Oggi e sempre Resistenza

 

A95QDMRCcAADNwA.jpg large

“No, non dite di essere scoraggiati, di non volerne più sapere, pensate che tutto è successo  perchè non ne avete voluto più sapere” (Giacomo Ulivi, studente, 19 anni, fucilato dai fascisti)

Dice così la targa del monumento in piazza Martiri, centro della cittadina di Mirano. La piazza, il cimitero, Villa Errera, la vecchia casa del Fascio… di luoghi che parlano di memoria ce ne sono, e non sono pochi. Per questo piccolo comune della provincia di Venezia la memoria di quegli anni rimane una questione importante. Oggi in particolare, 1 novembre 2014, ANPI e cittadinanza si sono riuniti per commemorare dopo 70 anni la fucilazione di uno dei partigiani del miranese, il primo di questa citta a essere ucciso.
Doveva essere una mattina simile a questa, quando le Brigate Nere portarono al cimitero Oreste Licori, anni 23, comandante della Brigata “Volga”: lo ricorda bene Renzo Tonolo, vice-presidente della sezione ANPI e testimone diretto di quei giorni.
“Lo ammirai quando l’ho visto passare avanti a me, a testa alta e con passo deciso, in mezzo agli scherani, per andare verso l’esito violento della propria breve esistenza, con grande dignità.
Lo ammirai quando seppi che non ha voluto subire passivo la programmata cerimonia fascista della sua fucilazione, ha scelto lui il posto dove dovevano ucciderlo: non avanti il muro ma qui, sulla strada. Fu questo il suo ultimo atto di rifiuto alla sottomissione. Lo ammirarono i suoi carnefici che espressero profondo rispetto per il coraggio con cui affrontò il plotone, urlando prima della fine la propria fede”.
Ancora viene ricordato infatti come mori quel ragazzo, con il pugno alzato e l’ultimo grido “Viva Stalin!”, riaffermando il sogno e l’ideale che l’avevano spinto a scegliere la lotta, a sacrificare infine anche la propria vita. Quelle furono le sue ultime parole, estremo schiaffo contro i suoi assassini, con il nome di Stalin visto come simbolo di libertà (oggi molti storcono il naso a tale affermazione, ma è da contestualizzare e capire secondo i tempi e la situazione).
Oreste è stato il primo, ma non certo l’ultimo. L’undici dicembre ogni anno il comune celebra la sua personale giornata della memoria, ricordando in particolare quei sei ragazzi che torturati e fucilati vennero esposti agli angoli della piazza durante la mattina di mercato.
Proprio a quel ragazzo di 23 anni è stato dedicato l’intervento di apertura all’incontro con Gaetano Alessi, la sera del 30 ottobre. In questa occasione è sembrato legittimo ricordare quei fatti, ricordare la Resistenza di allora per tracciare un invisibile filo che conduce al nostro presente. Gaetano si occupa da anni di giornalismo, antimafia e antifascismo. Di questo abbiamo parlato, lasciando che ci raccontasse una storia di resistenza a noi contemporanea, quella di un piccolo paesino della Sicilia caduto nelle mani della mafia. Ancora oggi esistono persone che rischiano ogni giorno la propria esistenza per un ideale, per un semplice desiderio di combattere quello che non va nella nostra società. Gaetano, come molti altri che si sono messi in prima linea nella lotta contro il sistema delle mafie, è stato piu volte minacciato. Ancora oggi il suo lavoro si dimostra difficile e incerto, ma non per questo smetterà mai di scrivere. Il suo ultimo libro parla della grande amicizia con Vittoria Giunti, donna che ha lasciato al nostro paese una piccola grande eredità con la sua vita trascorsa all’insegna della lotta in tutte le sue forme. La sua è un’altra storia di Resistenza, a partire dal suo ruolo di partigiana fino all’elezione come primo sindaco donna della Sicilia.
Tutte queste storie si legano tra di loro, forti di una costante comune, in tempi di pace come in quelli di guerra. Rimangono certo solo parole, solo storie e ricordi che un giorno potrebbero svanire. Ma agli studenti, ai giovani di oggi, serve ora più che mai il ricordo di queste figure. Serve sentirne le parole, serve capirle e ricordare che sono esistite, che certe cose sono accadute e ancora continuano ad accadere. Serve per combattere l’indifferenza che aleggia sopra la nostra generazione e che potrebbe diventare la peggiore rovina per la nostra società.

Alice Solari, coordinatrice della Rete degli Studenti Medi di Mirano (da “Il Mancino” )

Le bufale (e le manipolazioni) di Wikipedia

BoKEHNeIEAEg-x-.jpg largeWikipedia non è mai stata una fonte attendibile: lo dimostra questo articolo che svela manipolazioni fatte ad arte, invenzioni, falsificazioni, strategie per sviare l’attenzione da queste falsificazioni. E guarda caso i più attivi in queste operazioni sono utenti chiaramente di destra e neofascisti, che intervengono sulle voci “sensibili” alla loro ideologia: Porzus, foibe, partigiani, storici e studiosi come Claudia Cernigoi (la cui voce su Wikipedia è stata “bannata” proprio per l’intervento di questi individui). Riportiamo qui la parte dell’articolo che parla di Franco Basaglia, antifascista e incarcerato per la sua attività contro il regime il 4 dicembre del 1944 e fatto passare su Wikipedia per repubblichino. Questo l’articolo di Nicoletta Bourbaki, quello completo lo potete leggere su     http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=19327 .

Come l’antifascista Franco Basaglia divenne repubblichino su it.wikipedia

È capitato anche che Presbite, dall’alto del suo ruolo di “esperto”, si sia prestato a “coprire” operazioni sporche di altri utenti. Per capire in che modo il futuro psichiatra Franco Basaglia (1924 – 1980), incarcerato per antifascismo già all’età di 19 anni, su it.wikipedia sia diventato… repubblichino grazie all’utente Theirrules e con l’imprimatur di Presbite, ecco la storia dell’inserimento in it.wiki della “notizia”.
«Franco Basaglia nasce a Venezia l’11 marzo 1924, da una famiglia agiata. Secondogenito di tre figli, trascorre un’infanzia e un’adolescenza serene nel caratteristico quartiere veneziano di San Polo. Conclusi gli studi classici, nel 1943 si iscrive alla Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Padova. Qui entra in contatto con un gruppo di studenti antifascisti e, a seguito del tradimento di un compagno, viene arrestato e detenuto per sei mesi, fino alla fine della guerra. Esperienza che lo segna profondamente e che rievocherà anni dopo parlando del suo ingresso in un’altra istituzione chiusa: il manicomio.» (Mario Colucci – Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondadori Editore, Milano 2001, pag.1)
6 agosto 2011: nella talk di Presbite Sandro_bt chiede se si può “chiudere” sulla voce “Eccidio di Vercelli”, alla quale una nutrita compagnia – coordinata da chi? Da Presbite, naturalmente – sta lavorando da molto tempo.
Theirrules chiede qualche giorno di tempo dicendo di avere una notiziola interessante da inserire.
11 agosto 2011: Theirrules annuncia nella talk della voce di aver trovato una fonte che indica Basaglia come repubblichino della colonna Morsero. La fonte è un libro di Bruno Vespa,Vincitori e vinti (2005).
4 novembre 2011: l’utente Jose Antonio inserisce nella voce “Franco Basaglia” la “notizia” su Basaglia repubblichino, indicando come fonti Bruno Vespa e il defunto “foibologo” di estrema destra Marco Pirina. L’inserimento viene subito perfezionato da Theirrules.
Bruno Vespa. In un suo libro del 2005 la notizia falsa su Basaglia repubblichino, poi ripresa dai wikinazionalisti. Ecco la citazione: «Al termine della guerra, i militi dei reparti Pontida e Montebello si arresero e vennero trasferiti al campo sportivo di Novara (tra essi, il giovane Franco Basaglia, che sarebbe divenuto negli anni Settanta il capostipite della psichiatria progressista.» La fonte di Vespa (o chi per lui) sembra proprio essere il “foibologo” Marco Pirina, oggi scomparso. Conoscendo il lavoro di Pirina, quest’ennesimo esempio di storiografia “creativa” è ben lontano dal sorprenderci.
5 novembre 2011: l’amministratore Piero Montesacro smonta la bufala portando in talk come fonte autorevole una monografia su Basaglia di Colucci e Di Vittorio. Provvede anche a rimuovere dalla voce “Franco Basaglia” la falsa notizia su Basaglia repubblichino.
1 maggio 2012: Theirrules inserisce la falsa notizia su Basaglia repubblichino nella voce sull’eccidio di Vercelli, asserendo falsamente che tale notizia è già presente nella voce su Basaglia.
21 luglio 2012: Presbite propone di avviare la procedura per il riconoscimento della voce sull’eccidio di Vercelli come voce di qualità.
20 agosto 2012: la voce sull’eccidio di Vercelli viene riconosciuta voce di qualità col voto favorevole del proponente Presbite, di Jose Antonio, di Arturolorioli e del “referee” Adert.
E così diventa “di qualità” anche la bufala sul passato repubblichino di Basaglia. Un’autentica calunnia che verrà rimossa solo nel 2014 dopo una segnalazione avvenuta su Giap.
@Wu_Ming_Foundt @footymac matricola carcere S.M. Maggiore Venezia del noto “fascista” Basaglia arrestato 4/12/1944 pic.twitter.com/5McHEa0SQn ( Iveser Venezia (@IveserVenezia) May 21, 2014).

Franco Giustolisi, la penna che spalancò «L’Armadio della vergogna»

varie-letizia-2443La scomparsa di Franco Giustolisi, storico collaboratore del manifesto, priva di una personalità forte e dal carattere senz’altro deciso non solo i molti suoi lettori ma anche i tanti tra storici, studiosi e magistrati che, nel loro campo distinto, si sono avvalsi della sua voce critica.
Dopo aver attraversato un trentennio da «inviato speciale» su politica, carceri e lotta armata nell’Italia degli anni ’60-’70, dalla metà degli anni Novanta, in piena transizione post-’89, Giustolisi si incaricò di fare i conti con le radici storiche e le aporie memoriali italiane che proprio dalla Guerra Fredda erano derivate. La sua inchiesta più nota ha finito per comporre una semantica che ha resti­tuito un’immagine diretta e irriducibilmente conflittuale alla storia delle stragi nazifasciste.
È infatti grazie all’immagine figurativa de L’Armadio della Vergogna, titolo del suo celebre volume che racconta l’occultamento della documentazione sulle stragi nazifasciste in Italia, che l’opinione pubblica nazionale, ha iniziato ad elaborare una vicenda che richiamava tutte insieme le ragioni della Guerra Fredda e quelle di Stato; l’impunità dei colpevoli e le ragioni mortificate delle vittime fino alle contronarrazioni antipartigiane usate per «dare un senso» e «spiegare» l’indicibile. Se oggi chiunque si avvicini alla materia può utilizzare quello strumento come sintesi di una dialettica com­plessa lo deve proprio alla sua capacità di rendere intellegibile una questione tanto complessa quanto fondamentale.
Lo Stato italiano mentì, occultando le carte e la documentazione delle stragi di civili, la classe diri­gente del paese concertò un silenzio politico «costiutente», prodromico ad ogni rifondazione di istit­uzioni travolte dalla frattura della guerra civile, l’opinione pubblica dell’epoca, infine, preferì dimen­ticare quelle tragedie e con esse le sue responsabilità rispetto al consenso al fascismo.
L’impronta ed il nome dati a quel lavoro di denuncia acquisirono all’epoca, era il 1994, e mante­ngono oggi una loro unicità di significato come accade solo a quel giornalismo d’inchiesta capace di sottrarsi al circuito della «disinformazione quantitativa» che oggi sembra rendere fatti ed eventi di qualsivoglia natura del tutto indistinguibili sul piano della rilevanza pubblica e valoriale.
Il metodo usato ed il senso attribuito agli eventi che Franco Giustolisi, cittadino onorario di Sant’Anna di Stazzema, ha raccontato nel corso della sua battaglia per la verità e la giustizia sulle stragi hanno permesso al suo lavoro di collocarsi in una misura disciplinare trasversale tra storia, diritto e politica, ricollocando l’inchiesta nella sua dimensione pubblica di rapporto tra diritto e dovere all’informazione nella società contemporanea di «rete». L’armadio della vergogna non ha «solo» ridato voce a chi venne travolto dalle logiche militari della guerra ai civili ma rappresenta quel profilo d’indipendenza dell’informazione che, necessario in natura, in epoca di «consensocrazia» diventa indispensabile.

Davide Conti (Il Manifesto del 11/11/14)

Ecco come l’Italia viola il Trattato di non proliferazione nucleare

Polish-F-16-SN14Per la seconda volta consecutiva si è svolta in Italia la Steadfast Noon (Mezzogiorno risoluto), l’esercitazione Nato di guerra nucleare: nel 2013 ad Aviano (Pordenone), quest’anno a Ghedi-Torre (Brescia), dove si celebra il 50° anniversario dello schieramento di armi nucleari statunitensi in questa base.
Alla Steadfast Noon 2014, svoltasi nell’ultima decade di ottobre, hanno preso parte Stati uniti, Italia, Polonia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. L’elemento di novità è stata la partecipazione, per la prima volta a una esercitazione nucleare, di cacciabombardieri F-16 polacchi.
Sotto comando Usa, i cacciabombardieri si sono esercitati all’attacco con le B61, le bombe nucleari statunitensi stoccate a Ghedi e ad Aviano in un numero stimato in 70-90. Quante ve ne siano effettivamente è segreto militare. Quello che ufficialmente si sa è che le B61 saranno trasformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» B61-12, che potranno essere sganciate a grande distanza dall’obiettivo.
La B61-12 a guida di precisione, il cui costo è previsto in 8-12 miliardi di dollari per 400-500 bombe, si configura come un’arma polivalente, con una potenza media di 50 kiloton (circa quattro volte la bomba di Hiroshima). Essa svolgerà la funzione di più bombe, comprese quelle progettate per «decapitare» il paese nemico, distruggendo i bunker dei centri di comando e altre strutture sotterranee in un «first strike» nucleare. A tale scopo la B61-12 «sarà integrata col caccia F-35 Joint Strike Fighter».
I cacciabombardieri polacchi, che hanno preso parte in Italia all’esercitazione di guerra nucleare, sono stati trasferiti a Ghedi dalla base aerea di Lask in Polonia, dove la U.S. Air Force ha schierato un distaccamento dalla base aerea di Spangdahlem in Germania. A Spangdahlem ha sede anche il 52° Munitions Maintenance Group, incaricato della manutenzione delle circa 200 bombe nucleari statunitensi stoccate in Germania, Italia, Belgio, Olanda e Turchia.
Decollando dalla base di Lask, un caccia statunitense F-16, armato di bombe nucleari, può raggiungere l’exclave russa di Kaliningrad in 12 minuti e Mosca in meno di un’ora.
Gli F-16 che la Polonia ha acquistato dalla statunitense Lockheed, spendendo 5 miliardi di dollari, vengono ora armati con missili da crociera Agm-158 della stessa Lockheed, in grado di distruggere con le loro testate penetranti posti di comando sotterranei a 400 km di distanza. E i piloti polacchi degli F-16 vengono contemponeamente addestrati all’attacco nucleare.
Mosca non sta a guardare: alla fine di ottobre, circa 25 caccia e bombardieri russi hanno sorvolato il Mar Baltico, il Mare del Nord e l’Atlantico per dimostrare la loro capacità di colpire obiettivi in Polo­nia e in altri paesi della Nato.
L’Italia, ospitando armi nucleari statunitensi ed esercitazioni di guerra nucleare, viola il Trattato di non-proliferazione delle armi nucleari ratificato nel 1975.
Esso viene violato da tutti gli altri partecipanti alla Steadfast Noon, che hanno ratificato il Tnp. Gli Stati uniti, quale Stato in possesso di armi nucleari, sono obbligati dal Trattato a non trasferirle ad altri (Art. 1).
Italia, Polonia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia, quali stati non-nucleari, hanno secondo il Trattato l’obbligo di non riceverle da chicchessia (Art. 2).
Il 29 ottobre, mentre gli F-16 polacchi partecipavano in Italia all’esercitazione di guerra nucleare, il presidente Napolitano riceveva al Quirinale il presidente polacco Komorowski, dichiarando che «la Polonia condivide con noi le forti spinte ideali del primigenio progetto europeo basato sulla pace».

Manlio Dinucci, Il Manifesto del 4 novembre 2014

Perché dobbiamo eliminare le armi nucleari e sottoscrivere la mozione del sindaco di Hiroshima che prevede la loro distruzione entro il 2020

the_day_afterUna guerra nucleare. Fu quello che si sfiorò nel 1983, ma che è rimasto all’oscuro. Fino ad oggi. Nel novembre del 1983, gli Usa e i loro alleati della Nato condussero una serie di esercitazioni militari, denominate “Operation Able Archer”, talmente realistiche dal convincere i russi della possibilità di un attacco nucleare sul loro territorio. Quando l’allora governo conservatore britannico venne informato del rischio dai servizi segreti, il premier Margaret Thatcher ordinò ai suoi funzionari di fare pressione sugli americani affinché un simile errore non si ripetesse.

Tutto questo è stato rivelato grazie a una serie di documenti top secret, ora desecretati, ottenuti da Peter Burt, direttore del Nuclear Information Service (Nis), un’organizzazione impegnata contro la proliferazione delle armi nucleari. “Questi documenti testimoniano un momento di svolta nella storia moderna, il punto nel quale un allarmato governo Thatcher si rende conto che bisogna mettere fine alla Guerra Fredda e inizia a convincere gli alleati americani a fare altrettanto”, spiega Burt al quotidiano britannico Guardian.

Able Archer, che prevedeva lo spostamento di 40mila militari Usa e della Nato attraverso l’Europa occidentale ed era coordinato da un sistema criptato di comunicazioni, immaginava uno scenario nel quale le Forze Blu (Nato) intervenivano a difesa dei loro alleati dopo che le Forze Arancioni (Patto di Varsavia) avevano invaso la Jugoslavia a seguito di sommovimenti politici interni. Le Forze Arancioni, secondo lo scenario ipotizzato nell’esercitazione, avevano poi anche invaso la Finlandia, la Norvegia e la Grecia. In breve, il conflitto immaginario subiva un’escalation che prevedeva l’uso di armi chimiche e nucleari.

A quanto riporta l’Adnkronos, secondo Paul Dibb, che in passato è stato direttore della Joint Intelligence Organisation (Jio), gli ex servizi di intelligence australiani, l’esercitazione militare Nato del 1983 costituì per la pace nel mondo una minaccia ancora più grave di quella della crisi dei missili di Cuba del 1962. “Able Archer avrebbe potuto dare il via alla catastrofe definitiva”.

Ad aumentare il rischio di una fatale incomprensione tra i due schieramenti era soprattutto il contesto storico nel quale avvenne l’esercitazione. Due mesi prima, nel settembre del 1983, i russi avevano abbattuto un Boeing 747 delle linee aeree coreane, uccidendo le 269 persone a bordo, credendo che l’aereo fosse un velivolo spia americano. In precedenza, il presidente Usa Ronald Reagan aveva pronunciato il famoso discorso nel quale definiva l’Unione Sovietica “l’impero del male”, annunciando i suoi piani di “Guerre Stellari” per la realizzazione di un sistema di difesa strategico.

La diffidenza reciproca tra i due blocchi era quindi ai massimi livelli. Dopo l’avvio dell’esercitazione della Nato, il Cremlino diede l’ordine di decollo a una decina di bombardieri nucleari dislocati in Germania est e Polonia. Circa 70 rampe di lancio dei missili SS-20 vennero poste in stato di allerta, mentre i sottomarini sovietici armati con missili nucleari vennero inviati sotto i ghiacci dell’Artico, per sfuggire ai sistemi di rilevamento della Nato. All’inizio, i comandanti della Nato pensarono che le mosse sovietiche fossero a loro volta una esercitazione militare ordinata da Mosca.

I documenti ottenuti da Peter Burt indicano invece quanto fatale potesse rivelarsi quell’equivoco. In un rapporto desecretato del Joint Intelligence Commitee (Jic) britannico si legge: “Non possiamo escludere la possibilità che almeno alcuni funzionari e ufficiali sovietici possano avere male interpretato Able Archer 83 e considerino altre esercitazioni nucleari come una reale minaccia”.
L’allora segretario di Downing Street, Sir Robert Armstrong, in un briefing alla Thatcher spiegò che la risposta sovietica non aveva le caratteristiche di un’esercitazione perchè “avveniva durante un’importante festività sovietica, aveva la forma di una reale attività militare e di allerta, non solo di un’esercitazione ed era limitata geograficamente in un’area, l’Europa centrale, coperta dall’esercitazione della Nato”.

In sintesi, l’Unione Sovietica temeva un attacco della Nato mascherato da esercitazione militare. Gran parte delle informazioni di intelligence contenute nel briefing per il primo ministro, inoltre, provenivano da Oleg Gordievskij, l’ex doppio agente segreto al servizio dell’intelligence britannica. La Thatcher, rivelano ancora i documenti, prese talmente sul serio la minaccia derivante da un catastrofico malinteso, che ordinò ai suoi funzionari di “considerare quanto può essere fatto per impedire il rischio che l’Unione Sovietica reagisca in maniera spropositata a causa di una interpretazione sbagliata delle intenzioni occidentali”. Il premier chiese quindi di “prendere urgentemente” misure per convincere gli americani del rischio.

Il ministero della Difesa e quello degli Esteri stesero allora una bozza di documento da sottoporre all’attenzione di Washington, nella quale si proponeva che d’ora in avanti “la Nato dovrebbe informare regolarmente l’Unione Sovietica sulle previste attività di esercitazioni militari che comprendono simulazioni nucleari”. Il briefing che tanto allarmò la Thatcher finì anche sulla scrivania di Reagan, che volle incontrare personalmente la spia Gordievskij. Secondo le ricostruzioni, il presidente Usa rimase talmente colpito dagli argomenti presentatigli, che si convinse della necessità di un approccio diverso con l’Unione Sovietica.

da http://www.huffingtonpost.it

http://it.wikipedia.org/wiki/Able_Archer_83

La memoria non va in cenere

indexRosario Bentivegna, medaglia d’argento al Valor Militare e comandante partigiano del Gruppo d’Azione Patriottica “Carlo Pisacane” di Roma non avrebbe voluto essere sepolto in alcun cimitero. Lo lasciò scritto nelle sue «Disposizioni in caso di mia morte» conservate ancora oggi da Patrizia Toraldo di Francia, sua compagna di vita per 38 anni. Alle persone che «mi hanno amato e che ho amato» lasciò scritto «Non mettetemi dietro una lapide». Tanto meno avrebbe pensato ad un monumento o una targa celebrativa, lui che fulminava con lo sguardo chiunque lo chiamasse “eroe”. «Io credo solo -ripeteva quasi pedagogicamente- che in alcuni momenti della storia si verificano condizioni per cui ci sono persone giuste al posto giusto». Ha sempre sentito Roma sulla pelle ed ha amato visceralmente la sua città. La dispersione delle sue ceneri nel Tevere non gli sarebbe affatto dispiaciuta.
Tuttavia la vicenda della sua «mancata sepoltura», e di quella della medaglia d’oro Carla Capponi, interroga di nuovo l’inquieto rapporto tra la città ed i suoi figli partigiani. Un passato prossimo che, fatta salva la retorica d’ufficio delle celebrazioni ufficiali, mantiene a distanza di settantanni tutto il suo carattere di irrequieto ingombro non tanto dinanzi alla storia, che ha già emesso il suo assiomatico giudizio sul valore dei partigiani, quanto di fronte ad una società civile e ad una sfera pubblica refrattarie alle scelte di campo valoriali e permanentemente protese ad alimentare la damnatio memoriae di quegli eventi della guerra partigiana che, segnando una linea di faglia in grado di definire un prima e un dopo, avrebbero dovuto impedire il perpetrarsi di persistenze conservative, continuità istituzionali e autoassoluzioni collettive dopo il fascismo.
In questo senso l’esempio del vissuto resiliente dei gappisti, che dal terrore dell’occupazione nazista seppero trarre il coraggio della lotta di Liberazione, sembra rappresentare ancora oggi un elemento eterodosso della storia recente di Roma, non assimilato, quando non addirittura contestato, nella sua legittimità da parti marginali ma non non esigue della città. Di ciò che stiamo facendo non dovremmo parlare con alcuno né oggi, né domani né dopodomani». Quando Mario Fiorentini, comandante del Gap “Antonio Gramsci”, indicava ai suoi compagni le regole essenziali della lotta armata faceva certamente riferimento alle norme di compartimentazione e segretezza necessarie alla rete clandestina del Pci ma allo stesso tempo cercava di sollecitare il pudore delle coscienze in quei giovanissimi combattenti che nonostante la nobile scelta compiuta non avrebbero dovuto mai dimenticare il peso umano di quelle azioni alle quali avrebbe reso ragione soltanto la straordinarietà del tempo della storia all’epoca della seconda guerra mondiale.                                                                                                                 Lucia Ottobrini, medaglia d’argento dei Gap romani, oggi quasi si ritrae, seppur con tutta la delicata grazia dei suoi modi, di fronte alla necessità di ricordare un’esperienza tanto dura quanto straordinaria per lei cattolica e comunista. Per i componenti dei Gap, donne e uomini che potevano restare mesi senza parlare con nessuno ed attaccare militarmente da soli soldati tedeschi e collaborazionisti fascisti, il peso della solitudine e l’unicità di quel vissuto furono resi sopportabili solo dalla convinzione assoluta della giustezza di quella scelta di vita. Alla nuova repubblica democratica sarebbe poi spettato il compito storico di «fondarsi sulla Resistenza» ovvero non celebrare in stile marziale le vicende di guerra o i loro protagonisti ma esaltare i valori universali che quelle azioni partigiane avevano significato e per cui erano state compiute.                                      I gappisti però, fin dall’immediato dopoguerra rappresentarono il convitato di pietra della riappacificazione nazionale fondata sulla rimozione del passato. Per questo hanno sempre pagato un prezzo. Il primo processo della Roma liberata del 1944 venne celebrato dagli Alleati contro Bentivegna, poi assolto, per il caso Barbarisi mentre già durante il processo Kappler del 1948 i Gap, e finanche il vertice della Giunta militare di Roma Amendola-Bauer-Pertini, furono accusati come fossero loro, e non i nazisti, i responsabili della strage delle Fosse Ardeatine. Calunniati dalla stampa neofascista e da molti «maestri del giornalismo», si difesero ottenendo sempre smentite ufficiali, scuse pubbliche e risarcimenti. Nel 1964 furono inseriti nelle liste golpiste del «Piano Solo» di De Lorenzo che disponeva la loro deportazione nei campi di Gladio a Capo Marrargiu.     Negli anni ’70 molti subirono minacce di attentati da parte di gruppi dell’estrema destra, mentre a metà anni ’90, quando solo i tumulti davanti al tribunale militare impedirono a Priebke di tornare libero in Argentina, si trovarono ancora accusati della responsabilità dell’eccidio del 24 marzo 1944. Ad una giornalista francese che gli chiedeva quale fosse il suo giudizio finale tra il dato ed il ricevuto dall’esperienza partigiana Bentivegna rispose: «È una domanda difficile. Perché mi ha tolto molto spazio ma mi ha dato l’orgoglio del dovere fatto in fondo anche a costo della vita. Perché la vita non è solo quella che si può perdere in battaglia». Quella dei Gap è una storia che «divide». Separa la libertà dalla dittatura; il progresso dalla reazione; la modernità dall’oscurantismo.

Per scegliere da che parte stare non servono lapidi.

Davide Conti, Il Manifesto del 27 settembre 2014

Usa, il riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace

20140325_obama1Cinque anni fa, nell’ottobre 2009, il presidente Barack Obama fu insignito del Premio Nobel per la Pace in base alla «sua visione di un mondo libero dalle armi nucleari, e al lavoro da lui svolto in tal senso, che ha potentemente stimolato il disarmo». Motivazione che appare ancora più grottesca alla luce di quanto documenta oggi un ampio servizio del New York Times: «L’amministrazione Obama sta investendo decine di miliardi di dollari nella modernizzazione e ricostruzione dell’arsenale nucleare e degli impianti nucleari statunitensi».
A tale scopo è stato appena realizzato a Kansas City un nuovo enorme impianto, più grande del Pen­tagono, dove migliaia di addetti, dotati di futuristiche tecnologie, «modernizzano» le armi nucleari, testandole con avanzati sistemi che non richiedono esplosioni sotterranee. L’impianto di Kansas City fa parte di un «complesso nazionale in espansione per la fabbricazione di testate nucleari», comp­osto da otto maggiori impianti e laboratori con un personale di oltre 40mila specialisti. A Los Alamos (New Mexico) è iniziata la costruzione di un nuovo grande impianto per la produzione di plutonio per le testate nucleari, a Oak Ridge (Tennessee) se ne sta realizzando un altro per produrre uranio arric­chito ad uso militare. I lavori sono stati però rallentati dal fatto che il costo del progetto di Los Ala­mos è lievitato in dieci anni da 660 milioni a 5,8 miliardi di dollari, quello di Oak Ridge da 6,5 a 19 miliardi.
L’amministrazione Obama ha presentato complessivamente 57 progetti di upgrade di impianti nucleari militari, 21 dei quali sono stati approvati dall’Ufficio governativo di contabilità, mentre 36 sono in attesa di approvazione. Il costo stimato è allo stato attuale di 355 miliardi di dollari in dieci anni. Ma è solo la punta dell’iceberg. Al costo degli impianti si aggiunge quello dei nuovi vettori nucleari.
Il piano presentato dall’amministrazione Obama al Pentagono prevede la costruzione di 12 nuovi sot­tomarini da attacco nucleare (ciascuno in grado di lanciare, con 24 missili balistici, fino a 200 testate nucleari su altrettanti obiettivi), altri 100 bombardieri strategici (ciascuno armato di circa 20 missili o bombe nucleari) e 400 missili balistici intercontinentali con base a terra (ciascuno con una testata nucleare di grande potenza, ma sempre armabile di testate multiple indipendenti).
Viene così avviato dall’amministrazione Obama un nuovo programma di armamento nucleare che, secondo un recente studio del Monterey Institute, verrà a costare (al valore attuale del dollaro) circa 1000 miliardi di dollari, culminando come spesa nel periodo 2024-2029. Essa si inserisce nella spesa militare generale degli Stati uniti, composta dal bilancio del Pentagono (640 miliardi di dollari nel 2013), cui si aggiungono altre voci di carattere militare (la spesa per le armi nucleari, ad esempio, è iscritta nel bilancio del Dipartimento dell’Energia), portando il totale a quasi 1000 miliardi di dol­lari annui, corrispondenti nel bilancio federale a circa un dollaro su quattro speso a scopo militare.
L’accelerazione della corsa agli armamenti nucleari, impressa dall’amministrazione Obama, vanifica di fatto i limitati passi sulla via del disarmo stabiliti col nuovo trattato Start, firmato a Praga da Stati uniti e Russia nel 2010 (v. il manifesto del 1° aprile 2010). Sia la Russia che la Cina accelereranno il potenziamento delle loro forze nucleari, attuando contromisure per neutralizzare lo «scudo anti-missili» che gli Usa stanno realizzando per acquisire la capacità di lanciare un first strike nucleare e non essere colpiti dalla rappresaglia.
Viene coinvolta direttamente nel processo di «ammodernamento» delle forze nucleari Usa anche l’Italia: le 70-90 bombe nucleari statunitensi B-61, stoccate ad Aviano e Ghedi-Torre, vengono tra­sformate da bombe a caduta libera in bombe «intelligenti» a guida di precisione, ciascuna con una potenza di 50 kiloton (circa il quadruplo della bomba di Hiroshima), particolarmente adatte ai nuovi caccia Usa F-35 che l’Italia si è impegnata ad acquistare. Ma di tutto questo, nei talk show, non si parla.

Manlio Dinucci, Il Manifesto

Borgata Paraloup, la montagna viva

paraloupSotto le lose di pietra, senza la paglia su cui dormire. E, ogni giorno, a tirar la cinghia. A Paraloup, la più alta borgata di Rittana, Valle Stura (Cuneo), la vita era sacrificio. La guerra saliva dalla pianura. Ma, a 1.361 metri dal livello del mare, succedeva qualcosa di diverso: «Fra le povere baite tutto è vivo, in movimento: partigiani che puliscono le armi, che spaccano la legna, che tornano dalle corvées con i muli. Strano esercito. Uomini senza gradi, senza divise, sbrindellati: gente che parla tutti i dialetti, dal piemontese al siciliano. Molti i colori: maglioni e giubbotti rossi, gialli, con il grigioverde di sfondo, proprio come apparivano i campi di sci prima della guerra». A scrivere è Nuto Revelli (La guerra dei poveri, Einaudi), che a Paraloup arrivò solo nel febbraio del 1944, dopo la tragica esperienza della Russia, che aveva decimato gli alpini italiani, suoi compagni, in nome del patto d’acciaio tra Italia fascista e Germania nazista. Paraloup, che letteralmente significa «difesa dai lupi», è uno sparuto gruppo di baite. Così raccolto, ma pieno di storia da essere uno dei luoghi fondativi della nostra Repubblica.
Torniamo, allora, alla fine dell’estate del 1943, quando i lupi non avevano il pelo, ma elmetti, scarponi chiodati, mitra e croci uncinate sul petto e percorrevano quelle montagne a caccia di ebrei, soldati sbandati e disertori. Era passato poco più di un mese dalla caduta di Mussolini e dal famoso discorso che il giovane avvocato cuneese Tancredi Galimberti, chiamato da tutti Duccio, pronunciò, il 26 luglio, alla finestra del suo studio rivolgendosi alla folla gremita in piazza Vittorio: «La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista». La sera dell’8 settembre, il giorno in cui con l’armistizio crollavano le istituzioni dello Stato italiano, un gruppo di cittadini si riunì nello studio di Duccio. La decisione era stata presa. Si partiva per le montagne. Lassù su quelle cime che Giorgio Bocca descrisse, poi, come «il sostituto della sfida civile», un luogo «fuori dal fascismo», imperante in pianura, si preparava la nuova Italia.
Partirono da Cuneo diretti a Valdieri, in Valle Gesso, con al seguito un camion carico di armi e masserizie. Erano in dodici, come gli apostoli, solo uno di loro aveva maneggiato munizioni. «Strano gruppo di improbabili guerrieri, che avrebbe senza dubbio fatto arricciare il naso a più d’uno dei numerosi ufficiali di Stato maggiore che rifiutavano la collaborazione con i “ribelli”, perché non la consideravano una cosa seria» ha notato Marco Revelli (Resistenze, quelli di Paraloup, Edizioni Gruppo Abele). Il 12 settembre, si spostarono a Madonna del Colletto, sul valico che congiunge la Valle Stura e la Grana. Ma il luogo era indifendibile. Ecco perché scelsero Paraloup, sull’altro versante, dove arrivarono intorno al 20, il giorno dopo l’eccidio nazista di Boves, il primo nel Nord. Quello era il luogo ideale, a guardalo, oggi, si resta col fiato sospeso. Collocato sotto una cima pelata, dove frassini, faggi e betulle, dopo essersi fatti stretti, si allargano in una balconata naturale, da cui si può controllare tutta la pianura cuneese. La vista spazia per decine di chilometri.
I dodici, tra cui Dante Livio Bianco e Duccio Galimberti, non sono gli unici, giovani o meno, che salirono in montagna in quei giorni convulsi. Ma, con la fondazione del nucleo della banda «Italia libera», costituirono — secondo lo storico e partigiano Mario Giovana (La storia di una formazione partigiana, Einaudi) — la prima formazione partigiana militarmente organizzata e politicamente inquadrata. Facevano riferimento a Giustizia e libertà. Così, proprio qui, in Valle Stura, in un alpeggio dimenticato, un antro povero e remoto del Piemonte meridionale, iniziò la Resistenza al nazifascismo. Paraloup è stato, per alcuni mesi tra il 1943 e il 1944, un microcosmo di democrazia diretta e mescolamento sociale, in una montagna tradizionalmente restia al palcoscenico della Storia. In questa singolare enclave alpina si incontrarono magistrati e operai, avvocati e contadini, professori, commercianti e montanari. Tra le asprezze della guerra nasceva la coscienza civile, base dell’Italia libera, e — parallelamente — si organizzavano le azioni contro l’occupazione nazifascista del territorio.
Col tempo, nel dopoguerra, la montagna si spopolò, e così pure Paraloup. I tetti incominciarono a crollare, l’erba a crescere. E quel luogo cadde nel dimenticatoio, andando ad aggiungersi al lungo elenco di borghi fantasma. Paraloup incarna Il mondo dei vinti (Einaudi) raccontato da Nuto. Una montagna spopolata e abbandonata, che ha custodito fino a oggi una cultura «altra», da cui si dovrebbe recuperare un rapporto consapevole con la natura. Per 50 anni, le case dei pastori sono rimaste vuote e preda dell’incuria. Fino a quando la Fondazione Nuto Revelli, presieduta dal figlio Marco, storico e sociologo, dopo aver acquistato le baite, ha completato nel 2013 il lungo progetto di ristrutturazione, elaborato dagli architetti Daniele Regis, Valeria Cottino, Dario Castellino e Giovanni Barberis, che hanno preservato i tessuti murari delle baite con la costruzione di un involucro di legno. L’obiettivo è stato quello di ridare vita alla «Pompei dei partigiani», non per farne un museo o un luna park per cittadini, ma un luogo aperto e vivo, simbolo della memoria e modello della civiltà alpina. A partire da un nuovo spazio per la comunità di Rittana, per tentare così il riscatto dei vinti. Come ha spiegato Marco Revelli: «Non sarebbe giusto limitare il messaggio che Paraloup è in grado di comunicare, con le sue case e le sue pietre, i suoi sentieri e i suoi pascoli, ai soli «venti mesi» di vita partigiana. Recuperare Paraloup significa anche farne un luogo di conoscenza (e «riconoscenza») di generazioni montanare».
Da giugno, tre mesi fa, Paraloup e le sue baite sono un rifugio alpino a tutti gli effetti. Lo gestiscono tre giovani, che hanno preso zaino e scarponi e sono saliti fin qui: Sara Gorgerino, 32 anni impiegata di Santo Stefano Roero, Manuel Ricca, studente universitario di 27 anni di Bernezzo, e Chiara Goletto, 27 anni, della vicina Rittana. Dodici posti letto, in ampliamento, e 30 coperti per lo spazio ristoro. Nella baita del comando partigiano adesso c’è il locale per la reception. «Paraloup non è solo un rifugio, è un villaggio della libertà e della memoria. All’inizio — racconta Sara — avevo timore nell’assumermi una grande responsabilità come questa. Ma ora la vivo più tranquillamente. Posso dire che Paraloup sia diventata la mia casa. Si incontrano persone diverse, giovani, famiglie, anziani, vengono qui richiamati da motivazioni varie. Ogni volta è un confronto arricchente». Manuel spiega alcuni progetti: «La memoria è parte di questo borgo. Non è semplice il rapporto con il passato. Ini- zieremo a lavorare con le scuole e a ripercorrere insieme i sentieri tra i boschi che gli ebrei facevano per nascondersi dai nazifascisti. Anche questo è rinsaldare la nostra memoria e trasmetterla».
Le baite ospitano mostre, incontri, proiezioni, reading e conferenze, organizzati dalla Fondazione Revelli. Nella sala più ampia è stata recentemente esposta la mostra fotografica La Spoon River contadina con le immagini di Paola Agosti. Fotografa indipendente ha viaggiato per il mondo raccontando grandi e piccoli eventi. Come nel 1977, quando con la macchina fotografica accompagnò Nuto alla ricerca di quella campagna povera che stava scomparendo. Rifece lo stesso itinerario geografico e umano ritratto con l’obiettivo. Pietro, Giovanna, Paolina, Giuseppe, volti asciutti, scavati, divennero testimoni dei saperi decaduti della montagna. «Collegare l’antico al nuovo è il progetto che anima il recupero di Paraloup, per far dialogare i due mondi, traghettando la memoria del passato scolpita nella materia più resistente (almeno nella simbologia della durata): la pietra» scrive la storica Antonella Tarpino in Spaesati (Einaudi).
Presto arriverà la neve. «Abbiamo fatto provvista di legna — conclude Sara Gorgerino — sperando che basti. Diverse iniziative sono in cantiere. Vorremmo, per esempio, rimettere in sesto il forno della borgata. Cercheremo di coinvolgere il più possibile la Valle Stura e la comunità di Rittana. Poi, quando tornerà il sole, organizzeremo una rassegna di cinema all’aperto».
Paraloup non è più un fantasma.

Mauro Ravarino, Il Manifesto del 17 settembre 2014

«La situazione è disperata, siamo di fronte a una nuova Somalia»

imageLe vicende libiche hanno ormai preso una traiettoria complicata e di non facile lettura. Complice anche la difficoltà a reperire informazioni di prima mano, capaci di non essere smentite o negate nel giro di pochi minuti, come capitato nei giorni scorsi, quando gli Usa hanno accusato l’Egitto e gli Emirati arabi di bombardare Tripoli. Ipotesi smentita seccamente, nel giro di pochi istanti, dal Cairo. Abbiamo chiesto ad Angelo Del Boca, storico del colonialismo italiano e biografo di Ghed­dafi, alcune opinioni sull’attuale crisi libica.

Intanto, come potremmo defi­nire e rac­con­tare quanto sta acca­dendo in que­ste ultime ore in Libia

La situazione è disperata, non ho mai usato un termine così violento, ma oggi possiamo ampiamente dirlo. La morte di Gheddafi invece di risolvere la situazione, come qualcuno aveva erroneamente sperato, ha accentuato la divisione del paese.
Gheddafi era stato capace di tenere sotto controllo e far dialogare 140 tribù, ripeto il numero, perché è importante, 140. Nei suoi anni di dittatura era riuscito a intrattenere buoni rapporti con tutti questi gruppi tribali, quindi in fondo la Libia, poteva essere considerato un paese tranquillo, anzi se vogliamo ricordare le cose per bene, si può affermare che fosse un paese piuttosto disponibile nei confronti dell’Occcidente e capace di costituire una copertura contro gli islamisti.

Qual è stato l’errore da cui è partito tutto?

L’errore non è stato casuale, secondo me è stato voluto, ed è consistito nel decidere di attaccare Gheddafi.
La decisione faceva parte di interessi europei e in modo particolare della Francia, che come sappiamo aveva buoni rapporti con Gheddafi, anzi pare che il leader libico avesse addirittura prestato 50 milioni di euro per la campagna elettorale di Sarkozy e forse per celare questa informazione è stato ucciso non solo dai droni partiti dalla Sicilia, ma dai raid aerei dei francesi.

Come si è arrivati a questo caos odierno?

Il generale Haftar, già sconfitto in Ciad, ha vissuto gli ultimi vent’anni della sua vita negli Stati uniti e mi pare chiaro che non stia riuscendo ad avere il sopravvento sugli islamisti. Oggi in Libia non c’è una forza che possa vincere con le armi, perché ci sono almeno un centinaio, alcuni dicono 300, piccole repubbliche diciamo libiche che si contendono il loro piccolo territorio e il denaro che esce dal petrolio e in un certo senso non vogliono accordarsi.
Finché queste forze non sono disarmate e non nasce una Libia davvero indipendente con un esercito e una polizia validi…non ci sono possibilità di soluzione politiche.

Ieri sul manifesto abbiamo ospitato un intervento di Jean Ping, ex ministro degli esteri gabonese e soprattutto ex presidente della Commissione dell’unione africana, nel quale viene tratteggiato il percorso politico che portò all’eliminazione di Gheddafi. Oggi può avere un ruolo l’Unione africana? E quale potrebbe essere l’impatto delle milizie islamiste in Libia?

Credo sia completamente fuori gioco, come del resto lo fu durante la guerra civile, quando non era riuscita a determinare l’esito di tutto quanto stava avvenendo. Oggi possiamo dire che la Libia è una nuova Somalia, divisa, con un’enormità di armi in giro. Perché anche questo fa parte della tragedia: in Libia ci sono molte armi, anche pesanti, perché Gheddafi ha sempre pensato di arricchire in continuazione il suo patrimonio bellico.
È vero che alcune di queste armi vennero vendute in giro, in Africa, ma molte sono ancora lì. Per quanto riguarda le milizie islamiste, credo siano molto forti e penso che Haftar non abbia le forze per contrastarli davvero.

Come provare a risolvere la situazione, quindi?

Non credo che dopo l’esperienza di tre anni fa, dopo la guerra civile, ci siano ancora paesi occidentali che si vogliono impegnare in una guerra sul terreno in Libia. Non credo che possano arrivare forze straniere, è una questione assolutamente interna, con due parlamenti uno a Tripoli e uno a Dobruk, se ci si potesse ridere sopra la situazione appare addirittura comica.

intervista di Simone Pieranni da “Il Manifesto” del 27/08/14

Umberto Lorenzoni: “La sinistra non si indigna più”

2mZbPv8La Resistenza non è finita 70 anni fa. Oggi continua nella lotta in difesa della Costituzione. “Non chiamatemi più ex partigiano – scandisce perentorio Umberto Lorenzoni, 88 anni, presidente Anpi Treviso – Io sono ancora un difensore della libertà e della democrazia, ora più che mai dalla fine della guerra”. Non è un caso che l’Anpi, come il nostro giornale, all’inizio di giugno ha lanciato una raccolta firme contro la riforma del Senato voluta dal patto Renzusconi. “È uno schifo – s’indigna Lorenzoni -, hanno rotto l’equilibrio dei padri costituenti”.

Quindi va lasciata così come è?

Una proposta seria è ridurre a 200 il numero di senatori e a 400 quello dei deputati, affidare ai secondi la funzione legislativa e ai primi quella di controllo. Invece, hanno combinato un pasticcio e garantito un risparmio di solo 50 milioni di euro.

Un’altra Resistenza.

Purtroppo sì, non voglio il ritorno del regime. Uno come me, che ha combattuto contro i fascisti, come fa a dire di sì a un piano del genere? Così indecente anche il sistema elettorale: l’Italicum è solo una brutta copia del Porcellum. Chi vince le elezioni, potrà decidere il capo dello Stato, no più super partes ma uomo della maggioranza. Si sta realizzando insomma il sogno della P2 e di Licio Gelli.

Ci sono già le premesse?

Il divieto del voto di preferenza. I parlamentari rispondono solo a chi li ha nominati, cioè i leader di partito, non ai cittadini.

La conseguenza?

Per esempio, il Pd per anni ha criticato il Porcellum, ora invece accetta senza fare una piega l’italicum, solo perché il capo bastone è cambiato. Renzi ha confuso l’Italia con un accampamento di boy scout, con tutto il rispetto per coccinelle e lupetti.

L’Anpi è rimasta senza eredi ai governo?

In pratica è così. Tra i nostri iscritti ci sono parecchi giovani (a Treviso mille su 1500 tesserati), ma si sentono spaesati, senza punti di riferimento.

L’opposizione esiste ancora?

Guardi, la sinistra è morta e sepolta. Se B. avesse fatto quello che oggi sta facendo Renzi avrebbe riempito le piazze. Il Movimento Cinque stelle si è perso per strada, eppure all’inizio avevo fiducia in loro.

Perché la gente non reagisce?

Renzi ha approfittato della crisi per distruggere la Costituzione perché la maggior parte degli italiani è distolto dalla preoccupazione di portare il pane a casa.

Qual è il fraintendimento più grande?

Quello che solo andando d’accordo con B. si può governare. Uno scandalo, ma tutti ne sono convinti.

A luglio il Miur ha siglato con l’Anpi un accordo per promuovere i valori della Costituzione nelle scuole. Una presa in giro?

Sì, ma almeno il progetto è andato in porto.

Lei ha un’energia invidiabile. Spera ancora in un futuro migliore?

Quando a 17 anni decisi di fare il partigiano, ci dicevano che eravamo “bambini pazzi” e “troppo pochi” ma poi abbiamo vinto. Anche oggi dobbiamo resistere un minuto in più dei nemici. Staccai da un albero un morto impiccato. Questo ricordo, ogni volta, mi carica per la battaglia a favore della democrazia.

Intervista di Chiara Diana da “Il Fatto” del 19 agosto 2014