Elena Cattaneo e il suo discorso al Senato contro la riforma costituzionale

costituzione_italiana«Signor Presidente, colleghi, ho partecipato alla discussione su questa auspicata riforma senza una posizione precostituita e con un interesse per i contenuti e per il metodo. Ho compreso l’impegno dei relatori e dei senatori. Ma sono rimasta delusa nel vedere che valutazioni e idee ineccepibili, in quanto a logica e pertinenza politica e civile, non abbiano trovato ascolto. Le risorse umane, professionali ed intellettuali per fare meglio c’erano tutte, qui dentro e nel Paese. Ma non ho visto il coraggio di volare alto, spiegando ai cittadini e al Governo ciò che serve per riqualificare le componenti e le funzioni delle Camere nel quadro di un ordinamento nuovo e ben coordinato.

La verità la conoscete meglio di me. Non è questa la riforma costituzionale che serve al Paese. E il mio voto sul testo di oggi è dettato da questo disagio e da tre considerazioni.

La prima riguarda il contesto generale in cui si sono svolti i lavori: di scarso ascolto e di linguaggio inadatto a un momento tanto importante. Si è parlato di “allucinazioni” e “professoroni”, con un sentimento “di sufficienza verso accademici ed esperti politicamente impegnati”. Il linguaggio deriva dal pensiero e gli illustri studiosi di storia politica presenti in quest’Aula mi insegnano che l’anti-intellettualismo è un indicatore di crisi culturale e civile per un sistema liberaldemocratico.

La seconda considerazione è sul metodo utilizzato, troppo condizionato da strategie di Governo e da discipline di partito con cui si sono dettati contenuti, paletti e tempi, decisi fuori da quest’Aula. È un metodo sbagliato perché non si può condurre un esperimento che presuppone libera condivisione democratica senza la disponibilità a esaminare davvero e analiticamente i risultati che questo esperimento è destinato a produrre. Se si sbaglia il metodo nel fare un esperimento, i risultati saranno inutilizzabili. Se va bene.

La terza considerazione riguarda il progetto. Gli interventi da più parti e i miei colloqui con i colleghi di tutto l’emiciclo mi fanno concludere che si tratta di un progetto tecnicamente pasticciato e frettoloso, attualmente decontestualizzato rispetto ad altre riforme. È un progetto che non è in grado ora di indicare l’esito, l’assetto, l’equilibrio, la visione del nuovo assetto costituzionale che stiamo costruendo.

Non mi convincono le motivazioni a sostegno di un Senato non elettivo, le scelte sulle funzioni assegnate a questa Camera, la mancata riduzione del numero dei parlamentari dell’altra Camera, l’incertezza circa le garanzie di bilanciamento dei poteri e circa l’effettività del pluralismo della futura rappresentanza parlamentare.

Non mi convince come è stata affrontata la questione dell’elezione dei Presidente della Repubblica e la mancata ricerca di un metodo per acquisire al nuovo Senato “personalità abituate a disegnare le frontiere del mondo”, che sarebbero utilissime in queste contingenze economiche.

Per questo, e concludo, il mio voto sarà di astensione (che so equivalere ad un voto contrario in quest’Aula), che vuole essere, nel suo piccolo, un segnale per i cittadini e per i colleghi dell’altro ramo del Parlamento, affinché i loro lavori possano essere più sereni ed in tutta indipendenza positivi e attenti».

Elena Cattaneo, direttrice del Laboratorio di Biologia delle Cellule Staminali e Farmacologia delle Malattie Neurodegenerative del Dipartimento di Bioscienze e co-fondatrice di UniStem, il Centro di Ricerche sulle Cellule Staminali dell’Universita’ di Milano, è stata nominata senatrice a vita da Giorgio Napolitano insieme ad Abbado, Piano e Rubbia. Classe 1963, è la terza donna a ricoprire questo ruolo, dopo Camilla Ravera e Rita Levi Montalcini.

Il processo per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema è da rifare

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In Germania fin dagli anni cinquanta Karlsruhe è conosciuta come «la Città del Diritto» in quanto ospita le sedi della Corte costituzionale Federale e della Corte di Giustizia Federale. E per questa cittadina di 300.000 abitanti del land Baden-Wuttemberg sembrano incrociarsi, a settant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il passato e il presente dell’Europa sia nella sua memoria storica di continente lacerato dal conflitto contro il nazifascismo sia nella sua prospettiva di unità politica futura.
A febbraio 2014 la Corte Costituzionale Federale aveva rinviato alla Corte Europea il giudizio sulla legittimità dell’Outright Monetary Transaction (Omt) il piano d’intervento straordinario di acquisto di titoli di Stato di paesi in difficoltà che il governatore della Bce Mario Draghi, osteggiato dal «falchi» della Bundesbank con a capo Jens Weidmann, aveva prospettato nel 2012 in piena crisi dell’eurozona. Una scelta che affondando le mani nel presente ha permesso di contenere la «tempesta perfetta», mantenere in piedi la moneta unica e offrire, in ultima istanza, ancora una possibilità al futuro progetto di unità politico-economica continentale. Ieri la Corte di Giustizia Federale le mani le ha affondate nel passato prossimo dell’Europa, quello dell’occupazione nazista e delle stragi di civili, ed ha annullato la decisione della procura generale di Stoccarda che nel maggio 2013 aveva disposto l’archiviazione del procedimento per la strage nazista di Sant’Anna di Stazzema del 12 agosto 1944 che provocò 560 morti.
Il processo in Germania si riaprirà ad Amburgo dove sono stati trasmessi gli atti a causa della presenza in quella città di uno degli imputati, Gherard Sommer, mentre in Italia la vicenda giudiziaria si era conclusa nel 2005 con la condanna definitiva di dieci membri delle Schutzstaffeln (SS) tedesche.
La storia molto prima delle sentenze dei tribunali si era premurata di scrivere pagine fondamentali su quelle vicende, sulla loro natura e sulla loro eredità collettiva e memoriale nonché sui motivi, prevalentemente legati alla «ragion di Stato» e agli equilibri geopolitici della Guerra Fredda, dei mancati processi ai criminali di guerra tedeschi e italiani. Ora a fianco ad una sfera giuridica a cui rimane comunque il compito dovuto di consegnare una sentenza, altra cosa sarebbe stata la giustizia da perseguire nell’immediato dopoguerra con altri effetti politici, è la lettura che un fatto del genere proietta nel presente ad interrogare i contemporanei.
E così nel suo continuo ondeggiare tra passato e presente la Germania sembra di nuovo divenire specchio della condizione di un continente investito dalla crisi economica e da una complessa transizione caratterizzata dalle tendenze a un rigido assetto monetarista e dalla riemersione di fenomeni xenofobi e di estrema destra alimentati proprio politica dell’austerità. Un’Europa però legata nello stesso tempo alla necessità irrinunciabile di determinare una coesione politica basata su una ricostruzione unitaria, non necessariamente condivisa, della sua storia.
Così, rifuggendo dalla tentazione di utilizzare come una clava il debito della Germania con la storia, recente è la polemica sui risarcimenti di guerra rivendicati dalla Grecia durante la somministrazione della «cura economica» della Troika ad Atene, allo stesso tempo la declinazione del presente dovrebbe indicare alla Germania una linea di ridefinizione del proprio ruolo scevro dagli spettri del passato imperiale del Reich. In questo senso un tratto unico e unitario della storia del continente, in grado cioè di segnarne un profilo identitario riconosciuto e riconoscibile è rappresentato dall’antifascismo e dalla guerra contro la Germania hitleriana e l’Italia di Mussolini. Un’istanza di carattere internazionale che divenuta movimento reale percorse trasversalmente tutte le società europee sostituendo il paradigma nazionalista e della fedeltà fideistica alla patria, fosse anche quella nazista, con quello valoriale che poneva i diritti delle persone e dei popoli al di sopra del primato dell’identità nazionale. Ogni partigiano, antifascista o antinazista europeo si batté contro la propria patria non per determinarne la morte, come in tempi di revisionismo prepotente si prova a dire oggi, ma per rifondarla su nuovi valori. Proprio nel ferro e nel fuoco di quella grande e drammatica storia nacque nel confino fascista di Ventotene l’idea stessa dell’Europa unita. La «Città del Diritto» non restituisce solo un processo da fare e non relega la sua attenzione alla sfera privata dei parenti delle vittime. La decisione di riaprire il procedimento ad Amburgo offre, di nuovo, l’occasione di fare i conti con la storia, di riaprire gli armadi della vergogna per guardarci dentro, conoscere da dove veniamo e capire dove si vuole andare.
In questo modo, utilizzando l’eredità del passato come leva dell’azione del presente e non come retorica celebrativa è possibile rendere giustizia ai morti di Sant’Anna di Stazzema e delle tante altre stragi nazifasciste perpetrate in Italia e nel resto Europa. (Davide Conti, Il Manifesto del 7 agosto 2014)

Intervista a Franco Giustolisi:

Giornalista da più di mezzo secolo, scrittore e storico per vocazione (nel 2003 ha partecipato alla scrittura di un volume collettivo sulla strage di Sant’Anna di Stazzema), Franco Giustolisi da vent’anni si batte per rendere pubblici i documenti nascosti nel cosiddetto «Armadio della vergogna». Si tratta di un armadio “scoperto” nel 1994 a palazzo Cesi Gaddi di Roma (sede di vari organi giudiziari militari) dove erano stati “dimenticati” centinaia di fascicoli giudiziari e migliaia di notizie di reato relative ai crimini commessi in Italia durante l’occupazione nazifascista.

Una buona notizia arriva dalla corte federale di Karlsruhe.

La riapertura delle indagini contro il nazista Gherard Sommer, già condannato in Italia per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, è importante perché in primo grado avevano addirittura assolto tutti gli assassini. Significa che la Germania continua a far bene il suo lavoro e a fare i conti con la sua storia, senza badare a sovrastrutture di alcun tipo. L’Italia, invece, continua a tacere. Ultimamente mi ha molto colpito l’intervento del ministro degli esteri tedesco, Frank Walter Steinmeier, quando a Civitella di Val di Chiana, altro luogo dove ci fu una strage orribile, ha detto che non riusciva a concepire ciò che ha potuto fare il popolo tedesco. Come non riesce a concepire? Anche se poi si è scusato, mi lascia un po’ sgomento il fatto che un ministro tedesco esprima stupore, quanto al nostro ministro degli esteri, Federica Mogherini, in quell’occasione non ha aperto bocca. E dire che il ragazzotto fiorentino la vorrebbe ministro in Europa.

Cosa avrebbe dovuto dire?

Almeno che le sentenze si devono rispettare. Tutti i processi ai gerarchi nazisti si sono svolti nel modo più garantista possibile, tanto che la Germania non ha mai avuto nulla da eccepire. Mi sa che regalerò ai due ministri una copia del libro sulla strage di Sant’Anna di Stazzema

Quella drammatica vicenda è nella storia, ma quante altre stragi anche sconosciute sono state compiute dai nazifascisti?

Nell’armadio della vergogna ne sono state censite oltre mille e altri eccidi documentati e accertati non fanno nemmeno parte di quell’elenco. La nostra è una storia orribile ancora da scrivere e da divulgare.

L’argomento in Italia è a dir poco sottaciuto. Non solo non se ne parla, ma negli ultimi anni siamo stati travolti da un’ondata revisionista piuttosto volgare che scredita l’antifascismo. Resta ancora qualcosa di utile da fare?

Secondo me l’approdo naturale per rifare la storia di queste vicende ha bisogno di pochi punti fermi. La conta di tutte le vittime delle stragi, perché ancora oggi non conosciamo il numero dei morti. La richiesta di un perdono ufficiale, perché per cinquanta anni sono stati nascosti i fascicoli, e ricordo ancora le parole del presidente Ciampi che si era pronunciato favorevolmente. L’esecuzione di tutte le sentenze. E una giornata della memoria. Insomma, la fine del silenzio. La cosa più strana è che non si parla della più grande tragedia della storia italiana. Una vergogna.

Cosa intende per rendere esecutive le sentenze?

Se tizio merita l’ergastolo, ergastolo deve essere. Alla Germania non si chiede l’estradizione, basta che la sentenza venga applicata con gli arresti domiciliari. Altrimenti che senso ha? Sono persone anziane che già passano quasi tutto il tempo in casa, che ci stiano per un altro motivo.

Giovani e anche meno giovani sanno poco. Cosa bisogna fare perché la storia non rimanga stampata solo nei libri o sulle carte di una sentenza?

Parlarne, e parlarne ancora. Tutti adesso rileggono la storia della prima guerra mondiale, qualcuno mi deve spiegare perché invece nessu­no ha voluto parlare dell’Armadio della vergogna. Sono passati tanti anni, credo che non sia nessun motivo per mantenere il silenzio. L’Anpì sarebbe il naturale depositario di questa ricostruzione storica, eppure di certi argomenti non vogliono parlare. A febbraio, con i sindaci di alcune località colpite dalla violenza nazifascista, e con i presidenti di Emilia Romagna e Toscana, le regioni più colpite, ho scritto una lettera al Quirinale: ancora non ho ricevuto risposta. Mi chiedo se ci sia qualcosa da nascondere.

Intervista di Luca Fazio da Il Manifesto del 7 agosto 2014

Lorenza Carlassare: Così si strozza la democrazia

costituzione_italianaProfessoressa Lorenza Carlassare da costituzionalista come giudica la decisione di contingentare i tempi della discussione sulla riforma?

E’ una decisione contraria alla Costituzione. Non mi era mai venuto in mente che nella revisione di una legge costituzionale si potesse agire in questo modo. Strozzare un dibattito su una riforma che deve essere votata con una maggioranza elevata proprio perché sia ragionata e condivisa. Mi sembra una cosa inaudita. Soprattutto considerando che risulta implicitamente escluso dalla stessa
Costituzione, che prevede appunto maggioranze molto elevate, due distinte delibere per ogni camera con uno scopo preciso: garantire che la riforma venga meditata, discussa e approvata da una maggioranza larga, non da una maggioranza artificiale che forza gli altri, una minoranza prefabbricata che vuole imporre la sua volontà. Il disprezzo del dissenso e la volontà di soffocarlo è propria dei sistemi autoritari. Non è lo spirito della Costituzione.

Il problema forse è all’origine: ci troviamo di fronte a una riforma costituzionale che non nasce dal parlamento ma viene dettata dal governo.

Anche questa è un’anomalia. Purtroppo negli ultimi anni ne abbiamo viste tantissime. Il governo si è impadronito di tutte le funzioni del parlamento e lo ha esautorato. Della funzione legislativa si è impadronito totalmente facendo solo decreti legge e ora s’ impossessa anche della revisione costituzionale. Tutto quello a cui stiamo assistendo negli ultimi tempi lascia sgomenti.

Vede dei rischi in questo modo di procedere da parte di governo e maggioranza?

Da tanto tempo vedo rischi, perché questa forzatura deriva dal fatto che non si vuole accettare il dialogo, che si vedono gli emendamenti e le proposte degli altri come un impaccio, un ostacolo, dei sassi sui binari da rimuovere, come ha detto Renzi. Ma gli argomenti degli altri non sono da rimuovere, sono da considerare ed eventualmente da confutare con argomenti idonei, altrimenti che
democrazia è? Oltre tutto si tratta di una riforma che fa parte di un programma più ampio di cui non sappiamo nulla.

Si riferisce al patto del Nazareno?

Questo patto Berlusconi-Renzi, che poi è Berlusconi-Verdini-Renzi che cosa significa? E’ un patto fra soggetti dei quali uno non aveva e non ha funzioni politiche istituzionali di alcun genere; ha perduto anche il titolo di senatore. Allora la domanda è: cosa c’è in questo patto? Un patto tra due partiti si può anche ammettere se è trasparente, ma un accordo segreto di cui ogni tanto trapelano alcune notizie ma del quale si esige che sia assolutamente rispettato alla lettera, no. Mi chiedo ancora: siamo in un Paese democratico o no?

Però il ministro Boschi di fronte alle accuse di autoritarismo risponde che si tratta di allucinazioni.

Penso che il ministro Boschi, della cui buona fede non dubito, non abbia nessuna idea di cosa è la democrazia e soprattutto che cosa è la “democrazia costituzionale”, che non vuol dire dominio della maggioranza. Quello che offende è la menzogna, continuamente ripetuta, che chi propone modifiche non voglia le riforme: tutti vogliono la riforma del bicameralismo attuale! Ma molti non vogliono la soluzione imposta. Perché il governo non vuole il Senato elettivo come negli Stati Uniti, con un numero ristretto di senatori eletti dai cittadini delle diverse regioni? Perché no?

Lei che risposta si dà?

Si vuol togliere la parola al popolo. Quanto sta accadendo va messo insieme alla legge elettorale con l’8% di sbarramento; si vuole chiudere la bocca alle minoranze, e non solo a minoranze esigue: la soglia dell’8% non è certo leggera. Si vuole fare una Camera interamente dominata dai due partiti dell’accordo, due partiti che poi sono praticamente uno perché lavorano insieme, in stretto accordo, quindi siamo arrivati al partito unico.

O magari al partito nazionale di cui parla Renzi.

Una cosa che mi fa venire i brividi. La democrazia costituzionale è necessariamente pluralista, perché gioca anche sull’articolazione politica del sistema e del parlamento, sulla possibilità di un dialogo e di un dissenso. Qui invece si parla di partito nazionale. Credo che per qualcuno si tratti di scarsa conoscenza e di scarsa dimestichezza con il costituzionalismo, per qualcun altro purtroppo no.

In questo rientra anche la decisione di innalzare da 500 a 800 mila le firme necessarie per proporre un referendum abrogativo?

Siamo sempre nella stessa logica di riduzione del peso del popolo, che evidentemente dà fastidio e bisogna tacitarlo. La gente chiede lavoro, è preoccupata per la chiusura delle fabbriche e i governanti si impuntano esclusivamente su queste cose. La riforma costituzionale serve certamente al fine di poter esercitare il potere con le mani libere, senza gli impacci della democrazia costituzionale. Però c’è anche un’altra ragione di fondo, ed è che la riforma è un bello schermo per nascondere il fatto che sugli altri piani non si fa niente. L’economia è andata più a rotoli che mai, finora si è fatto solo un gran parlare, un chiacchierare arrogante e assolutamente inutile.

Però seimila emendamenti sono tanti. L’opposizione non sta esagerando?

L’opposizione non ha altre armi perché il dialogo la maggioranza non lo vuole, ha detto subito che “chi ci sta, ci sta”. E gli altri, evidentemente, se “non ci stanno” a votare ciò che il governo vuole “se ne faranno una ragione”! In tale situazione chi vorrebbe una riforma diversa non può fare altro che rendere faticoso il percorso per indurre la maggioranza a riflettere su quello che fa e, per non veder fallire tutto, ad accettare qualche modifica. Ripeto ancora ciò che più volte ho detto: se vogliono fare un Senato con i rappresentanti delle regioni e degli enti locali non eletti dal popolo, lo facciano pure, però non possono attribuire a quest’organo funzioni costituzionali. Non possono dargli la possibilità di legiferare al massimo livello. A un simile Senato, fatto da persone che non ci rappresentano, dominate dai capi partito, si vuole invece assegnare il potere di revisione costituzionale, di partecipare all’elezione del presidente della Repubblica e di altri alti organi costituzionali. E’ assurdo. Facessero allora un Senato che è espressione delle autonomie con funzioni limitate alle necessità di raccordo con le autonomie locali. Altrimenti, se gli si vogliono attribuire funzioni costituzionali, deve essere elettivo. Ma, se non è possibile discutere di questo e di altri punti significativi, allora non resta altro
da fare che proporre emendamenti a raffica.

Intervista di Carlo Lania da “Il Manifesto” del 25/7/14

Una lettera scritta da 142 cittadini israeliani

10501903_10153006492194992_4886099936091896921_n-300x300La carneficina che sta facendo a pezzi la gente di Gaza non fa parte di una guerra convenzionale. Uno degli eserciti più potenti del mondo s’è scagliato con tutta la sua ferocia contro persone lasciate sole dai governi “amici”, pronti semmai a chiudere loro, come sempre, ogni valico o via di fuga. Quel che accade in questi giorni a Gaza fa parte però di una guerra più grande, quella di tutti gli Stati e di tutti gli eserciti contro tutti i popoli. Sì, perfino contro quello che vive in Israele. Ce lo ricorda una splendida quanto emozionante lettera scritta da 142 cittadini israeliani capaci di vedere e capire l’orrore che provocano l’occupazione e la volontà di chi esercita il potere politico e militare nel loro paese. “Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire che non sapevamo, che non abbiamo capito prima o che non siamo stati in grado di prevederlo”. Quei cittadini scrivono alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese arso vivo da un gruppo di coloni, ma scrivono anche al mondo intero. Sono parole che sfidano il pensiero dominante di una società che hanno visto diventare povera e perdersi nella cultura della violenza. Quelle parole coraggiose tengono aperta, anche quando tutto sembra perduto, la sola speranza di un cambiamento in profondità che potrebbe aver ragione dell’orrore

Le nostre mani grondano sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed. Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.
Abbiamo visto la società israeliana diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni, in tutte le sue forme.
Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo, militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.
Più di ogni altra cosa, siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie, si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.
Le nostre mani sono impregnate di questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta la popolazione palestinese.
Ci opponiamo alle politiche di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e l’istigazione che esiste nella società israeliana.
Rifiutiamo di lasciare che il nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).
Questo amore reciproco non si riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e le parole dei nostri rappresentanti di governo.
Le nostre mani grondano di sangue.
Per questo ci impegniamo a continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e palestinesi – per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede soltanto in una esigua minoranza.
Lotteremo contro la scelta di muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di violenza.
Dobbiamo combattere per offrire un legame umano – un legame che sia anche politico, culturale, storico, israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per questo, fanno parte del mondo arabo.
La nostra scelta è quella della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati, richiedenti asilo e molti altri.
Di fronte a questa situazione il lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.
Le nostre mani grondano di sangue, e il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.
Questa sarà una lotta per mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo cittadini di pari diritti e dignità.
Le nostre mani sono piene di questo sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.
A queste persone noi rispondiamo così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.
Andare contro i metodi di Netanyahu non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica. Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che cerchiamo di cambiare.
Questi assassini si nascondono tra di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre (…).
Le nostre mani grondano di questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.
I loro assassini non sono stati arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo Shin Bet.
Questi omicidi, avvenuti per mezzo di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o “problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie, dall’esercito.
La ragione per cui i sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non portavano un’uniforme.
Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui questa terra ha assistito.
Le nostre mani sono impregnate di quel sangue. Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue condoglianze e condanna l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.
“Non c’è posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza. Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di Israele”.
Netanyahu ha dimenticato che diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un quadro molto diverso.
Quando guardiamo il numero di ebrei israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è molto più elevato.
Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci dimenticare, l’incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre ragazzi ebrei rapiti – Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah – quando tutti noi eravamo in stato di profondo shock: “Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri” (…).
Le nostre mani hanno sparso questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il governo ha ora deciso di lanciare un’operazione militare a Gaza, che ha chiamato “Operazione Bordo Protettivo”.
Chiediamo al governo di fermare questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace, a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.
Gaza è la storia di tutti noi; è anche l’oblio della nostra storia. E’ il posto più segnato dal dolore in Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.
Le nostre origini comuni sembrano essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per essere smantellato.
Le nostre mani hanno sparso questo sangue (…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.
Abbiamo scelto di opporci ai muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all’attuale stato depressivo, oppressivo e violento della nostra società.
Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la riparazione, la pace e l’uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l’uno con l’altro in pace, con l’aiuto di dio, Insha’Allah.

Fonte italiana e nota di Osservatorio Iraq, Medioriente e Nordafrica http://osservatorioiraq.it/

*Traduzione dall’ebraico all’inglese di Idit Arad e Matan Kaminer. La lettera, pubblicata originariamente sul sito Haokets, è stata pubblicata in inglese sul magazine israeliano +972mag , che ringraziamo per la gentile concessione. Al link originale la lista dei cittadini israeliani che hanno firmato la la lettera. La traduzione in italiano è a cura di Stefano Nanni e Anna Toro.

Riforme, la resistenza tradita

costituzione_italianaNella settimana appena iniziata si giocherà una partita decisiva per la Repubblica. Quel progetto di scompaginare l’architettura dei poteri come disegnata dai costituenti, che è stato il chiodo fisso della grande riforma propugnata da Berlusconi, sfociata nella riforma della II parte della Costituzione che il popolo italiano ha bocciato con il referendum del 25/26 giugno del 2006, sta per andare in porto con nuove forme e grazie ad un nuovo attore politico. Per quanto articolato diversamente, si tratta dello stesso progetto politico-istituzionale.

Esso si sviluppa su due fronti: la riforma elettorale e la riforma costituzionale. Questi due cantieri interagiscono fra loro e puntano a realizzare il medesimo obiettivo: cambiare i connotati alla democrazia italiana realizzando un sistema politico che il compianto prof. Elia qualificò come “premierato assoluto”. Quel sistema di pesi e contrappesi che i costituenti, memori dell’esperienza fascista, avevano delineato per scongiurare il pericolo della dittatura della maggioranza, sarà profondamente squilibrato per realizzare un nuovo modello istituzionale che persegue la concentrazione dei poteri nelle mani del capo dell’esecutivo, a scapito del Parlamento e delle istituzioni di garanzia.

Non ci sarà più la centralità del Parlamento, anzi il Parlamento sarà dimezzato con l’eliminazione di un suo ramo, poiché il nuovo Senato sarà sostanzialmente un ente inutile che non potrà interferire nell’indirizzo politico e legislativo. Dalla Camera dei deputati saranno espulse molte o quasi tutte le voci di opposizione, il Governo eserciterà un potere di supremazia sulla Camera attraverso l’istituto della tagliola e del voto bloccato. La minoranza che vincerà la lotteria elettorale, controllerà il Parlamento, si impadronirà facilmente del Presidente della Repubblica, eleggerà i 5 giudici costituzionali di competenza delle Camere ed influirà sulle nomine di competenza del Capo dello Stato.

Le istituzioni di garanzia formalmente resteranno in piedi ma saranno addomesticate per non disturbare il navigatore. Sarà sempre più difficile contestare scelte inaccettabili dell’esecutivo (si pensi al nucleare) attraverso il ricorso al referendum popolare, dato l’innalzamento a 800.000 della soglia delle firme necessarie. Le scelte che si faranno in questi giorni in Senato saranno cruciali perché la riforma del Senato è l’indispensabile presupposto della riforma elettorale e non saranno possibili modifiche quando ci sarà la seconda lettura. É questa l’ultima trincea dove si difende quel testamento di centomila morti che ci ha consegnato la Resistenza. Poche cose ci chiedono i nostri morti, diceva Calamandrei: non dobbiamo tradirli.

Domenico Gallo

Sette osservazioni sulla crisi ucraina

Neonazisti ucraini della rivolta Maidan
Neonazisti ucraini della rivolta Maidan

La reazione russa era obbligata. Apre scenari da brivido, ma segue ferreamente e coerentemente la logica della III guerra mondiale in cui il mondo è immerso.

Prima osservazione. La crisi in corso in Ucraina è l’ennesima riprova che le crisi sistemiche portano inesorabilmente a guerre mondiali. Per favore, basta stupirci delle guerre. La crisi sistemica del Seicento fu risolta dalle guerre anglo-olandesi che durarono più di vent’anni. La crisi sistemica scorsa fu risolta da una guerra mondiale di trent’anni che iniziò nel 1914 e terminò solo nel 1945. La guerra mondiale scatenata dall’odierna crisi sistemica è iniziata ufficialmente l’11 settembre del 2001, cioè tredici anni fa e oggi rischia di entrare in una fase nuova e più devastante.
Seconda osservazione. L’odierna crisi sistemica, si è conclamata ufficialmente il 15 agosto del 1971 quando Nixon dichiarando che il Dollaro non era più convertibile in oro, dichiarò implicitamente che la moneta imperiale era garantita esclusivamente dalla potenza politica, militare, diplomatica, culturale e solo infine economica degli Stati Uniti. Gli stessi motivi per cui quella moneta aveva corso mondiale obbligatorio. Basta, per favore, ripetere che la crisi attuale è iniziata con lo scoppio della bolla dei subprime o, al più, con quella della “New Economy”. Sono due episodi della crisi sistemica principale.
Terza osservazione. La crisi ucraina sembra confermare l’ipotesi che ho avanzato in “Al cuore della Terra e ritorno”: siamo entrati in una fase di deglobalizzazione, ovvero di suddivisione del sistema-mondo in compartimenti geo-economici separati e potenzialmente contrapposti. Un’altra conferma è il Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), cioè la cosiddetta “Nato economica”, in corso di negoziazione. Di conseguenza la finanziarizzazione come l’abbiamo sperimentata a partire dal Volcker shock del 1979 e poi diventata virulenta negli ultimi venti anni, subirà una radicale trasformazione, dato che era sostenuta dalla globalizzazione. In relazione a questa accezione del concetto di “finanziarizzazione”, dobbiamo aspettarci una fase di definanziarizzazione che accompagnerà, anche se non in modo meccanico, quella di deglobalizzazione. Questa definanziarizzazione richiede di scambiare il più possibile valori finanziari con valori reali. Il che, in parole povere, vuol dire cercare di riempire un enorme sacco vuoto con ricchezza reale, cosa che non può non portare a disastri e scompensi per innanzitutto richiede un aumento del saggio di profitto (da cui le “riforme del lavoro”) e l’assalto all’arma bianca del dominio pubblico. Come placebo per l’ormai irrecuperabile “piena occupazione”, al fine del necessario controllo sociale verrà probabilmente introdotto un “reddito di sussistenza”, operando così una ghettizzazione istituzionalizzata di parti sempre più ampie delle crescenti “classi subalterne”, per più di una generazione. Uno scenario sociale, culturale e antropologico agghiacciante.
Quarta osservazione. Con la crisi ucraina gli Stati Uniti e la Nato sono ritornati ai vecchi amori della Guerra Fredda: le forze politiche fasciste. L’accoglienza di Kerry al nazista Oleh Tjahnybok, leader di Svoboda, ne è l’emblema. Nel 2009 era stata la volta dell’Honduras a subire un golpe old fashion orchestrato dall’entourage della famiglia Clinton ed eseguito da gorilla fascistoidi addestrati nella “Scuola delle Americhe”. In Medio Oriente ormai non si nasconde più l’utilizzo imperiale di manovalanza fondamentalista antidemocratica. Ad ogni modo, in Europa era dai tempi del colpo di stato dei colonnelli in Grecia che non si assisteva più a un uso aperto di personale fascista in Europa (utilizzo coperto c’è stato invece ad esempio durante le guerre che hanno distrutto la Jugoslavia. Anzi, possiamo considerare le guerre nei Balcani un punto di snodo, in cui forse per la prima volta cooperarono con le forze imperiali sia fascisti sia jihadisti. La differenza è che oggi, per l’appunto, il loro utilizzo è palese, aperto, quasi rivendicato.
Quinta osservazione. Il ricorso da parte imperiale di forze che formalmente sono direttamente contrastanti coi valori professati dall’Impero, è un probabile sintomo dell’indebolimento delle sue capacità egemoniche, cioè delle sue capacità a far condividere come universali i propri interessi particolari. Da tempo, infatti, il “modello” occidentale ha dimostrato di non essere in grado di essere universalmente applicato e di creare più problemi di quanti ne riesca a risolvere, sia in termini di sviluppo, sia in termini di stabilità sociale e internazionale.
Sesta osservazione. Il colpo di stato in Ucraina (ché tale è stato, indipendentemente dal fatto che il regolarmente eletto presidente Janukovič fosse corrotto e incapace), eseguito come avevo previsto assieme ad altri osservatori, pochi purtroppo, durante lo svolgimento dei giochi olimpici di Soči, è avvenuto grazie a finanziamenti statunitensi e tedeschi (non solo accertati, ma addirittura dichiarati), è stato politicamente sostenuto, a volte persino in loco, da pezzi grossi della politica e della diplomazia Atlantica (Kerry, McCain, Ashton) e infine è stato attuato utilizzando reparti paramilitari fascisti a volte addestrati direttamente in basi Nato. In poche parole, è stato un assalto atlantico alle frontiere occidentali della Russia, con ciò stracciando in una volta i Trattati di Parigi ed Helsinki su cui si basava la sicurezza collettiva europea dopo la fine dell’Urss.
E’ stata quindi una mossa pericolosissima, cosa che testimonia delle gravi difficoltà che l’Occidente sta sperimentando a causa della crisi sistemica.
Settima osservazione. La reazione della Russia era obbligata. Ciò non vuol dire che non apra scenari da brivido, ma solo che segue ferreamente e coerentemente la logica della terza guerra mondiale in cui siamo immersi. L’avventurismo occidentale, che è testimone di una preoccupante dose di arrogante disperazione, sta nel fatto che si è compiuta la mossa ucraina pur sapendo che al 90% Mosca avrebbe reagito in modo brutale e deciso. Do per scontato che le dinamiche concitate di questo scorcio di crisi sistemica possano indurre anche mosse particolarmente pericolose e imbecilli. Ma qui mi sembra che siamo di fronte a una inquietante amnesia storica. Non ci si ricorda più che la Russia (e spero che si capisca perché non dico “Unione Sovietica” in questo contesto) al costo di centinaia di migliaia di morti sgominò la VI armata del generale Friedrich Paulus a Stalingrado, invertendo le sorti della II Guerra Mondiale? Non ci si ricorda più che la Russia al prezzo di venti milioni di morti ricacciò i nazisti fino a issare la bandiera rossa sul Reichstag? Si pensa che quelle cose siano successe perché c’era Stalin al Cremlino? Sbagliato. Stalin ebbe bisogno di evocare non una resistenza comunista, bensì la Grande Guerra Patriottica benedetta dai pope.
Una guerra le cui radici affondavano totalmente nella tradizione russa, dove i Tedeschi erano i Cavalieri Teutoni e l’Armata Rossa gli stormi di contadini-soldati guidati dal principe Aleksandr Nevskij.
Non dice niente il fatto che Putin abbia avuto per la Crimea anche l’appoggio delle opposizioni?
Cosa credete che pensino i Russi quando vedono i nazisti della Galizia prendere in ostaggio le piazze ucraine? Non si chiamava “Galizien” la prima unità non tedesca di SS?
Se i decisori occidentali non hanno più voglia di leggersi la Storia si vadano almeno a vedere il film di Eisenstein e quando i Cavalieri Teutoni caricano i Russi sul lago Peipus gelato si facciano venire anche loro un po’ di sano, istruttivo e saggio gelo alla fronte vedendo come è andata a finire.

Morale. C’è necessità di Pace. C’è un’enorme necessità di Pace. C’è un’urgentissima necessità di Pace. Per il nostro Paese c’è bisogno di una politica di neutralità. Innanzitutto dovrebbe ritornare a svolgere quel ruolo di mediazione che lo ha contraddistinto a partire dalla fine della II Guerra Mondiale almeno fino all’inizio degli anni Novanta. Già questo sarebbe un notevole passo avanti. Alternativamente, il nostro Paese potrebbe essere tirato dentro una guerra devastante in men che non si dica, senza che nemmeno se ne accorga. C’è bisogno che si rilanci un movimento di pacifismo attivo. C’è bisogno di capire che guerra e crisi sono due facce della stessa medaglia.
C’è bisogno di un rilancio dell’idea stessa di “democrazia”. All’inizio della crisi, tra gli anni Sessanta e Settanta c’era coscienza di ciò. Oggi che questa coscienza è ancora più necessaria di allora siamo invece paralizzati in uno stato catatonico sia delle capacità di analisi e comprensione, sia di quelle di mobilitazione politica. Non abbiamo più la capacità di elaborare un’idea indipendente, che guardi al di là del nostro naso. Al massimo siamo al carro dei problemi suscitati dall’avversario e riusciamo – spesso malamente – solo a ragionare su quelli.
Eppure siamo di fronte a un cambio di civiltà. Forse a un cambio dell’idea stessa di civiltà. Dovremmo con tutte le nostre forze evitare che ciò si trasformi in una catastrofe, perché la catastrofe non è assolutamente ineluttabile (la storia del mondo è piena di cambiamenti di civiltà), ma evitarla dipende da noi. Eppure non riusciamo a far niente e la catastrofe la rischiamo in continuazione.

Piero Pagliani (da http://realtofantasia.blogspot.it)

I simboli nazisti ufficializzati in Ucraina a livello statale

Secondo la logica dei politici ucraini, dopo la svendita della proprietà nazionale agli oligarchi delle multinazionali occidentali, dopo il colpo di grazia all’economia locale, dopo lo smantellamento dei sindacati attraverso i roghi e gli assalti violenti alle riunioni sindacali da parte dei neonazisti e tifosi di calcio pilotati dalle organizzazioni governative, dopo i genocidi compiuti nelle regioni in cui la maggioranza dei cittadini non accettano il potere dei golpisti e rimangono fedeli alla Costituzione, il passo successivo per dare al Paese un taglio “moderno” e “democratico” è senz’altro l’ufficializzazione dei simboli del nazismo. Gli uomini del potere di Kiev lo sanno bene e si abbandonano di gusto alla nostalgia per i tempi in cui i loro antenati “patrioti” e “difensori dell’integrità nazionale” collaboravano con Hitler, sterminando centinaia di migliaia di civili ebrei, ucraini, russi, polacchi, bielorussi. La propaganda del nazismo è diventata l’apoteosi del nuovo regime portato al potere con il golpe di Maidan. Sulla TV Ucraina va in onda in continuazione una variante distorta della storia, in cui presentano in chiave eroica e gloriosa i personaggi che si sono macchiati di terribili crimini contro l’umanità, come il boia nazista Stepan Bandera, il fondatore dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA), nonché il collaborazionista e filo-nazista a cui si ispirano i moderni movimenti neonazisti ucraini, in particolare Pravy Sektor (Settore destro), i membri del quale oggi ricoprono alte cariche nel governo e nel parlamento ucraino. Persino qui in Italia il rappresentante del potere golpista ucraino, niente di meno che l’ambasciatore in persona Yevhen Perelygin, non è riuscito a trattenere la sua esaltazione nazista, urlando in pubblico “Viva Bandera!”, per replicare alle proteste degli aderenti al comitato di solidarietà all’Ucraina antifascista in occasione della sua visita al rettorato dell’Università di Catania. Con questa semplice e apparentemente innocente frase (che non è stata notata da nessuno dei nostri politici o giornalisti) il rappresentante ufficiale dell’Ucraina ha chiarito i valori che il suo paese porta da noi in Europa Unita: xenofobia e razzismo ottusamente mascherati dietro i concetti di “democrazia” e “libertà”, che ci propone elogiando il regime nazista, approvando gli stermini di massa che avevano decimato la popolazione dell’Europa ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Ma il nuovo governo ucraino è andato ben oltre la banale rivalutazione storica dei criminali nazisti. Si è sentito talmente motivato e giustificato dall’appoggio dei protettori di Washington e di alcuni “illuminati” dell’UE da ufficializzare al livello statale anche i simboli nazisti. L’esempio migliore è lo stemma del reparto militare Azov composto da volontari provenienti dalle organizzazioni neonaziste ucraine che fa parte dell’esercito ucraino ed è oggi impegnato nel genocidio contro le popolazioni del Sud-Est ucraino che alcuni dei nostri politici e gran parte dei giornalisti ancora si ostinano a chiamare “operazione antiterroristica”. Questa “gloriosa” unità di boia nazisti si è già macchiata di molti crimini contro i civili, a cominciare dal massacro dei pacifici manifestanti a Mariupol, donne e uomini usciti a protestare contro la politica violenta del governo golpista, agli ultimi casi di fucilazione di massa dei difensori del Sud-Est feriti e massacrati direttamente sui letti dell’ospedale. Lo stemma del battaglione Azov riporta fedelmente un simbolo germanico che si chiama Wosfsangel, che sarebbe “dente di lupo”. Questo simbolo ha le origine runiche ed era adottato da numerose unità militari della Germania nazista. E nonostante i crimini compiuti dal nazismo condannato da tutta l’umanità, nessuno qui da noi, nell’Europa moderna, si scandalizza se nell’Ucraina golpista vengono usati i simboli nazisti, prima dai delinquenti violenti di Maidan e poi un’unità dell’esercito regolare. Qual è la prossima tappa? Lo sterminio dei propri cittadini che non acconsentono al potere del golpe, la censura, gli assassini dei giornalisti? O, scusate, che distratto, sta già accadendo! Persino il nostro connazionale, il giornalista Andrea Rochelli e il suo collega russo sono stati barbaramente uccisi dai nazisti dell’esercito di Kiev. E nessuno qui ha dato spazio a questa tragedia, nessuno ha raccontato la storia di Andrea, nessuno ha parlato della sua famiglia, nessuno ha condiviso con la sua nazione il momento dell’addio, dei suoi funerali. Che vergogna… Giocando con l’ideologia nazista gli ucraini e i loro sostenitori europei e americani non si rendono contro che stanno giocando con il fuoco. Contagiati dalla febbre della nostalgia, i politici e molti cittadini ucraini dimenticano che si tratta di un sentimento molto pericoloso, che a volte può fare dei brutti scherzi, può portare verso le situazioni che si ritorcono contro. La Storia ha molti esempi di questo genere, basterebbe studiarla attentamente e imparare dalle esperienze umane del passato. Ovviamente questo richiede tempo, che purtroppo molti di loro preferiscono investire nelle manifestazioni pro golpiste, saltando e urlando in un’euforica estasi nella venerazione nazista.

Nicolai Lilin (da http://lilin.blogautore.espresso.repubblica.it/)

 

Lorenza Carlassare: Immunità, con questo Senato discussione ridicola

Assemblea della sinistra, promossa dalla FiomL’intervista di Radio Popolare a Lorenza Carlassare:

Come andrebbe risolta la questione dell’immunità di cui tanto si parla in queste ore?

Se non fosse tragico sarebbe ridicolo. Ieri ho sentito che la ministra Boschi diceva di voler trovare una mediazione. La mediazione si ha tra persone che vogliono cose diverse. Sull’immunità nessuno la voleva. Tra chi mediano? Nessuna l’aveva messa, nessuno l’aveva pensata, che allora la eliminino, che mediazione è?
Ho sentito anche qualcuno dei miei colleghi parlare del ’700, delle origini celebri dell’immunità parlamentare, ma si sono dimenticati di ricordare da chi allora ci si voleva difendere. Già nel medioevo inglese le rivendicazioni delle libertà parlamentari nascevano dall’esigenza concreta, quotidiana, politica, di garantirsi dalle interferenze del re nell’attività parlamentare e più tardi viene addirittura codificata la regola del Bill of right nel 1689 che la libertà di parola, discussione e di azione in parlamento non può essere contestata in sede giudiziaria. Per difendersi. In Francia, quindi un secolo dopo, alla fine del ’700, mentre il re era pronto a usare la forza contro i rappresentanti del terzo stato riuniti in assemblea generale, Bailly disse “la nazione riunita in assemblea non riceve ordini da nessuno”. E si approvò una dichiarazione che sanciva l’inviolabilità della persona, di ciascun deputato, che discende dai principi che “nessun centro di potere può ergersi al di sopra del corpo rappresentativo della nazione” (Robespierre). Qui è tutto ridicolo: il re non c’è, i giudici non sono i giudici del re, del governo, da chi si devono difendere? Loro non sono i rappresentanti della nazione perchè non sono nemmeno eletti (questi del nuovo senato).

Nella Costituzione italiana l’immunità era stata prevista secondo quale ragionamento?

Quando siamo passati dalla monarchia alla repubblica è rimasta nella costituzione l’immunità, sempre per ragioni più fragili però sempre opportune. Una cosa rimane importante. La riforma del 1993 ha tolto il secondo comma dell’articolo 68, che prevedeva due cose: l’insindacabilità e questa va benissimo, questa deve rimanere per chiunque: i membri del parlamento non possono essere perseguiti – oggi è scritto chiamati a rispondere, un cambiamento semantico importante – per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Questa è l’insindacabilità, questa è corretto che ci sia.
La seconda cosa era l’immunità, che chiedeva l’autorizzazione della camera per sottoporre a procedimento penale, che è stata tolta. E’ arrivata l’autorizzazione a procedere per gli arresti, le perquisizioni, le intercettazioni e i sequestri di corrispondenza. Questa no, non deve rimanere per sindaci e presidenti di regione spesso indagati.
Io vorrei però sottolineare una cosa importante: la prassi che è stata usata. Dopo la riforma del 1993 rimane l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio della funzione. Invece le camere cosa hanno fatto per difendersi fortemente, al massimo, hanno allargato il concetto di “opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni”  fino a comprendere in pratica tutte le attività, ogni espressione di pensiero di ogni parlamentare.
La garanzia del secondo comma viene spostata nel primo, per estendere le garanzie e la difesa.
Allora che resti solo l’insindacabilità – senza parificare deputati e senatori perchè i deputati sono eletti dal popolo, mentre questi sono (in qualche modo nominati) dalle segreterie dei partiti. Vengono sì eletti, ma si elegge quello che il partito offre.
Io sono molto contraria a questa riforma perchè la vedo globalmente come il desiderio di togliere la popolo qualsiasi possibilità di interferire, la legge elettorale che mette la soglia di sbarramento all’8% per i partiti non coalizzati vuol dire togliere le minoranze. C’è il desiderio di andare avanti senza impacci.
Bisogna stare attenti quando si riducono gli spazi di democrazia e le garanzie, le minoranze espulse, un senato non elettivo…. questo senato non elettivo: o ne fanno un espressione che sia solo relativo alle questioni regionali, e allora più che un senato diventa un organo di consulenza. Ma qui si sta giocando male perchè ci sono delle funzioni importantissime che gli sono attribuite: ha la funzione legislativa più elevata possibile perchè nel progetto questo Senato che non è un Senato, è uno “sgorbio”, concorre insieme all’altra camera alla riforma della costituzione. Quindi una legge di riforma costituzionale, che è la più importante, è di competenza anche di quest’organo. Allora il discorso cambia. Io accetto il discorso di un senato delle autonomie ma non di un senato nominato così, che partecipi alla formazione della corte costituzionale su cui è tanti anni che vogliono mettere le mani.

Il suo giudizio è che questo “sgorbio” sia frutto di insipenza o di mediazioni eccessive, sbagliate…?

Non credo sia insipienza, il mio giudizio è che questo sgorbio sia frutto di un disegno che va avanti da tantissimi anni di cambiare la costituzione. E quando loro parlano di cambiare la costituzione non pensano ad alcune modifiche, pensano di toccarne il cuore, quella che è la sua forma e cioè la democrazia costituzionale. Democrazia costituzionale non vuol dire totalitaria o maggioritaria dove chi vince ha tutto, ma vuol dire limiti e regole al potere. Il costituzionalismo nasce per questo, per porre limiti e regole al potere. Il potere non le vuole e quindi reagisce in modi più o meno educati a seconda del momento storico e dei personaggi. Io sono veramente ostile. Se questo senato fosse un organo di consulenza e basta a me andrebbe anche bene, ma allora non devono dargli il potere di revisione costituzionale. Questo è inammissibile, veramente inammissibile. Devo dire la verità che mi sono un pò scoraggiata in quest’ultimo periodo, vedo che tutti saltano sul carro dei vincitori, anche alcuni miei insospettabili colleghi.
Devo aggiungere una cosa: tra le mediazioni possibili inserire la corte costituzionale nelle questioni politiche è un modo per ammazzare la corte, delegittimarla, sottoporla a critiche per il suo operato e ingombrarne inutilmente il lavoro. La funzione della corte andrebbe allargata nelle verifiche dopo le elezioni, per dire era ineleggibile.  Facciamo l’esempio di Berlusconi. Quando è stato eletto non era eleggibile, c’era una legge che lo vietava perchè era titolare di una concessione pubblica. Il parlamento ha detto che andava bene lo stesso, perchè tanto non era lui che gestiva ma gestiva Confalonieri. Le varie forze politiche non sono una garanzia, negli altri paesi queste questioni dell’ineleggibilità sono gestite dalla corte costituzionale, sia in Francia che in Germania.
Questo darei alla corte.

Il grande assente

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Il principio della resistenza è descritto nella Costituzione francese del 19 aprile 1946, articolo 21: “Qualora il governo violi le libertà e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza sotto ogni forma è il più sacro dei diritti e il più imperioso dei doveri». Nella Costituzione Italiana non c’è un articolo che afferma questo principio ma Giuseppe Dossetti e Teresa Mattei, due dei padri costituenti, lo volevano inserire tra i principi fondamentali della Costituzione: l’iter dell’articolo di Dossetti si concluse con un voto finale negativo e così il diritto di resistenza non è entrato a far parte del testo definitivo. Questo è un articolo di Federico Bernini che tratta di questo argomento:

Quando qualche giorno fa Alessio Ciampini, mi ha chiesto se avessi voluto dare un contributo al blog “Fuoricomeva?” con un articolo sulla Costituzione italiana ho accettato volentieri.
Mi sono chiesto quale degli articoli avrei potuto prendere come spunto e quale taglio dare al testo.
Ho scelto di lavorare sull’assenza. Ho voluto scrivere un articolo su un argomento noto, ma credo oggi di grande attualità; mi riferisco all’Articolo sul Diritto di Resistenza, che Giuseppe Dossetti, partigiano, cattolico, padre costituente, membro di spicco della Democrazia Cristiana, che si allontanò dalla politica, divenendo sacerdote nel 1959, propose all’Assemblea Costituente e che non fu approvato.
Nella proposta di Dossetti, l’Articolo sul Diritto di Resistenza avrebbe dovuto essere l’Articolo 3 dei Principi Fondamentali della Costituzione Italiana.
Molto amico di Teresa Mattei, visse una vita complessa e travagliata, caratterizzata da una grande passione politica, da una spiccata sensibilità umana e da una continua ricerca verso il perfezionamento del sistema democratico.
L’orrore della Seconda Guerra Mondiale e la drammatica esperienza del Nazifascismo lo indussero, su ispirazione dell’Articolo 21 della Costituzione francese del 1946, a formulare questo articolo:

La resistenza, individuale e collettiva agli atti dei pubblici poteri, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti
dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino.

È questo l’abituale principio della resistenza, logico corollario dei due articoli precedenti.
Dossetti era presente insieme a Teresa Mattei a Marzabotto, poco dopo la fine della guerra, quando i cadaveri della strage furono disseppelliti dalle fosse comuni. A Marzabotto scelse di essere seppellito, quando nel 1996, a causa di un tumore morì.
Come dicevo prima, questo articolo manca nella nostra Costituzione, è un’assenza, di cui però vale la pena parlare e che ci consente di riflettere su alcuni temi come le forme di resistenza civile e culturale o le forme di critica organizzata che hanno visto molte soggettività esprimersi sulla tutela dei beni comuni, di quelli artistici e architettonici, fino a quelli paesaggistici.
Comitati, intellettuali, associazioni e cittadini hanno assunto implicitamente il diritto di resistenza come strumento di critica, analisi, confronto e proposta davanti a una manifestata assenza di interesse pubblico in alcune scelte dei governi o delle amministrazioni locali.
Non solo il Diritto di Resistenza rappresentava una forma di ulteriore tutela dei cittadini e della forma democratica dello stato, ma incarna nella sua essenza la sovranità popolare all’interno di un sistema democratico e repubblicano.
Riconoscere la legittimità di una forma di resistenza qualora i diritti fondamentali della Costituzione siano traditi o eliminati sancisce la responsabilità e l’autonomia dei cittadini e il loro diritto a svolgere un ruolo di critica e di contestazione costruttiva.
La sola obbedienza non salva l’anima delle persone e neppure i diritti acquisiti e previsti dalla Costituzione. Basti pensare al testo fondamentale di Hannah Arendt, La banalità del male, dove il solo fatto di aver obbedito a degli ordini non sollevò i militari tedeschi dalle loro responsabilità nel realizzare il piano di distruzione di massa hitleriano.
Oggi in Italia esistono delle esperienze di resistenza civile, penso ai comitati per l’acqua, che hanno saputo costruire un movimento trasversale e di base che è stato capace di rivendicare una piattaforma comune sull’acqua bene comune e pubblico. Difronte al rischio di una selvaggia privatizzazione dei sistemi idrici, i cittadini hanno saputo unirsi, resistendo ad un processo che sembrava ormai già segnato: il risultato è stata la nascita dei referendum che hanno dato ragione ai motivi della “resistenza” dimostrando l’importanza di rivendicare con azioni pratiche e concrete forme di resistenza ai dettami dei poteri, politici e di lobby di interesse.
Sarà che Dossetti era un cattolico e forse questo in modo decisivo ha influito sulla sua spiccata umanità, sarà per l’esperienza da partigiano o perché visse gli orrori del nazifascismo, ma indubbiamente la sua testimonianza ci lascia quantomeno un monito importante, che la Costituzione e i suoi Principi Fondamentali vanno sempre difesi poiché garantiscono diritti, dignità, sviluppo a tutti i cittadini.
A questo proposito mi viene in mente un’altra recente forma di resistenza civile e culturale di cui ci parla Tomaso Montanari nel suo ultimo libro, Le pietre e il popolo, edito da Minimum Fax, e che fa riferimento in modo sostanziale all’Articolo 9 della Costituzione Italiana: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
Il libro è un bell’esempio di cattive pratiche italiane, a vario titolo connesse con la cultura, i beni artistici e paesaggistici italiani, dove la cancrena, la disattenzione e la modalità clientelare parte da degenerazioni interne allo Stato che avalla o comunque tace su evidenti scempi o palesi ingiustizie.
Una per tutte la questione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini di Napoli, vittima di un saccheggio sistematico di testi antichissimi da parte del suo direttore e complici alte cariche dello Stato con la silente “distrazione” dei due Ministri della Cultura, Galan e Ornaghi (per un approfondimento maggiore della questione cfr. Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Ed. Minimum Fax, pag. 39; Salvatore Settis).
Resistere ad uno scempio del genere, perpetrato nella noncuranza e nell’assenza di controllo da parte delle autorità preposte impone, per la salvaguardia di un patrimonio nazionale inestimabile, ma anche come esempio di buone pratiche, di resistere, di indignarsi e di procedere secondo i diritti che la Costituzione consente di attivare.
Il grande assente, il Diritto di Resistenza, di per se si presta a interpretazione e a strumentalizzazioni, inevitabilmente parlare del diritto di resistenza in questi giorni ci rimanda ai ricordi della primavera araba o più recentemente alle manifestazioni al Gezy Park di Istanbul. Il diritto di resistenza prevede o può prevedere la violenza?
La domanda è d’obbligo ma soprattutto le possibili risposte aprono scenari diversi. Ritengo che i contesti nei quali si sviluppano forme di dissidenza e critica, capaci di trasformarsi in atti di resistenza, determinino le modalità con cui la resistenza di sviluppa. Certo che se guardiamo alla Turchia, tutto nasce da una manifestazione pacifica di cittadini che volevano difendere uno spazio pubblico, un bene comune contro l’ennesima forma di speculazione edilizia. In questo caso dunque il rapporto e lo scontro si è creato tra la difesa di uno spazio pubblico e l’interesse privato del mercato. La repressione della polizia e del Governo di Erdogan e le evoluzioni successive in scontri rappresentano una conseguenza, evitabile, all’atteggiamento violento e intransigente del Presidente Turco.
La ridefinizione dei rapporti tra politica, governo e cittadini aiuterebbe a ricostruire intorno alle questioni importanti un discorso pubblico capace di rispondere ai bisogni e stimolare la partecipazione; altrimenti se tutte le decisioni e le questioni che riguardano i territori sono prese in forma privata o peggio ancora assecondando gli interessi di pochi, la frattura si allarga e le forme di distacco diventano sempre più profonde.
Forse se questo atteggiamento fosse stato tenuto anche per le questioni legate alla TAV in Val di Susa ci sarebbe stata la possibilità di costruire un percorso condiviso e certamente meno traumatico.
Chiudo rimandando ad un bel libro di Salvatore Settis, Azione popolare, ed. Einaudi, che ci aiuta a comprendere come le forme di “resistenza” passano attraverso modalità di condivisione e di partecipazione vera, ma soprattutto rappresentano il filtro di quei dodici Principi Fondamentali che i nostri padri costituenti vollero inserire come prima parte della nostra Costituzione. (di Federico Bernini da http://www.fuoricomeva.it)

10 giugno 1924: uccisione di Giacomo Matteotti

matteotti“Io il mio discorso l’ho terminato,ora preparate il discorso funebre per me”, così Giacomo Matteotti, parlamentare e segretario del partito socialista unitario, terminò il suo intervento alla Camera dei deputati il 30 maggio del 1924.
In quell’intervento con la passione civile di sempre e con la consueta stringente concatenazione dei fatti, Matteotti elencò tutte le nefandezze delle quali si erano rese protagoniste le camice nere di Mussolini.
Alla fine del suo intervento, più volte interrotto dagli schiamazzi e dalle volgarità dei fascisti, il deputato socialista così concluse: “Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni”. Si riferiva alle elezioni politiche vinte da Mussolini e dai suoi alleati.
Quell’elenco era talmente dettagliato e documentato da suscitare l’attenzione della stessa stampa estera,in particolare di quella inglese. In quella medesima occasione preannunciò un secondo intervento che avrebbe dovuto pronunciare l’undici giugno, e nel quale, oltre ai brogli, avrebbe denunciato la maxi tangente che il gruppo americano Sinclair Oil aveva probabilmente versato ai fascisti in cambio della concessione per la ricerca e lo sfruttamento di eventuali giacimenti petroliferi.
Nei giorni successivi si dedicò alla stesura di quella denuncia e raccolse la documentazione nella sua borsa.
Il 10 giugno del 1924, mentre si recava alla Camera dei deputati, un gruppo di fascisti, ben noti al partito e a Musssolini, rapivano ed ammazzavano Matteotti. Li guidava Amerigo Dumini, in seguito furono condannati a 5 anni per omicidio preterintenzionale, i mandanti, ovviamente, restarono al governo, anzi intensificarono la stretta repressiva, sino alla sospensione di tutti i diritti politici e civili.
La borsa di Matteotti non fu mai ritrovata, così come non saranno ritrovate nei decenni successivi, altre borse scottanti o agende compromettenti.
“Uccidete pure me, ma un ucciderete mai le idee che sono un me”, aveva urlato in faccia alle camice nere, Giacomo Matteotti, qualche mese prima di essere ammazzato. (di Beppe Giulietti da “Il Fatto”)