la resistenza come Firenze è inaccettabile. Ogni giorno sentiamo di aggressioni squadriste in molte città italiane contro migranti, attivisti dei movimenti sociali e studenteschi, o durante le assemblee di istituto nelle scuole (la stessa Firenze è stata recentemente teatro dell’ omicidio di due ragazzi senegalesi in Piazza Dalmazia ad opera di un militante di Casapound). Aggressioni che ormai si verificano anche sui posti di lavoro contro i picchetti dei lavoratori in sciopero (vedi Modena, Basiano, ecc).
Per questi motivi riteniamo giusto, legittimo e anche necessario negare ogni spazio di agibilità politica in facoltà come in città a chi fomenta la guerra tra poveri e predica l’odio e la violenza. Questa idea non è portata avanti solo dai militanti dei collettivi ma da un fronte ben più ampio.. e i fatti di oggi lo hanno dimostrato!
Novoli è antifascista!
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
Student* antifascist*
Fonte: contropiano.org
Questi sono i fascisti di casaggì: http://casaggi.blogspot.it/2013/04/un-altro-25-aprile-dai-caduti-della-rsi.html
15 maggio 1916: nasce Paride “Bruno” Brunetti
Nato a Gubbio il 15 maggio 1916, conseguì a Vicenza la maturità classica al liceo “Antonio Pigafetta” militando in quel periodo nell’Azione Cattolica. Nel 1937 entrò all’Accademia Militare e col grado di sottotenente passò alla Scuola di Applicazione d’Artiglieria di Torino, terminandola nel 1941 con la nomina a tenente. Nel 1942 partì da Padova alla volta dell’Unione Sovietica con la spedizione ARMIR. Ritorna a Padova nell’aprile del ’43, dopo una lunga marcia. Di quel periodo la “conversione” che gli avvenimenti e le esperienze trascorse avevano fatto maturare. A Padova entrò in contatto con Concetto Marchesi, famoso latinista poi rettore dell’Università locale, e con Egidio Meneghetti; insieme formarono già da allora un primo nucleo organizzato di antifascisti. Il 10 settembre del ’43 (due giorni dopo l’armistizio) “Bruno” allestì, in collegamento con il C.L.N., le prime formazioni armate proprio a Padova, poi venne chiamato a organizzare vari nuclei partigiani dal Piave al Grappa, per andare in seguito a costituire nel feltrino la brigata “Gramsci” e diventa comandante del “Boscarin”, il primo reparto armato dei partigiani costituitosi sopra Lentiai e poi nella valle del Mis: ne tenne il comando fino al maggio 1945 quando ritornò nella “Zona Piave” quale vicecomandante per poi infine essere nominato responsabile della Piazza di Belluno.
Assieme a Raffaele Cadorna, comandante del C.V.L, e a Ferruccio Parri, fu insignito a Milano dal generale Clark (5° Armata) della Bronze Medal Star, prestigiosa onorificenza americana.
Nel giugno 1944 porta a termine quello che fu il più importante atto di sabotaggio a livello europeo compiuto dalla Resistenza italiana facendo saltare in aria un tratto della galleria ferroviaria della Valsugana presso il forte Tombion di Cismon del Grappa. Seguì poi la distruzione della cabina elettrica dello stabilimento della “Metallurgica” di Feltre che produceva pezzi per aerei militari. Per quei fatti fu insignito nel 1947 della Medaglia d’argento al Valor Militare dall’allora Presidente del Consiglio dei Ministri on. Alcide Degasperi. In seguito Feltre gli concesse la Cittadinanza Onoraria, come pure Vittorio Veneto.
Finita la guerra, “Bruno” proseguì nella carriera militare fino al 1958 quando l’allora ministro della Difesa gli nega la promozione a tenente colonnello per le sue idee politiche. Tornato alla vita civile terminò gli esami universitari e laureatosi in Ingegneria entrò alla Montedison. In seguito ricoprì la carica di consigliere comunale nelle liste del P.C.I. a Saronno, sua città di adozione dove è morto il 9 gennaio 2011 all’età di 94 anni.
Il sabotaggio di Forte Tombion
Un’intervista al comandante “Bruno”
Oggi è anche il compleanno di Umberto “Eros” Lorenzoni , presidente dell’Anpi di Treviso: tanti auguri a Umberto da tutta l’Anpi di Mirano!