Sloveni e croati, genocidio ancora avvolto dal silenzio

Il cimitero di Rab
Il cimitero di Rab

Il Giorno del ricordo: nessun accenno ai campi e agli aguzzini del fascismo. Da Arbe a Gonars al Veneto e alla Toscana: migliaia di deportati e di vittime (di MARIO QUAIA )

Per loro non c’è spazio nel calendario. Sono stati privati sia della memoria che del perdono. Sono i morti – qualche migliaio – nei campi di concentramento italiani. A opera degli aguzzini del Duce. La maggior parte erano sloveni e croati, ma tra le vittime si contano anche ebrei e zingari. Moltissimi i bambini. Di loro nessuno ne vuole parlare. Forse erano scomodi anche per la propaganda politica che da sempre ha accompagnato le campagne elettorali su queste terre di confine. Il tema è sempre stato ben delimitato: le violenze titine e le foibe. Su tutto il resto, cioè gli antefatti, soltanto oblio.
Eppure, a distanza di settantanni, la documentazione è imponente. Gli archivi hanno restituito rapporti, statistiche, verbali, testimonianze e perfino fotografie. Il giudizio degli storici è pressoché unanime: si è trattato di veri e propri lager con efferatezze inaudite. Il loro parere, semmai, diverge sul numero dei campi e sul numero degli internati.
Secondo Fabio Galluccio, il numero dei diversi luoghi di detenzione (campi di concentramento, campi per l’internamento militare, colonie di confino, campi per l’internamento civile) era 200; Luciano Casali ne conta 259. A giudizio dello storico Carlo Spartaco Capogreco (I campi del Duce, Einaudi) gli sloveni e i croati deportati dalla primavera del 1942 all’8 settembre 1943 furono non meno di 25 mila.
Domenica è stato celebrato il Giorno del ricordo per rendere un doveroso omaggio alle vittime delle foibe, istituito dal presidente Carlo Azeglio Ciampi e sostenuto dal presidente Giorgio Napolitano. Una scelta felice e condivisa dopo gli anni dell’oblio, della contrapposizione ideologica, delle accuse e dei rancori. E sulle recenti e numerose manifestazioni si è fatto leva sui sentimenti di pietà, sulla riappacificazione e sulla verità quale monito per il futuro.
Sui lager, però, ancora silenzio. Tombale. Perché? Perché negare ancora? Perché nascondere ancora le nostre responsabilità quando anche la Germania, per bocca del cancelliere Angela Merkel, ha sostenuto che «la nostra responsabilità nei crimini nazisti è perenne?». E la nostra responsabilità? Sulle torrette di guardia, nei nostri campi di concentramento, c’eravamo noi “italiani brava gente”.
Ad Arbe (Rab), nella provincia di Fiume; a Melada (Molat), nel Governatorato della Dalmazia; a Gonars (Udine), a Monigo in provincia di Treviso; a Chiesanuova in provincia di Padova; a Colfiorito, in provincia di Perugia e a Renicci, in provincia di Arezzo. È in questi luoghi che si è compiuto un altro genocidio. Settemila sloveni non tornarono più e i croati furono più numerosi.
Sull’isola di Arbe il lager più importante. I prigionieri alloggiavano in tende all’interno di quattro campi distinti, più un cimitero dove finivano i tanti che morivano per fame e freddo. Su circa 7.500 internati i morti accertati furono 1.435, tra cui oltre 100 bambini di età inferiore ai dieci anni, con un tasso di mortalità superiore a quello registrato a Buchenwald.
La responsabilità di tutta l’organizzazione era affidata al comandante Mario Rabotti, di cui è trapelata dagli archivi una sua celebre frase: «Qui si ammazza troppo poco». Il campo era affidato alle dirette responsabilità del colonnello dei carabinieri Vincenzo Cuiuli, «un mostro dalle sembianze umane», come si legge nel sito della comunità ebraica di Milano: «Sadico e fascista fanatico portava sempre con sé una frusta che utilizzava volentieri». A futura memoria la testimonianza di padre Odorico Badurina, ospite nel convento di Kampor sull’isola: «Gli italiani volevano distruggere gli internati con la fame».
Su quel periodo terribile e buio ha dedicato molte ricerche Alessandra Kersevan, storica e insegnante di questa regione, che ha poi dato alle stampe Lager italiani (Nutrimenti). Fonte principale, gli archivi della Prefettura di Udine dove, in quegli anni, ha operato l’ufficio censura dell’esercito di Mussolini. Documenti ma soprattutto testimonianze. Non c’è che l’imbarazzo della scelta.
«Non c’era niente da mangiare e i bambini piangevano terribilmente»; “Ad Arbe dormivamo sulla paglia, come le bestie. I bambini morivano di fame, nascondevamo i bambini morti per prendere il mangiare che dopo mangiavano quegli altri». Del resto, gli ordini erano ordini.
Cosi Benito Mussolini, durante un incontro con i suoi generali che si tenne a Gorizia alla fine del luglio ’42: «Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali, incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria va interrotta. È incominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del paese e il prestigio delle forze armate. Questa popolazione (sloveni e croati, ndr) non ci amerà mai».
A distanza di settant’anni che non sia il caso di chiedere scusa? Ricomporre anche questa pagina di storia strappata? E andare in delegazione a Rab e deporre una corona di fiori?

Tra Auschwitz e Agnone, l’eredità del Porrajmos

Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943
Lo Zigeunerlager di Auschwitz, aperto il 26 febbraio 1943

Per tutta la vita Glazo si è sforzato di immaginare l’inimmaginabile: «Da tanto tempo ho il desiderio di andare a vedere Auschwitz, dove è morto il bisnonno, e le zie, e le cugine… dove è stata sterminata parte della mia famiglia. L’anno che viene ci andrò». Per quest’anno Glazo si accontenta di posare quei suoi occhi, azzurri come il vetro del bicchiere da cui viene il suo nome sinto-tedesco, sulle foto che il più giovane dei suoi figli gli mostra al ritorno del Viaggio della memoria, organizzato dalla Regione Toscana. Come suo figlio, molti dei 650 studenti e insegnanti imbarcati lunedì scorso sul treno Firenze/Auschwitz hanno riconosciuto il nome di qualche parente, nel lungo elenco esposto nel Blocco 13 del primo Campo.
In fuga perenne
Fu suo zio a soprannominarlo Glazo, «da glas, bicchiere, perché i sinti sono come gli indiani d’America, danno alle persone il nome delle cose che li circondano». Ma c’è stato un tempo in cui quelli come Paolo Galliano, classe 1949, di Prato ma milanese di nascita, per salvarsi la vita hanno dovuto prendersi un cognome a caso. Così fece suo padre, il liutaio Nello Lehmann, scegliendo il nome di un violino di origine napoletana e sfuggendo così al Porrajmos, la «Devastazione», lo sterminio delle minoranze rom e sinte. Suo nonno Carlo Ludovico Lehmann, anch’egli liutaio, all’inizio del ‘900 lasciò Berlino con i suoi cinque figli per sfuggire alla repressione della polizia tedesca. Discendente della numerosa famiglia Lehmann-Reinhardt che ancora oggi «conta circa 3500 persone in tutta Italia e alcune centinaia in giro per l’Europa», Paolo Galliano è cresciuto girovago tra artisti, artigiani e musicisti, e si è stabilizzato a Prato solo una trentina di anni fa, «per i miei figli». Per tutta la vita ha ascoltato le storie dei suoi parenti dai nomi tedeschi — anche Rosenfeld, Winter, Hof­fmann — imprigionati nei campi di concentramento per zingari di Agnone o di Bolzano e poi spediti a Mathausen o direttamente ad Auschwitz. «Non è tornato nessuno, solo una volta ho conosciuto una cugina di mio padre che aveva sul braccio il numero degli internati e mi raccontava di aver visto tutta la sua famiglia in fila verso i forni crematori». La parente del signor Galliano è una dei rari testimoni diretti del “genocidio degli zingari”, miracolosamente scampata e liberata dai sovietici nel giorno di cui ricorre domani il settantesimo anniversario.
Lo sterminio
Una storia quasi sconosciuta, quella del Porrajmos, rispetto alla Shoa ebraica. Eppure, come spiega Luca Bravi, ricercatore di Storia presso l’Università di Chieti che ha accompagnato in viaggio gli studenti toscani, «sono morti in tutto circa mezzo milione di Rom e Sinti, circa l’80% della popolazione presente nei territori occupati dal Reich in quel periodo». E «non è un conteggio preciso perché all’inizio del 1942, prima dei campi di sterminio veri e propri, come gli ebrei, gli zingari venivano fucilati sul posto, appena arrestati». Solo «ad Auschwitz sono morti in 23 mila e lo sappiamo perché un prigioniero riuscì a salvare il libro mastro dove venivano annotati i nomi delle persone che vivevano nello Zigeunerlager di Birkenau prima della sua liquidazione totale, che avvenne nella notte del 2 agosto 1944 con l’uccisione in massa di circa 2 mila persone».
La «razza pericolosa»
Abomini commessi in nome dell’«igiene razziale» garantita in Germania dalle unità del Reich dirette dallo psichiatra infantile Robert Ritter che, racconta ancora Bravi, «dedicò anni a studiare la pericolosità sociale di queste popolazioni, individuata in una caratteristica ereditaria che era l’istinto al nomadismo e l’asocialità». Stesse tesi sostenute in Italia dall’antropologo Guido Landra, i cui “studi” sostenevano le leggi razziali di Mussolini. Tra il 1940 e il ’43 il regime fascista emana l’ordine di arresto di tutti i Rom e Sinti italiani e non, e il loro trasferimento in specifici campi di concentramento. «Se non fosse arrivato l’8 settembre quelle persone sarebbero sicuramente transitate verso i campi di sterminio tedeschi, i collegamenti c’erano e i documenti provano questa linearità — spiega Bravi — Molti rom e sinti però anche dopo il ’43, quando il sistema dei campi fascisti salta completamente, riescono a fuggire e vanno verso il nord. Qui, nelle zone di competenza della Repubblica sociale, vengono arrestati, messi sui vagoni e inviati nei campi austriaci, tra i quali Mathausen». Qualcuno, però, «fa in tempo ad unirsi ai partigiani, come dimostrano le storie del piemontese sinto Amilcare Debar o di Walter Vampa Catter, Lino Ercole Festini e Renato Mastini, i tre circensi, giostrai e teatranti trucidati dalle Ss tra i dieci martiri nell’eccidio del Ponte dei Marmi di Vicenza».
Una memoria taciuta
Eppure del Porrajmos restano poche tracce nella memoria collettiva. Perché, fa notare Bravi, «la memoria ha bisogno di un contesto sociale disposto ad ascoltare». In Germania, «lo sterminio razziale degli zingari è stato riconosciuto solo negli anni ’90 e il primo memoriale è stato inaugurato alla presenza di Angela Merkel vicino al Reichstag di Berlino solo due anni fa». In Italia invece «la permanenza dello stereotipo dei Rom come nomadi, e quindi come pericolosi, alimenta la politica dei campi che continua a tenere queste persone distanti, ad escluderle, anche dai diritti di cittadinanza.
I pregiudizi di oggi sono esattamente lineari con quelli di allora». Ecco perché anche la ricerca storica è «partita in ritardissimo»: «Da noi i documenti c’erano ma solo nel 2013 sono venuti fuori, grazie al progetto Memors finanziato dall’Unione europea che ha permesso anche l’apertura del primo museo virtuale italiano sul tema, www.porrajmos.it».
Eppure, conclude Bravi, «il racconto del genocidio dei Sinti e dei Rom c’è sempre stato all’interno delle comunità ma difficilmente viene riportato all’esterno. Una volta chiesi a Glazo il perché di questa memoria taciuta, e lui mi rispose: “Perché non vogliamo che questa nostra storia possa essere trattata come spazzatura, come trattano noi”».

Eleonora Martini, Il Manifesto del 25 gennaio 2015

Uno scempio costituzionale

costituzione_italianaStiamo uscendo dalla democrazia parlamentare, ma la cosa sembra non interessare a nessuno.
Anche le opposizioni, interne ed esterne al partito di maggioranza relativa, agitano emendamenti su questioni abbastanza secondarie, come le preferenze, ma sembrano accettare il principio di fondo, lo stravolgimento della rappresentanza, il considerare le elezioni come pura e semplice investitura di un potere assoluto e senza controllo.
Mi pare che l’opposizione all’Italicum, in Parlamento come nel discorso pubblico, guardi all’albero senza vedere la foresta, come si usava dire. L’evidenza è quella di una legge-truffa che dà a un solo partito, che rappresenterà in ogni caso una minoranza relativa sempre più esigua di fronte al crollo della partecipazione popolare, una consistenza parlamentare spropositata, che può consentire di fare il bello e il cattivo tempo, di nominare tutte le cariche istituzionali, di correggere e stravolgere la Costituzione a colpi di maggioranza.
Distruggere insomma la divisione e l’equilibrio dei poteri che nell’esperienza repubblicana furono comunque salvaguardati.
La democrazia parlamentare è stata riconosciuta, da tutte le culture democratiche, come il quadro istituzionale in cui le lotte sociali potevano svolgersi liberamente e potevano ottenere conquiste durature, in un clima che pur nell’asprezza dello scontro poteva garantire condivisione di princìpi e ascolto di istanze. A maggior ragione ciò è stato compreso dopo le esperienze del Novecento, e la Costituzione repubblicana recepiva il lascito di quella consapevolezza.
Ma in Italia sembra essersi smarrita, nell’ultimo quarto di secolo, la nozione di cosa sia e a cosa debba servire il Parlamento: rappresentare fedelmente il paese, dibattere liberamente, elaborare e scrivere le leggi, non votare a comando i decreti del governo.
Si sta per abolire il Senato, trasformato in un “dopolavoro” di consiglieri regionali. Perché non abo­lire anche il Parlamento, a questo punto? Il contraente più anziano del Patto del Nazareno prop­oneva di far votare soltanto i capigruppo, col loro pacchetto di voti, e il ducetto di contado che domina questa fase terminale della democrazia italiana non sembra avere idee molto diverse quanto ad autonomia e libertà dell’istituzione parlamentare.
Il partito di notabili che si appresta a questo scempio del principio costituzionale sembra aver rinn­egato tutta la sua esperienza repubblicana, e sembra oscuramente far riemergere dal suo lontan­issimo passato solo l’antica propensione alle dittature di minoranza, dove il segretario di partito comandava su tutto (ma almeno si aveva il buon gusto di differenziare la carica di primo ministro).
Andiamo verso tempi durissimi, ancor più oscuri di quelli che abbiamo vissuto recentemente, nei quali sarebbe fondamentale avere istituzioni rappresentative che rispecchino realmente e fedel­mente la società, pur nella sua frammentazione a volte caotica. Si procede invece verso la negazione di ogni forma di limpida rappresentanza, verso l’instaurazione di un rigidissimo principio oligarchico, che nega alla radice qualunque interlocuzione con la società.
Tutto questo è drammaticamente pericoloso, è una china che andrebbe arrestata in qualunque modo, prima che sia troppo tardi. Bisogna che qualcuno, anche tra i “corpi intermedi” così vilipesi e umi­liati, cominci a mettere in dubbio la stessa legittimità di un potere minoritario che vuole spadron­eggiare col sopruso, a contestare il delirio di onnipotenza di un’accozzaglia di parlamentari eletti con una legge incostituzionale e che pretende di riscrivere a suo piacimento la Costituzione.

Gianpasquale Santomassimo (Il Manifesto 21 gennaio 2015)

Quel Natale del ’44 (60 anni dopo, bellissima lettera di un Partigiano alla sua figlia)

OLYMPUS DIGITAL CAMERA

Lettera scritta dal partigiano Vladimiro Diodati, Paolo, alla figlia Milena:

In questa notte di Natale voglio scriverti questa lettera, figlia mia, perché avverto il peso del tempo, e sento che i miei giorni volgono ormai al tramonto.
Sono trascorsi sessant’anni dalla fine della guerra e tante cose ho serbato nel cuore. Ma in questa notte sento il desiderio di offrirti questa semplice testimonianza. Te la dono con il mio affetto, con tutto il mio bene, affinché sappia che tuo padre ha vissuto la sua vita con la coerenza degli ideali.
In quel periodo accadde tutto così in fretta, figlia mia. Allora c’era poco tempo per pensare… le scelte si facevano sulla nostra pelle. A volte bastava un attimo: stare di qua o di là della barricata poteva essere anche una questione di emozioni: la libertà oppure l’onore? Il desiderio di un’Italia migliore o l’orgoglio di non venir meno a una parola data? Questo, sia chiaro, per chi le scelte le operò in buona fede. Gli altri, non so… Non c’era tempo, allora, per approfondire…
Sicuramente ci saranno stati errori anche dalla nostra parte. Forse degli eccessi… Ma noi sognavamo la libertà, non dimenticarlo, figlia mia… Altri stavano dalla parte della dittatura, del terrore, della morte.

Io scelsi di stare dalla parte della vita…

C’è un episodio, però, che oggi voglio consegnare ai posteri. Una storia che, sino ad ora, è appartenuta alla sfera del mio privato, delle mie emozioni, di quei profondi sentimenti che hanno albergato nel mio cuore. Non l’ho mai raccontata prima; ma, a sessant’anni dalla fine della guerra, voglio fissarla sulla carta per te, affinché possa ricordarti del tuo papà…

Accadde nell’autunno-inverno del 1944.

Dal settembre 1943 avevo scelto la via dei monti, quella della libertà.
Nella valle in cui operavo iniziava il primo freddo di quel secondo autunno di lotta. Era la fine di ottobre e, dopo lungo girovagare, una sera, verso le 10, arrivammo nel paesino di…, che già allora era chiamata la “piccola Svizzera della Liguria”.
Eravamo una decina in tutto: tre o quattro del Comando, con sei o sette partigiani sfiniti dalla stanchezza e dalla paura.
Il grosso della nostra Brigata era rimasto nell’altra vallata, quella a ridosso del Piacentino. Ci avrebbero raggiunti la mattina seguente, in prossimità del Passo.
Bussammo a una Colonia che ci avevano segnalato: una bellissima costruzione moderna che si affaccia in alto, a sinistra del paese, tutta luccicante per le vetrate che ne fasciano l’intera perimetria.
Mi avevano informato ch’era abitata da alcune suore con molti bambini.
Nel buio pesto ci aprì una sorella. Madre Ignazia, questo il suo nome, sussultò sbigottita di fronte alla luce fioca di una lampada che lasciava trasparire i nostri volti. Uomini stanchi, con fazzoletti rossi al collo, con le barbe e i capelli lunghi, i caricatori sul petto, le bombe alla cintura e le armi a tracolla non avrebbero offerto tranquillità ad alcuno, in quel periodo…
Ci presentammo a nome del CLN: “Abbiamo bisogno di far riposare i nostri uomini. Siamo stanchi, sfiniti…”. Dapprima Madre Ignazia cercò di dissuaderci: “Siamo completi, ci dispiace, non un solo letto è libero. Non possiamo proprio ospitarvi”.
Poi, impietosita, ci fece accomodare.
La suora aveva una cinquantina d’anni suonati, un bel volto largo, aperto, simpatico, incorniciato da un velo bianco inamidato che glielo ricopriva sino alle gote. Ed una voce chiara, musicale.
Mi presentò alle altre suore, una ventina, in buona parte giovani che, spaventate, erano scese una ad una dalle loro camere. Appartenevano all’Ordine di Santa Marta ed erano sfollate dal loro convento con duecento bambini in tenera età, abbandonati dalle autorità fasciste al loro destino.
Il quadro che mi si presentò, man mano che osservavo, era pietoso e desolante. La Colonia era gelida, le suore avevano freddo e sicuramente i bambini, già a dormire nei loro lettini, saranno stati più intirizziti che mai.
“Non abbiamo di che riscaldare l’edificio”, mi disse la Madre. Poi proseguì narrandomi di come erano state costrette a girare le frazioni della Valle per elemosinare un po’ di pane per aggiungerlo alle poche scorte alimentari che avevano per sfamare i bambini e loro stesse.
Alla fine trovammo riparo, per quella sera, negli scantinati, con qualche materasso recuperato alla bell’e meglio in soffitta.
L’indomani mattina, mi recai nell’ampio refettorio e constatai che le razioni di cibo erano alquanto misere.
“Quando le autorità ci condussero qui – mi raccontò Madre Ignazia – ci avevano promesso che non avremmo dovuto preoccuparci di nulla. Avrebbero pensato loro a non farci mancare niente. Questa è una colonia estiva per i figli dei lavoratori di una grande azienda e vi doveva essere tutta l’attrezzatura per il suo buon funzionamento. Invece non abbiamo trovato neppure le pentole e le posate. Ora eccoci qui, con duecento figlioli di povera gente, alcuni senza genitori, a cui pensare, da sfamare e da vestire”.
Me ne andai con il cuore stretto, pensando a come poter intervenire in quella pietosa situazione.
Intanto la nostra Brigata, attraversata la catena che divide il paese dal Piacentino, si ricongiunse a noi.
I nostri uomini avevano catturato due camion tedeschi lungo la Via Emilia, liberando gli autisti, trattenendo i mezzi e le scorte, soprattutto scatolame di salsa di pomodoro, oltre a quattro-cinque quintali di marmellata.
La visione di quei bambini affamati non ammetteva esitazioni. La decisione fu istantanea e non trovò alcuna resistenza. Tutti i rifornimenti furono trasportati con un carro alla colonia, mentre le suore, meravigliate, ringraziarono la “Provvidenza”.
Fra me e Madre Ignazia si instaurò così un rapporto di simpatia e fiducia.
Il giorno seguente convocai i paesani, con i muli e le slitte. Avevo notato, in un certo punto della strada che dal paese scende verso la vallata, un deposito di alcune tonnellate di legna da ardere, pronta per essere trasportata e venduta nelle città della costa. Indicai il da farsi e, per tutta la giornata, fu un via vai di slitte trainate da muli, stracariche di quella legna, che si trasferirono alla colonia.
Le suore accesero le stufe e tutto, all’interno, si riscaldò. Come per incanto, i bimbi sentirono il tepore e giocarono felici. Per loro era iniziata una nuova vita.
Nei giorni successivi, anche i montanari, seguendo il nostro esempio, fecero a gara per rendersi utili.
Si mobilitarono ancora, con i loro muli, in una cinquantina, superando fatiche e difficoltà, valicando il passo e raggiungendo, accompagnati da una nostra staffetta, la colonia, stanchi ma felici, con 50 quintali di farina di grano.
Madre Ignazia mi confidò le prime impressioni ricevute allorquando ci accolse la prima volta. Con quei fazzoletti rossi al collo e quelle barbe lunghe cosa poteva pensare di noi? Eravamo quelli della guerra di Spagna, quelli che bruciavano le Chiese e violentavano le religiose. Questo, almeno, scriveva la stampa fascista. Questo avevano raccontato di noi.
Ora si trovava davanti degli uomini, soprattutto giovani, che si erano accorti di loro. In mezzo alla guerra che infuriava, col nemico alle calcagna e fra un rastrellamento e un’azione di guerriglia, per settimane ci preoccupammo di far rivivere quella Comunità abbandonata negli stenti.
Un giorno, via radio, ricevemmo l’ordine di predisporre l’arrivo di alcuni lanci di aerei, comunicandoci le coordinate del luogo prescelto.
La vigilia della data stabilita ascoltammo da radio Londra il messaggio in codice: “Paolo e Francesca”, che preannunciava l’arrivo. Il prato riservato al lancio era in una conca non lontana dalla colonia.
All’ora fissata arrivarono gli aerei. Fecero alcune evoluzioni attorno alla zona; quindi, riconosciuto il segnale convenuto disegnato sul prato, iniziarono a passare e ripassare a bassa quota seminando nel cielo tanti piccoli puntini, variopinti ombrelloni che scesero dondolando dolcemente.
A quel punto, dalla terrazza della colonia, si levò un allegro cinguettio di voci: erano i bimbi e le suore radunatisi per salutare la pioggia dal cielo, quasi fosse una festa.
Raccolto il materiale, feci caricare i paracadute di seta, una sessantina, e li inviai alla colonia. Le suore, con tutto quel ben di Dio, cominciarono pazientemente a scucire le tele, recuperando persino il filo con cui erano composte le corde.
Una sera, una staffetta del Comando di Zona giunse in paese con un messaggio di poche righe, col quale mi si informava che era iniziato un rastrellamento di grandi proporzioni nella valle del Piacentino e che un centinaio di partigiani feriti, dell’ospedale di zona, doveva essere evacuato. Sarebbero arrivati con ogni mezzo: a dorso di mulo, con le slitte, a piedi, durante la notte. La nostra Brigata avrebbe provveduto a riceverli.
Che fare? Sembrava impossibile trovare una soluzione così su due piedi. Alla fine pensai di fare un tentativo.
Mi diressi alla colonia, in quella gelida serata. Bussai alla porta e, alla Madre che mi venne ad aprire, porsi il biglietto ricevuto poco prima: “Legga”, le dissi, attendendo in silenzio come se avessi posto una domanda.
“Faremo così. – rispose subito la Madre – Ci sono duecento letti; metteremo due bimbi per ogni letto: uno alla testa e uno ai piedi. In tal modo avremo cento letti per i partigiani feriti che arriveranno stanotte”.
L’avrei abbracciata.
Fu così la colonia diventò anche un ospedale partigiano.
Per tutta la notte ci furono arrivi di feriti, alcuni mutilati, intirizziti dal freddo, stremati dal lungo, estenuante viaggio.
Man mano che giungevano, venivano accolti dalle suore, dissetati e sistemati nei letti messi a disposizione. Le Sorelle divennero tutte infermiere che provvidero ad ogni cosa, dalla cucina alle cure mediche.
Arrivarono le feste di Natale e Madre Ignazia mi pose, con tatto e cautela, il problema della Comunione per i partigiani ammalati.
“Non si preoccupi, Madre – le dissi. – Interroghi ogni partigiano ed esaudisca ogni singolo desiderio. Vedrà che troverà giovani desiderosi di essere comunicati”.
Quindi venne il mio turno.
“Sorella – risposi – potrei benissimo comunicarmi. Per me non significherebbe niente e Lei sarebbe felice. Ma non posso carpire così la sua buona fede”.
Madre Ignazia non si scompose, ma cominciò a pregare: “Ave Maria, gratia plena…”.
Fu allora che, commosso e quasi trascinato da una forza misteriosa, cominciai a ripetere la preghiera che mia madre mi insegnò quand’ero fanciullo: “Ave Maria, gratia plena, Dòminus tècum…”.
La vigilia di Natale una staffetta ci informò dal Comando che il giorno dopo avremmo dovuto lasciare il paese, perché tedeschi e fascisti stavano organizzando un rastrellamento di vaste proporzioni.
Durante la messa di mezzanotte, molti partigiani parteciparono alla funzione religiosa e si comunicarono.
La mattina di Natale salutammo le suore con grande commozione e Madre Ignazia ci benedisse.
Ma prima della nostra partenza, trovammo nel refettorio duecento figlioli tutti vestiti con fiammanti grembiulini: rossi, bianchi e celesti. Erano le stoffe dei paracaduti.
Le sorprese, però, non erano finite. Madre Ignazia ci consegnò uno scatolone con dentro decine e decine di fazzoletti rossi, di quella stoffa setificata da addobbi religiosi. Sulle due punte dei triangoli, ricamate in seta, due stelle a cinque punte con il tricolore d’Italia.
Piansi di gioia… Poi ci separammo.
Ecco, figlia mia, perché ho voluto raccontarti questo episodio.
Quel fazzoletto, che ho sempre conservato da allora e che tu ben conosci, fu confezionato dalle Suore di Santa Marta che avevano lavorato in segreto per chissà quanto tempo!
Quando entrai a Genova liberata, io e tutti gli uomini della mia Brigata portammo al collo un fiammante fazzoletto rosso: quello con la stella a cinque punte e il tricolore ricamati.
Ancora oggi, in questa notte di Natale, mentre lo osservo appeso al muro della mia stanza, mi commuovo al ricordo.
Vedi, figlia mia, in tutti questi anni non sono riuscito a ritrovare la Fede, ma ogni volta che guardo il fazzoletto, il mio pensiero corre a quel Natale del ‘44. E, ogni volta, quasi trascinato da una forza misteriosa, torno a ripetere la preghiera che mi insegnò mia madre: “Ave Maria, gratia plena. Dòminus tècum. Benedicta tu in mulièribus et benedictus fructus ventris tui, Jesus…”.
Ritrovo così la mia giovinezza e i miei sogni, mentre rivivo le speranze di quei giorni.

Nota dal sito da cui è stata riportata questa lettera: “Questa bellissima lettera fu pubblicata nella mailing di Deportazione mai più. Ringrazio la Signora Primarosa che mi autorizzò la pubblicazione sul sito anpipianoro che gestivo e che ripropongo oggi nel mio blog.” (da http://storiedimenticate.wordpress.com/2014/12/25/quel-natale-del-44-60-anni-dopo-bellissima-lettera-di-un-partigiano-alla-sua-figlia/)

Auguri a tutti i simpatizzanti, iscritti e lettori del sito anpimirano.it

Con la riforma della Costituzione sarà più facile dichiarare guerra

costituzione_italianaLa notizia si diffonde timidamente, anche grazie alla recente presentazione di emendamenti alla Camera dei Deputati: ma con gli altri importanti temi sul tavolo politico, il rilancio fatica ad uscire dalla sordina. Eppure stiamo parlando di una modifica costituzionale che va addirittura a toccare la deliberazione dello stato di guerra. È una delle conseguenze dirette della Riforma Costituzionale Boschi con il riordino delle attribuzioni parlamentari voluto da Renzi. Ciò in automatico tocca tutte quelle funzioni ora attribuite in modo paritetico alle due Camere, tra cui appunto la possibilità di dichiarare guerra prevista dall’Articolo 78 della Costituzione repubblicana. Una scelta che davvero spiazza, considerato che comunque il Senato — cosiddetto delle autonomie — non è stato cancellato e che anche da esso passerà, ad esempio, la procedura di elezione del Presidente della Repubblica. Per la quale continuerà a valere la regola di una maggioranza qualificata, mentre invece si potrà decidere di iniziare una guerra con uno Stato estero solo con il voto della Camera dei Deputati e addirittura a maggioranza semplice.
Pare proprio che qualsiasi tentativo di modifica, che sia per inserire nuovamente anche il Senato nella decisione o quantomeno per innalzare il quorum necessario alla dichiarazione, verrà respinto dal Governo Renzi alla Camera, dove la discussione giace attualmente in Commissione Affari Costituzionali, come già successo al Senato. Il risultato, per certi versi paradossale, sarebbe quello di avere un accesso più facile ad una decisione grave come questa, addirittura rendendola meno difficile da prendere della già nominata elezione del Capo dello Stato. Inoltre l’effetto combinato con la riforma della legge elettorale, anch’essa sul tavolo parlamentare, ci potrebbe proiettare in una situazione per cui una minoranza non solo dell’elettorato ma anche del totale dei voti espressi, grazie al premio di maggioranza, potrebbe permettersi una dichiarazione di guerra in assoluta autonomia rispetto al resto del Paese.
Chiaramente non stiamo dicendo che la riforma istituzionale attualmente in discussione abbia come obiettivo principale quello di permettere ad un prossimo governo di poter andare a far la guerra facilmente in giro per il mondo… Ed oltretutto è ormai passato il tempo in cui i conflitti bellici venivano dichiarati formalmente dagli ambasciatori, con una sorta di antico galateo tra Stati. Ormai viviamo in un mondo dalla conflittualità liquida e diffusa, in cui la parola d’ordine per le frizioni politico-economiche è «bassa intensità» con il minore coinvolgimento possibile degli apparati pubblici e statali. Eppure dal punto di vista squisitamente politico si tratta di un passaggio problematico e non banale. Perché ancora una volta, come accade per molte altre questioni fondamentali nella vita del Paese e dei suoi Cittadini, si impoverisce il confronto politico riducendo la questione ad una decisione presa in ambiti ristretti e con una estremizzazione dell’idea di «vertice». Si continua insomma verso quella vocazione leaderistica che ha drogato la politica italiana negli ultimi anni per cui tutto appare sacrificato all’altare della cosiddetta «governabilità» o meglio ancora del decisionismo. Anche su un tema, come quello della guerra e della pace, in cui invece la riflessione calma e approfondita dovrebbe essere naturale ed imprescindibile.
Una modifica di prospettiva che sta avvenendo ad un secolo esatto di distanza dal primo conflitto mondiale: la sanguinosa Grande Guerra di cui tutti oggi ricordano orrori e distruzioni. Ma forse questo ricordo è celebrato solo perché siamo (solo in Italia) tranquillamente lontani nel tempo da morti, sangue, fame e conseguenze negative. Vogliamo davvero un modello di società in cui le decisioni più gravi ed importanti vengano prese in poco tempo e sulla base di un mandato conferito da una minoranza del Paese? Speriamo proprio di no. Ed anche per questo sarà opportuno che il mondo della Pace e della nonviolenza si faccia sentire con forza su questo ennesimo tentativo pasticciato di indebolire i capisaldi della nostra Carta Costituzionale.

Francesco Vignarca, Il Manifesto del 12 dicembre 2014

Attacco alla casa editrice KappaVu

head

Lettera aperta all’Assessore alla Cultura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Gianni Torrenti
P.c. Alla Presidente della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani
Agli organi di informazione

Gentile Assessore
Le scriviamo come storici che hanno pubblicato con la casa editrice KappaVu di Udine. Leggiamo che Lei avrebbe dichiarato alla stampa (Il Piccolo, 29.11.2014) che la KappaVu in quanto tale, e quindi tutti i suoi autori di testi storici, negherebbe la drammatica vicenda della resa dei conti (“nega radicalmente la portata storica della vicenda”) avvenuta alla fine della guerra (impropriamente definita vicenda delle foibe) e sosterrebbe idee non condivisibili.
Se tali affermazioni risultassero vere sarebbero da un lato assurde – com’è infatti possibile negare la portata storica di un vicenda che è argomento quasi quotidiano di dibattito e strumentalizzazioni politiche da ormai 70 anni – e dall’altro mistificanti e offensive. Questo perché, al di la della inaccettabile riduzione dell’attività editoriale in campo storico della KappaVu al solo tema della resa dei conti alla fine della guerra, quello che portiamo avanti nei testi che pubblichiamo non sono idee, condivisibili o meno, bensì ricerca storica. La quale si occupa di ricostruire le vicende storiche collocandole nel loro tempo e contesto sulla base del maggior numero possibile di fonti prodotte dal maggior numero possibile di soggetti coinvolti. Naturalmente riteniamo che le nostre ricerche possano e debbano essere discusse, ma non in base a preconcetti, stereotipi ed “idee”, bensì sulla base delle fonti. Siamo perciò disponibilissimi a un pubblico dibattito storiografico sulle vicende in questione e auspichiamo che il suo Assessorato voglia prendere l’iniziativa di promuoverlo.
Distinti saluti.
Trieste, 1 dicembre 2014

Alessandro (Sandi) Volk, Claudia Cernigoi, Paolo Consolaro, Piero Purini, Gorazd Baj, Giacomo Scotti, Adriano Hvalica Qualizza, Giuliano Zelco, Andrea Martocchia, Federico Tenca Montini, Boris M. Gombac, Joze Pirjevec, Monica Rebeschini, Vanni D’Alessio Wu Ming, Roberta Michieli

L’inaugurazione a Mirano del monumento ai caduti

martiri mirano024

Durante delle ricerche d’archivio svolte da Catia Costanzo Boschieri, è stato recuperato questo articolo, comparso in un numero del bollettino del Comitato Nazionale Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. – A. 1, n. 1 (lug. 1949). Proponiamo la trascrizione dell’articolo, corredata da una foto dell’avvenimento, in cui si fa cenno alle ingiuste persecuzioni dell’apparato di polizia e della magistratura che in quegli anni subivano i partigiani superstiti. Da notare il numero delle persone intervenute (2000): erano davvero altri tempi.

In occasione della inaugurazione del Monumento ai caduti « Martiri di Mirano » si è svolta a Mirano il 23 ottobre una grande manifestazione. L’A.N.P.I. provinciale di Venezia aveva innanzitutto costituito un Comitato d’onore composto da numerose personalità partigiane del Veneto, rappresentanti tutte le correnti. Tra gli altri facevano parte di questo Comitato la signora Frida Mascherpa vedova dell’ammiraglio medaglia d’oro, la signora Martella Minto vedova Licori, il Reverendo Don Amedeo Cornetto cappellano della Brigata “Martiri di Mirano”, il dottor Camillo Matter, prefetto della liberazione, il sindaco di Venezia Gianquinto, il sindaco di Mirano Morgante, il sig. Confi in rappresentanza dette Brigate del Popolo, il prof. Morin in rappresentanza delle Formazioni G. L. ecc.
Il programma della manifestazione è stato quanto mai ricco. Nella mattinata la popolazione si è ammassata al Parco comunale e di qui circa duemila persone in corteo, con alla testa il sindaco e le autorità intervenute, le bandiere delle Associazioni, i familiari dei caduti e i partigiani della Brigata «Martiri di Mirano», hanno raggiunto il cimitero. Dopo lo scoprimento del Monumento ai Caduti il parroco mons. Muriago ha benedetto la lapide e ha rievocato i giorni delle terribili persecuzioni. Nel pomeriggio ha avuto luogo un comizio nel quale hanno preso la parola il rev. Don Beniamino Vitali, Mario Liziero, e il Commissario della Brigata «Martiri di Mirano», Cosmai: gli oratori hanno denunciato con dure parole la campagna in corso contro i partigiani.
E’ stato stampato e posto in vendita un opuscolo contenente le biografie di tutti i caduti ed è stato affisso un grande manifesto che mentre annunciava la manifestazione ammoniva che «la Resistenza non si piega con gli arresti e le illegalità». Non sono mancate neppure altre iniziative di carattere popolare: una pesca di beneficenza, un concerto della Banda musicale di Venezia, una competizione calcistica con in palio la coppa «Martiri di Mirano», uno spettacolo pirotecnico. Nella giornata precedente l’ANPI aveva organizzato uno spettacolo teatrale.

martiri mirano027

Quelli che non condannano il nazismo

Neonazisti ucraini
Neonazisti ucraini

Una commissione delle Nazioni Unite ha esaminato recentemente un documento di condanna della glorificazione del nazismo. Il documento esprime “profonda preoccupazione per la glorificazione in qualsiasi forma del movimento nazista, neo-nazista e degli ex membri dell’organizzazione “Waffen SS”, anche attraverso la costruzione di monumenti e memoriali e l’organizzazione di manifestazioni pubbliche”.

Il voto finale ha prodotto questo risultato: 115 voti a favore, 55 astenuti, 3 voti contrari. I tre voti contrari sono stati quelli di Ucraina, Stati Uniti e Canada. L’Italia – nella sua qualità di presidente di turno dell’Unione Europea – ha dichiarato la propria astensione, trascinandosi dietro tutti i paesi europei.

La dichiarazione di voto italiana merita di essere qui riportata in base al resoconto sintetico che ne ha fatto lo stesso ufficio stampa dell’ONU:

“Spiegando il voto, ad avvenuta votazione, il rappresentante dell’Italia, che parlava a nome dell’Unione Europea, ha detto che l’Unione è impegnata a combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e le correlate intolleranze, mediante sforzi generali a livelli nazionali, regionali e internazionali. I singoli stati sono stati liberi di decidere il contenuto del testo della risoluzione, tuttavia l’Unione ha avuto dubbi circa la sincerità del testo, visto che il sostenitore principale della risoluzione ha violato i diritti umani”.

Si noti che il rappresentante italiano ha evitato accuratamente di nominare il nazismo. E si capisce bene perché, avendo l’Unione Europea stretti rapporti con un governo – quello ucraino – che include forze apertamente inneggianti al nazismo. L’argomentazione usata è, del resto, non solo puerile, ma completamente ridicola perfino sul piano diplomatico. Se il voto di una qualsivoglia risoluzione fosse subordinato all’accertamento della buona fede del proponente, con ogni evidenza, non vi sarebbe nessun voto possibile in nessun consesso internazionale. In questo caso il proponente era, evidentemente, la Russia, non la potenza che tiene aperto il campo di prigionia di Guantánamo.

Impressionante lo schieramento dei tre voti contrari, con Stati Uniti e Canada principali e unici sponsor dell’Ucraina.
E particolarmente pregnante la dichiarazione di voto del rappresentante ucraino. Il quale ha dichiarato il voto contrario in questo modo:

“Lo stalinismo (sic) ha ucciso molte persone nei Gulag, e ha condannato Stalin e Hitler come criminali internazionali. Ha invitato la Federazione Russa a smetterla di glorificare e di incrementare lo stalinismo. Per queste ragioni ha detto di non poter appoggiare il documento. Ogni intolleranza va affrontata in modo equilibrato e appropriato. E’ errato manipolare la storia in favore della propria agenda politica. La Federazione Russa sta sostenendo gruppi neo-nazisti e nazionalisti in Crimea. Annuncia il voto contrario dicendo che la risoluzione contiene un messaggio errato.”

Chiunque può trarre le sue conclusioni da queste dichiarazioni che coprono di vergogna, almeno storicamente parlando, l’Occidente.
Ma, per provare vergogna, occorre conoscere i fatti. E i fatti resteranno sconosciuti ai più. Infatti questa notizia, insieme ai particolari che qui abbiamo fornito, è stata ignorata da tutti i quotidiani italiani e da tutte le televisioni italiane.

Giulietto Chiesa

Il rastrellamento di Schio

Schio, funerali dei partigiani uccisi
Schio, funerali dei partigiani uccisi

Nella seconda decade del novembre 1944 dodici antifascisti scledensi dellla Btg Fratelli Bandiera caddero nella trappola delle delazioni e finirono nel campo di concentramento di Mauthausen. Solo uno fece ritorno nell’estate del ’45, William Pierdicchi. Fu lui a testimoniare l’orrore dei campi di sterminio e a scatenare in città la reazione di una popolazione ignara. L’eccidio del 7 luglio (54 morti, di cui 14 donne) nelle carceri mandamentali ne fu la più tragica conseguenza.
A 70 anni da quei drammatici avvenimenti, lo studioso della Resistenza Ugo De Grandis, li ricostruirà in una serata aperta al pubblico e voluta dal centro studi Igino Piva “Romero”, venerdì 28 novembre alle 20.45 a palazzo Toaldi Capra a Schio.
Dall’archivio della Corte d’Assise Straordinaria di Vicenza sono emersi documenti che indicherebbero le responsabilità della retata del novembre 1944.
A FINE NOVEMBRE. Fu una vasta operazione di polizia voluta dal fascismo scledense per riscattare la propria immagine nei confronti del Comando tedesco, dopo gli insuccessi collezionati nei mesi precedenti nel mantenimento dell’ ordne pubblico e nella repressione della guerriglia.
Come si rileva dalle testimonianze dei sopravvissuti e dalle denunce dei familiari delle vittime, l’operazione, condotta dal 18 al 30 novembre, condusse al fermo di una trentina di partigiani e collaboratori. Dopo la consegna ai tedeschi del  primo antifascista tratto in arresto, Bruno Zordan, da parte del commissario prefettizio Giulio Vescovi, gli altri furono catturati in casa dagli agenti della Polizia ausiliaria passati al servizio della Feldgendarmerie delle scuole Marconi, Anselmo Dal Zotto, Cirillo Zalunardo, Ivo Contaldi, Firmino Gasparini e Ferdinando Sartori.
LO SCIOPERO. A seguito del ritrovamento all’interno del Lanificio Rossi, di un volantino incitante allo sciopero, il primo a cadere in sospetto fu Bruno Zordan, invalido di guerra, che aveva già subito un processo per offese al capo dell’Ufficio Politico Investigativo di Schio, Savino Bassi. Riuscito in un primo tempo a sottrarsi all’arresto, Bruno fu poi indotto da Vescovi a ripresentarsi a lui, che lo accompagnò personalmente al Comando tedesco di via Maraschin. La stessa sera del 19 novembre furono arrestati Pierfranco Pozzer, 19 anni, residente in via Pasini, e Italo Galvan, 39 anni, che aveva casa e bottega di calzolaio in via don Francesco Faccin. Più tardi si scopri che a denunciare i due, secondo i documenti recuperati da De Grandis, era stato Anselmo Dal Zotto, amico d’infanzia di Pozzer, che l’estate precedente aveva fatto da tramite tra i due per il passaggio di una pistola e di alcuni caricatori.
In autunno Dal Zotto si era arruolato nella Polizia ausiliaria di Vicenza e, dietro la promessa di un aumento di stipendio. aveva accettato di tornare a Schio per collaborare alle indagini.
LE TORTURE. Bruno Zordan e Pierfranco Pozzer furono sottoposti a lunghe e pesanti torture alle scuole “Marconi” e alle carceri mandamentali di via Baratto, così pesanti che il giovanissimo Pierfranco tentò il suicidio; sopraffatti dalle violenze, ai due sfuggirono alcuni nomi degli altri componenti il battaglione, ma fortunatamente Elisabetta Spiller, moglie del capocarceriere Pezzin, udì la confessione attraverso i muri e, tramite una conoscente che sapeva in contatto con la Resistenza, riuscì a dare l’allarme. Molti antifascisti riuscirono a portarsi in salvo, ma altri, non avvisati o forse ritenendosi al sicuro, caddero nei giorni successivi nelle mani dei tedeschi della Feldgendarmerie.
Agli inizi di dicembre alcuni antifascisti meno compromessi furono rilasciati: Vincenzo Bonato, Carlo Mazzon, Pietro Tradigo, Oreste Garuzzi e i familiari di Pierfranco Pozzer, ma nelle mani dei fascisti rimaneva ancora una quindicina di partigiani, tra i quali Antonio Canova “Tuoni” che, in qualita di comandante del Btg. “F.lli Bandiera”, era a conoscenza dell’intera struttura organizzativa. Se “Tuoni” avesse ceduto alle violenze, con la sua confessione avrebbe potuto compromettere poco meno di duecento collaboratori: era un rischio  che non si poteva correre.
IL COMMANDO. Dopo il secondo interrogatorio, durante il quale era stato bastonato e torturato con un ferro da stiro rovente, “Tuoni” fu ricoverato privo di sensi all’ospedale Baratto e guardato a vista da due militi della Brigata Nera, in attesa di riprendere le torture. La sera del 6 dicembre 1944 un commando di una quindicina di partigiani, guidati da Valerio Caroti “Giulio”, comandante della Brigata “Martiri della Val Leogra”, con un’azione ardita e incruenta liberò Antonio Canova.
La ritorsione partì nei confronti dei partigiani ancora trattenuti, che, la mattina dell’11 dicembre, furono tradotti al carcere di San Biagio e consegnati ai tedeschi accompagnati da gravissime accuse. Dieci giorni più tardi, il 21 dicembre, un camion scoperto e un torpedone partirono dal capoluogo e, dopo una breve sosta per panne al ponte della Gogna, portarono una settantina di prigionieri al lager di Bolzano.
I NOMI. Tra i prigionieri vi erano quindici scledensi: tre donne catturate nel corso di un’operazione di polizia a Magrè (Caterina Baron, Fosca Lovato e Irene Rossato) e dodici antifascisti arrestati nella retata di novembre: Giovanni Bortoloso (32 anni), titolare dell’omonima cartolibreria in piazza Rossi; Andrea Bozzo (48 anni), che gestiva una tipografia in via Baratto; Livio Cracco (33 anni), commesso di drogheria, residente in via Pilastro 2; Anselmo Thiella (37 anni), operaio da Bozzo, abitante a Magrè in via Riolo; Vittorio Tradigo (27 anni) contabile presso la Banca Nazionale del Lavoro e residente in via Maraschin; Giuseppe Vidale (49 anni), capo elettricista al Lanificio Rossi, residente in via Pasubio; Andrea Zanon (46 anni), che aveva un officina di calderaio in via Castello; William Pierdicchi (23 anni), studente, residente in via Porta di Sotto, e infine Roberto Calearo (19 anni), di Vicenza, che in quei giorni si trovava a Schio ospite di Pierfranco Pozzer, suo compagno di studi.
IL BLOCCO E. Durante la sosta ai Lager di Bolzano, nell’attesa che fosse formato il convoglio ferroviario per la deportazione fu scoperto un tentativo di fuga dal Blocco E, quello dei “pericolosi”, dove erano segregati gh antifascisti scledensi e ciò aggravò ulteriormente la loro situazione. L’8 gennaio 1945 un gruppo di quasi 500 prigionieri, tra i quali i dodici scledensi, fu condotto a Mauthausen che, assieme al suo sottocampo principale, Gusen, era l’unico classificato nel “Grado III”, ossia per “detenuti con gravi pendenze penali, non rieducabili.
LE MORTI. Le durissime condizioni di vita cui furono sottoposti i detenuti nell’inverno 1944-45 causarono, nell’arco di tempo di poche settimane, la morte di quasi tutti gli antifascisti scledensi: Giuseppe Vidale, Pierfranco Pozzer, Roberto Calearo, Livio Cracco, Andrea Bozzo, Italo Galvan, Anselmo Thiella, Andrea Zanon.
Il 22 aprile, sotto l’incalzare dell’avanzata angloamericana a Mauthausen avvenne una gassazione di massa per eliminare i prigionieri che versavano in peggiori condizioni e, tra i molti, furono assassinati anche Bruno Zordan e Giovanni Bortoloso. Alla liberazione del campo, avvenuta il 5 maggio ad opera degli americani. risultavano ancora in vita William Pierdicchi e Vittorio Tradigo: quest’ultimo, tuttavia spirò nell’ospedale da campo americano cinque giorni più tardi.
IL SOPRAVVISSUTO.  L’unico degli antifascisti scledensi che riuscì a rientrare in città, il pomeriggio del 27 giugno 1945, fu William Pierdicchi ridotto a 38 kg di peso, nonostante fosse stato un giovane robusto.
Dopo una breve sosta a Schio, necessaria per riprendere le forze, William si trasferì per completare la convalescenza dai suoi parenti a Jesi. Fu l’unico a sopravvivere, peso che l’avrebbe accompagnato per tutta la sua vita, conclusasi a Vicenza il 20 luglio 2004.

Mauro Sartori, Il Giornale di Vicenza

10407887_868686993175853_2930625648034697103_n

Rifiuti nazi a Milano

26storie-concerto-lunikoff-tLa Skinhouse di Bollate ha preannunciato per sabato 29 novembre a Milano l’Hammerfest 2014, un raduno a livello europeo di band neonaziste. Sono attese almeno mille persone provenienti da tutta Europa. Già tre sono gli alberghi prenotati. Il posto del concerto è ancora tenuto rigorosamente segreto. Si scoprirà all’ultimo.
L’Hammerskin Nation, o Fratellanza Hammerskin, è un’organizzazione internazionale che dichiara di perseguire <<lo stile di vita White Power>> i cui obiettivi si possono riassumere nella frase di 14 parole coniata appositamente dal razzista americano David Lane (condannato negli Usa a 190 anni di carcere per assassinio e cospirazione): <<Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi>>.
L’Hammerskin Nation, che preconizza la <<supremazia bianca>>, è stata fondata verso la metà degli anni ’80 negli USA da membri fuoriusciti dal Ku Klux Klan. Nel simbolo due martelli incrociati che marciano a passo dell’oca per abbattere implacabilmente i muri dietro i quali si nascondono le minoranze. Negli Usa hanno vandalizzato sinagoghe e compiuto innumerevoli aggressioni contro persone di colore. Sono considerati alla stregua di un’organizzazione criminale. Il nazionalsocialismo, per loro, è stato il primo tentativo di costruzione di un Nuovo Ordine.
Quali siano i loro riferimenti ideologici e politici, d’altronde, è facilissimo capirlo esaminando alcune band che dovrebbero esibirsi all’Hammerfest. Prima di tutto i Lunikoff, dalla storia emblematica. In origine si chiamava Endlösung (<<Soluzione finale>>) ed era formata da elementi provenienti dal gruppo neonazista Ariogermanische Kampfgemeinschaft (Associazione di Combattimento ariogermanica). Poi hanno preso il nome di Landser, gruppo disciolto nel 2003 perché giudicato in Germania <<un’associazione criminale>>, in quanto incitava alla discriminazione razziale. Il leader, Michael “Lunikoff” Regener è stato per questi reati arrestato e condannato. Si è quindi formata la band Die Lunikoff Verschwörung (<<Il complotto Lunikoff>>) nel cui logo compare una L con una spada, ossia le insegne della divisione di cavalleria SS Lützow, formata direttamente da Himmler nel 1945, negli ultimi mesi di guerra. Il loro primo album si intitolava Das Reich kommt wieder (<<Il Reich verrà di nuovo>>). I nemici indicati nella loro musica sono i neri, i turchi, gli extracomunitari, gli ebrei, gli omosessuali.
I Vérszerzodé sono invece una band ungherese appartenente al circuito Rac (Rock against communism) e di Blood and Honour. Il nome, letteralmente <<Giuramento di sangue>>, allude al patto stipulato, secondo la mitologia nazionalsocialista, dalle prime sette tribù fondatrici dell’identità magiara. Questa band ha suonato in occasione della ricorrenza annuale della battaglia di Budapest in cui all’inizio del 1945 la Wehrmacht e i suoi alleati ungheresi avevano tentato di contrastare l’avanzata dell’Armata Rossa: uno dei meeting più importanti della scena neonazista europea. Titolo e ritornello di una loro canzone dice: <<Ein Volk, ein Reich, ein Führer>>.
In Svizzera è stato negato loro per ben due volte l’ingresso, come banda xenofoba, mentre in Slovacchia i componenti sono stati addirittura arrestati. Il cantante Geri, in un’intervista, ha dichiarato che il suo obiettivo è la <<difesa delle nazioni bianche d’Europa>> e di essere a favore di una religione chiamata Odinismo, dal nome del dio teutonico Wotan. Anche i Kommando skin, di Stoccarda, sono impegnati nella lotta contro l’immigrazione e la religione ebraico-cristiana.
Diversi in cartellone i gruppi musicali della scena nazi-rock italiana. In primis i Gesta Bellica, una band di Verona formatisi nell’ambito del Veneto fronte skinhead. In passato, tra i loro membri, ha suonato anche Andrea Miglioranzi, condannato nel 1995 e nel ’96 per due aggressioni oltre che per istigazione all’odio razziale. Aderente al Movimento sociale fiamma tricolore, era stato eletto nelle liste del leghista Flavio Tosi, che nel 2007 lo aveva provocatoriamente nominato rappresentante del Comune nel locale Istituto per la Storia della Resistenza, incarico da cui aveva dovuto dimettersi per le proteste della città. I temi e le parole delle canzoni dei Gesta Bellica sono particolarmente significative.
Una è dedicata a Il Capitano, ossia al comandante delle SS Erich Priebke, condannato all’ergastolo per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, presentato come un perseguitato (<<Un uomo solo contro il mondo e tutto il mondo è contro di lui>>), fedele agli ideali che loro stessi condividono (<<Lui non risponde alle vostre menzogne, lui non si piega e non lo farà mai. / La fedeltà è più forte del fuoco e quel fuoco brucia dentro di noi>>), fino a lanciarsi nel ritornello ossessivamente ripetuto: <<Liberate il Capitano!>>. In un’altra canzone, Giovane patriota, si esaltano le divisioni delle Waffen-SS che nel 1945 a Berlino si arroccarono disperatamente a difesa del bunker di Hitler giurando di continuare la loro battaglia: <<Giovane patriota, ormai non sei più solo! / L’enorme orda rossa ormai sta dilagando, / ma non mi arrenderò, sarò fedele al giuramento!>>. I nemici sono la società multirazziale, gli immigrati, il mondialismo, i pedofili (<<Nessuna pietà per chi non ha pietà! / Pedofilo bastardo giustizia ci sarà! / Pena di morte, pena capitale! / Pedofilo maiale tu devi morire!>>. Si cantano i <<martiri delle foibe>> e si inneggia all’irredentismo italiano: <<In Italia tornerà la Dalmazia, Fiume ed Istria!>>.
Seguono i Malnatt, di Milano, che declamano: <<Soldati di una guerra che feriti non farà / giovani rasati, sguardi affilati /scolpiti nella fede e senza pietà! / Il mondo ci appartiene, noi non avremo pietà! / Il giorno sta arrivando per noi della croce celtica! >>. In un’altra canzone Resistenza bianca: <<Con il braccio teso ti saluterò! /Sono della Resistenza bianca!>>.
Ci fermiamo qui. Non crediamo ci sia bisogno di aggiungere altro. Hammerfest 2014, organizzato dalla Skinhouse, come il meeting dello stesso tenore promosso più di un anno fa, il 15 giugno 2013 a Rogoredo, sarà un’esibizione sfacciata di neonazismo, razzismo e xenofobia. Milano sta ormai diventando la capitale europea dei raduni neonazisti. Solo il 1° Novembre scorso si è tenuto un con¬certo di Black metal di ispirazione nazionalsocialista in una discoteca di via Corelli, l’ex Factory, con oltre 400 partecipanti giunti dall’Austria, dalla Germania e dalla Finlandia.
Qui grazie alla compiacenza del Prefetto e del Questore di Milano, la benevolenza di alcune istit-uzioni locali, la Regione, in primo luogo, l’apologia di fascismo, l’incitamento al razzismo e alla xenofobia, non consentiti in altri paesi, stanno diventando di casa. Il sindaco Giuliano Pisapia questa volta ha battuto un colpo. <<Abbiamo posto la questione a tutti i livelli, anche istituzionali>>, ha pubblicamente dichiarato, <<per impedire un ulteriore sfregio ai valori della Costituzione>>. Vedremo.

Saverio Ferrari, Marinella Mandelli, 25.11.2014, Il Manifesto