È tradizione consolidata in Italia che, ogni volta che il Papa apre bocca, si leva dai politici un coro bipartisan di consensi. Ora però Papa Francesco si è espresso contro la guerra, riferendosi implicitamente ma chiaramente all’attacco in preparazione contro la Siria. E si è chiesto: «Questa guerra di là, quest’altra di là – perché dappertutto ci sono guerre – è davvero una guerra per problemi o è una guerra commerciale per vendere queste armi?». Di fronte a tale presa di posizione e alla vasta mobilitazione popolare che la sostiene, i coristi si sono ammutoliti. Praticamente assenti, sui media, i soliti plausi del presidente della repubblica, del capo e dei membri del governo, dei segretari dei maggiori partiti.
In compenso, il segretario del Pd Guglielmo Epifani ha lodato il governo perché ha fatto «una scelta giusta fin dal principio, dichiarandosi contrario all’intervento in Siria». Si è dimenticato Epifani che il giorno prima il governo Letta aveva sottoscritto, ai margini del G-20 a San Pietroburgo, la Dichiarazione sulla Siria presentata dagli Stati uniti, che condanna il governo siriano per il «terrificante attacco con armi chimiche», accusa il Consiglio di sicurezza di essere «paralizzato» (dal veto russo) e chiede «una forte risposta internazionale».
Tace Epifani anche sul fatto che l’Italia è in prima linea nella preparazione dell’attacco aeronavale alla Siria: come quello contro la Libia nel 2011, sarebbe diretto dal Comando Usa di Napoli e sostenuto dall’intera rete di basi Usa/Nato in Italia, in particolare da quelle di Sigonella e Camp Darby. Per un primo attacco, della durata di alcuni giorni, sono più che sufficienti le forze aeronavali messe in campo da Stati uniti e Francia, che lancerebbero centinaia di missili e bombe a testata penetrante. Sarebbero probabilmente impiegati anche bombardieri strategici B-2 Spirit, gli aerei più cari del mondo (oltre 2 miliardi di dollari ciascuno), già usati contro la Serbia, l’Iraq e la Libia. Concepiti per l’attacco nucleare, possono trasportare oltre 18 tonnellate di bombe e missili a testata non-nucleare.
Una partecipazione diretta italiana nella prima fase è quindi superflua sul piano militare, anche se non esclusa: con la motivazione ufficiale di proteggere il contingente italiano in Libano, è stato inviato nel Mediterraneo orientale il cacciatorpediniere lanciamissili Andrea Doria, che si aggiunge alle unità statunitensi, francesi, israeliane e turche che fronteggiano quelle russe. Situazione sempre più pericolosa: con quelle in arrivo, le navi da guerra russe nel Mediterraneo orientale saliranno a 12.
Epifani passa sotto silenzio anche il fatto che l’Italia è da tempo impegnata a sostenere la guerra interna: partecipa al gruppo intergovernativo degli «Amici della Siria» che, lo scorso giugno a Doha, si è apertamente impegnato a fornire armi ai «ribelli» (cosa che da tempo già faceva sotto direzione Cia).
Pur tacendo, il governo non ha però fatto mancare la sua presenza alla preghiera per la pace. Il ministro della difesa Mario Mauro è giunto alla veglia in piazza San Pietro, senza però rispondere ai giornalisti che gli chiedevano come possa conciliarsi la preghiera per la pace con l’acquisto degli F35. Il premier Letta è andato in chiesa a Cernobbio, ma ha taciuto quando gli hanno chiesto se partecipava al digiuno per la pace. La regola del silenzio l’ha imparata partecipando al gruppo Bilderberg, cupola dei poteri occulti, che nel meeting 2012 (sempre a porte chiuse e in silenzio stampa) ha invitato insieme a Letta oscuri «rappresentanti dell’opposizione siriana». (dal Manifesto del 10 settembre 2013)
Categoria: Articoli di Giornale
11 settembre 1973: colpo di stato in Cile
“Loro hanno la forza, potranno farci schiavi ma i progressi sociali non si arrestano né con il crimine, né con la forza, la storia è nostra ed è fatta dal popolo. Viva il Cile! Viva il popolo! Viva i lavoratori!”. Queste le ultime parole di Salvador Allende prima di essere assassinato dai golpisti cileni comandati da Pinochet e ispirati,aiutati e supportati dal governo americano che non voleva un governo marxista in America Latina. Il 24 febbraio 1974 sul settimanale “L’Espresso” compare un articolo del grande scrittore Gabriel Garcia Marquez: non si tratta di una narrazione storica ma di una ricostruzione appassionata, che utilizza tutte le fonti, i materiali, le ipotesi sul dramma cileno. “Ho scritto questa rievocazione soprattutto per far capire agli americani del nord quel che era successo sotto i loro occhi, e in parte per colpa loro” ha detto Marquez inviando il manoscritto al giornale. Questa è la parte finale dell’articolo:
“Aveva compiuto 64 anni il luglio prima ed era un leone perfetto: tenace, deciso e imprevedibile. “Quel che pensa Allende, solo Allende lo sa”, mi aveva detto uno dei suoi ministri. Amava la vita, amava i fiori e i cani, era di una galanteria un po’ all’antica, fatta di bigliettini profumati e di incontri furtivi. La sua maggior virtù fu la coerenza, ma il destino gli apparecchiò la rara e tragica grandezza di morire difendendo a colpi di mitra lo sgorbio anacronistico del diritto borghese, difendendo una Suprema corte di giustizia che l’aveva ripudiato ma che doveva legittimare i suoi assassini, difendendo un congresso miserando che lo aveva dichiarato illeggittimo ma che doveva soccombere compiaciuto davanti alla volontà degli usurpatori, difendendo la libertà dei partiti di opposizione che s’erano venduti l’anima al fascismo, difendendo tutto il bric-à-brac tarlato di un sistema di merda che egli si era proposto di distruggere senza sparare un colpo. Il dramma ebbe luogo in Cile, per sventura dei cileni, ma passerà alla storia come qualcosa che capitò a noi tutti, uomini di questo tempo, e c’è rimasto dentro, nelle nostre vite, per sempre.”
Questa è la sequenza finale del film “La memoria ostinata” di Patricio Guzman, una sequenza intensa e terribile: dopo la proiezione de “La guerra del Chile” (un documentario dello stesso Guzman sulla storia dell’esperienza di Unidad Popular in Chile) fa vedere i visi sconvolti, commossi dei giovani incapaci di dominare l’emozione che sgorga nel vedere la propria storia. Il film è una lotta contro l’oblio e la falsificazione della storia, sulla memoria negata. Come afferma José Balmes: “la memoria e l’oblio sono come il polo positivo e quello negativo della riflessione umana, ci fanno soffire e morire, ma ci permettono anche di vivere”.
http://anpimirano.it/2013/11-settembre-1973-colpo-di-stato-in-cile/
Storia di un repubblichino al soldo dei servizi segreti
C’era un uomo, una spia, prima fascista, poi al soldo dei servizi deviati, che ha attraversato tutta la notte della repubblica italiana e che è stato coinvolto nei più cruenti fatti di sangue che hanno funestato il nostro Paese almeno fino alla metà degli anni ’70, il suo nome era Berardino Andreola, ma in verità ne usava più di uno alla volta. È stato Giuseppe Chittaro e Umberto Rai quando si trattava di indicare la pista rossa di piazza Fontana al giovane commissario Luigi Calabresi; Gunter, quando avrebbe manomesso i timer che hanno fatto saltare in aria Giangiacomo Feltrinelli; Luigi De Fonseca, quando cercava di depistare e confondere le acque di chi cercava il filo che teneva la strategia della tensione e degli opposti estremismi.
A svelarne l’identità e i tanti alias è Egidio Ceccato, storico di Camposampiero che nel suo «L’Infiltrato» disegna un quadro estremamente inquietante della nostra democrazia, per trent’anni almeno tenuta sotto scacco e tutela da un «doppio stato» che ne indirizzava pancia e opinioni al fine di tenere il Paese nel solco della moderazione politica e dell’Alleanza atlantica. In altre parole quella «guerra a bassa tensione» di cui fu ideatore e organizzatore il capo del secret team della Cia Theodore Shackley. E di cui fu strumento in Italia James Angleton, capo del controspionaggio americano a Roma. Un doppio stato che non ha esitato a reclutare servitori fra i reduci di Salò, infiltrare forze armate, polizia, servizi, partiti politici, amministrazioni e aziende pubbliche.
E fino a qui si potrebbe dire che c’è ben poco di nuovo, rispetto ai sospetti e ai troppi segreti che ci trasciniamo dietro da sempre e che lasciano lo spazio alle peggiori delle ipotesi sulla nostra storia recente. La novità sta nell’aver individuato uno dei personaggi che hanno giocato da protagonisti di questa brutta storia: Berardino Andreola, appunto.
Il nostro uomo, secondo Ceccato, giovanissimo ex repubblichino, viene infiltrato tra i gruppuscoli anarchici e dell’estrema sinistra, dopo aver servito per un certo periodo nel Sud Italia.
Ceccato prende le mosse proprio da qui. Sua intenzione era lavorare alla storia di Graziano Verzotto, cittadellese, capo di una formazione partigiana bianca, che nel dopoguerra viene mandato a fare il segretario regionale della Dc siciliana. Senatore, diventa presidente dell’Esm (ente minerario siciliano) e dirigente dell’Eni di Enrico Mattei, di cui sarà il braccio destro in Sicilia. Verzotto è l’uomo indicato recentemente, post mortem, da una sentenza della corte d’Appello del tribunale di Palermo come mandante per l’omicidio del giornalista Mauro De Mauro. Una sentenza contestata e contro cui si sta battendo l’anziano fratello dello stesso Verzotto, avvocato ed ex sindaco di Santa Giustina, e, secondo Ceccato, non senza ragione.
In ogni caso Graziano Verzotto subì un tentativo di sequestro negli anni ’70 che quasi sicuramente l’avrebbe destinato a finire vittima della lupara bianca, se chi lo aveva messo in atto non si fosse dimostrato inadatto allo scopo.
Per quel delitto finì arrestato Berardino Andreola, assieme ai complici. Da qui Ceccato si ritrova a scrivere un altro libro che lo porta a seguire le tracce di Andreola fino a incrociare Pinelli, Calabresi e Feltrinelli. Il primo, com’è noto caduto dalla finestra del quarto piano della questura di Milano all’indomani della bomba alla banca dell’Agricoltura nel 1969. Gli altri due morti a pochi mesi di distanza nella primavera del 1972, proprio quando, grazie alle inchieste trevigiane dei giudici Stiz e Calogero, gli inquirenti scoprono e cominciano a seguire la pista nera veneta che conduce a Franco Freda e Giovanni Ventura; da notare che la carta d’identità falsa trovata a Feltrielli dilaniato sotto il traliccio di Segrate era stata rubata dai neri nel municipio di Preganziol, Treviso, nel dicembre del 1969; mentre i famosi timer di piazza Fontana furono venduti in via Facciolati a Padova.
Secondo Ceccato, il commissario Calabresi si sarebbe reso conto di essere stato “usato” dai servizi e che a colpire a Milano fu «una mente di destra con manovalanza di sinistra». Le stesse responsabili della sua di morte, forse.
E lo stesso Feltrinelli fu un ingenuo strumento nelle mani dei servizi e della destra, che lo fecero saltare letteralmente in aria mettendo in mano all’editore-bombarolo dei timer difettosi preparati appunto da quel Gunter che si era conquistato la fiducia tanto incondizionata quanto malriposta dell’imprenditore rivoluzionario.
Non è un libro facile quello di Ceccato, tra guerra sporca, complotti internazionali, servizi deviati, ossessioni anticomuniste, sgherri, sbirri infedeli, doppi e triplogiochisti, in cui rosso e nero si confondono e si scambiano ruoli, ferro e fuoco in una nuvola di fumo in cui è complicatissimo orientarsi. È un libro ardito che solleverà dubbi e polemiche, ma è un tentativo coraggioso e onesto di gettare un po’ di luce nel pozzo nero della nostra vita pubblica. (di Giorgio Sbrissa da “La Nuova Venezia”)
Caro nemico ti scrivo

La lettera dall’altra sponda della fine del mondo impiegò trentacinque anni per essere scritta. Fu il tempo necessario perché un ragazzo quattordicenne con la pelle penzolante dal braccio come una fodera strappata trovasse il coraggio di diventare vecchio e di non odiare più.
Akihiro Takahashi stava andando verso il suo ginnasio, alle 8 e 15 del 6 agosto 1944, quando un uomo di cui ignorava l’esistenza, ai comandi di un aereo che nessuno a Hiroshima aveva mai visto, fece volare da nove mila metri di altezza la prima bomba atomica usata in guerra sopra la sua testa, e sopra quella di altri duecentocinquantamila esseri umani.
Quando finalmente, ormai vicino ai cinquant’anni, le mani sfigurate dalle orrende cicatrici da radiazioni — i cheloidi — le orecchie dissolte nella città altoforno, gli organi interni consumati dal tenace lavoro dell’atomo, Akihiro poté finalmente guardare negli occhi colui che credeva fosse un demonio, il pilota dell’Enola Gay Paul Tibbets, vedette spuntare qualche lacrima. E pensò che fosse un uomo anche lui, al quale poter scrivere, con il quale parlare. Fu da quell’incontro diretto nel 1980, a Washington, che il ragazzo di Hiroshima e il cavaliere dell’Apocalisse cominciarono a scriversi.
Quel carteggio è improvvisamente affiorato dall’immenso serbatoio di rottami, di pezzi di vite umane, di cose e di dolore che ancora giace sotto la crosta della nuova Hiroshima. Fu il giapponese, che sarebbe divenuto direttore del Museo della Pace, costruito a pochi passi dal ponte a «T» che il bombardieredell’EnolaGayusòcome bersaglio, a impugnare il pennino buono, quello per la grafia elegante del kanji, degli ideogrammi, e a scrivere per primo.
Akihiro e Paul si erano conosciuti a Washington, nel giardino dietro al Russell Building, uno dei palazzi per gli uffici dei parlamentari, dove nel giugno del 1980 era stata organizzata una mostra sul bombardamento di Hiroshima e di Nagasaki. La tv di Hiroshima, la RCC, aveva pagato il viaggio ad Akihiro, uno degli hibakusha, i superstiti, e aveva chiesto al colonnello pilota del B-29 Enola Gay di incontrare il giapponese. Tibbets aveva accettato, molto a fatica, e sei mesi dopo, in novembre, Akihiro Takahashi trova il coraggio di spedire la sua prima lettera. Comincia, con esemplare timidezza ed educata evasività nipponica a parlare del tempo. «È quasi inverno e qui comincia a fare freddo». Ma non è del clima che vuol parlare al bombardiere. In quel novembre, l’America ha eletto Ronald Reagan presidente e la fama, ingiusta, di “cowboy nucleare” terrorizza Akihiro. «Si ricorda che cosa ci dicemmo mentre lei stringeva le mia mani e sentiva con le dita le mie cicatrici? Ci dicemmo che quando la guerra comincia, va avanti secondo i piani e le dinamiche della guerra e per questo non bisogna mai cominciarla. Io le dissi che non provavo più odio verso l’America neppure mentre ogni giorno devo combattere con le sofferenze fisiche lasciate da quel giorno e certamente non verso di lei, che eseguiva gli ordini e faceva il suo dovere… soprattutto ora che ho visto le lacrime di un cuore umano scivolarle dagli occhi». Ma, e qui viene al punto, «sono profondamente preoccupato per la politica estera del presidente Reagan… temo che si possa ancora intensificare la corsa agli armamenti nucleari. Spero che lei voglia sentire il cuore di Hiroshima e unirsi a noi nel cercare di impedire che quello che avvenne nel 1945 possa ripetersi. Dobbiamo, lei e io, tornare esseri umani, tornare al punto di partenza, dimenticare quello sfortunato evento».
Il colonnello Tibbets, divenuto nel frattempo generale e poi presidente di una società di aviazione civile impiegherà ben otto mesi per rispondergli. Scriverà a macchina, sulla carta intestata della società Aviation Jet, prendendo subito le distanze. «Chiedo scusa per il ritardo, ma molte cose sono accadute. Ho visto un bel documentario della BBC sulla mia missione e mi ha fatto piacere che abbiano rispettato i fatti, senza interpretazioni». Come per dire quello che Tibbets dirà fino alla morte, che lui aveva semplicemente eseguito, e alla perfezione, la mission, il trasporto e lo sganciamento di Little Boy, la Bomba A. Ma non fa passare la tirata su Reagan, anzi. «Sono contento che il signor Reagan sia succeduto al signor Carter. Penso che sarà un leader migliore per il mio Paese. Stia bene e in buono spirito».
La controrisposta arriva a stretto giro, appena tre settimane dopo, il 23 giugno 1982. Akihiro non molla: «Capisco che abbiamo opinioni diverse, ma mi permetta, dopo avere espresso la mia ammirazione per gli Stati Uniti, di dirle che la pace che a Hiroshima e Nagasaki sogniamo non può essere una pace costruita sulla potenza militare e sulla forza…». E qui, sempre con puntiglioso pudore giapponese, annota: «Ora devo andare tutti i giorni all’ospedale, per problemi al fegato, effetto della bomba atomica». Non lo dice, ma non ce n’è bisogno: quella bomba che tu,
Paul Tibbets, mi hai sganciato sulla testa, mentre andavo a scuola una mattina di agosto. Tibbets, il comandante di quell’aereo battezzato col nome della madre, Enola (che è lo spelling alla rovescia di Alone, sola, tratto da romanzo) non abbocca. È ancora più secco. «Le auguro che il suo nuovo incarico di direttore del Museo della Pace le dia grandi soddisfazioni e contribuisca a raggiungere quel traguardo al quale lei aspira».
Ci vuol altro per scoraggiare un uomo che camminò per ore verso il fiume sul quale galleggiavano cadaveri e dove si buttavano zombie in cerca di un impossibile refrigerio allo strazio delle ustioni. Il 5 ottobre 1982 gli scrive sei fogli fitti di ideogrammi, più disordinati, meno calligrafici, per invitare Tibbets ad apparire con lui in uno speciale della NHK, la autorevolissima tv pubblica giapponese. Gli illustra le bellezze della antiche città imperiali, Kyoto e Nara, cerca di convincerlo a vedere quella nazione nella quale Tibbets non mise mai piede dopo aver visto il fungo alzarsi fino a dodicimila
metri. Appena cinque righe: «Dopo lunga riflessione, purtroppo non posso accettare».
Paul Tibbets non risponderà mai più ad Akihiro Takahashi, che gli riscriverà quattro anni dopo, il 7 settembre del 1987, con un pretesto, una richiesta di dettagli tecnici sulla preparazione della bomba e la missione, tutte cose già notissime. È un modo per cercare di riattaccare discorso. Non funziona. Sedici anni passeranno ancora perché il ragazzo di Hiroshima, ormai ultrasettantenne riprenda calamaio, pennino e carta, nel 2003. «Sono passati vent’anni da quando ci stringemmo le mani e fui pieno di felicità e di speranza… ho lasciato il mio lavoro per il Comune di Hiroshima e mi dedico a raccontare ai bambini che cosa accadde e che cosa fare perché non accada più. Ormai ho 72 anni e non credo vivrò ancora molto. Mi farebbe felice sapere che anche lei, che deve averne ormai 90, dedicasse i suoi ultimi anni a costruire la pace». Silenzio.
L’ultima lettera di Akihiro Takahashi è del 28 agosto 2003, un altro agosto. Gli ha mosso la mano, una notizia che l’ha sconvolto. Dopo anni di abbandono, l’Enola Gay era stato recuperato, restaurato, esibito, in un hangar-museo in Virginia. La vista di quel gigante di alluminio, tornato lucido e nuovo come brillava nel sole del 6 agosto 1945, trafigge il cuore del superstite. «Fummo usati come cavie, noi abitanti di Hiroshima e Nagasaki. Quell’aereo è la testimonianza di quello che un pastore americano venuto a trovarmi a Hiroshima chiamò il “peccato mortale” degli Stati Uniti, chiedendomi di perdonare. Lei avrebbe il coraggio di dirmi la stessa cosa? Restaurare ed esibire l’Enola Gay è soltanto ostentazione, glielo ripeto, la
scongiuro, quell’aereo va distrutto». Silenzio.
Paul Tibbets morirà quattro anni dopo avere ricevuto l’ultima lettera, il primo novembre 2007. Akihiro Takahashi era stato pessimista: avrebbe vissuto ancora a lungo, dopo l’ultima lettera, perché il destino che aveva fatto di lui uno dei soli quindici sopravvissuti su settanta compagni di scuola lo avrebbe tenuto vivo fino agli ottant’anni. Morì nel 2011, il primo di novembre. Come Tibbets.
VITTORIO ZUCCONI, la Repubblica Domenica 18 Agosto 2013
12 agosto 1944: Ricordiamo quella notte in cui morì l’umanità intera

Sono trascorsi 69 anni da quella terribile mattina del 12 agosto del 1944 quando in un piccolo borgo arroccato sulle Alpi Apuane la furia nazista uccise 560 civili di cui 130 bambini. Le atrocità commesse dalle SS furono sconvolgenti. Giunsero a far partorire una donna, Evelina, e prima di ucciderla, dinanzi ai suoi occhi, spararono alla tempia del figlioletto. Furono trovati ancora uniti dal cordone ombelicale. Quella mattina di 69 anni le SS, guidate da alcuni fascisti locali, a Sant’Anna portarono l’inferno in un luogo che si riteneva fosse lontano dai venti di guerra. Ma quel giorno oltre all’eccidio delle 560 vittime, avvenne un crimine ancora maggiore che è la morte dell’uomo, della sua umanità. Un crimine, o meglio un suicidio, che la storia ci ricorda troppe volte accadere, basti pensare ai campi di concentramento, alle tante guerre che incendiano il mondo.
L’atrocità di certi atti è difficile da elaborare e così si commette l’errore di non ricordarla, è come se si innescasse nella mente un meccanismo di difesa. Freud sosteneva: “La mente allontanerà sempre, ancorché inconsciamente, la realtà dolorosa”. La realtà è che troppo doloroso concludere che in potenza ognuno di noi, se inserito in ideologie malvagie, se cresciuto in sistemi di violenza , può trasformarsi in un mostro. Ma la storia dovrebbe servire proprio a indicarci delle linee da seguire per evitare certe deviazioni. Purtroppo questo non sempre accade e l’uomo necessita di rivivere certe brutalità, spesso, invece di proporre dei modelli diversi alle violenze che si è subito, le vittime diventano carnefici.
Quello che sta patendo il popolo palestinese ne è un’aberrante prova. Per le recenti guerre che ci hanno visti anche direttamente coinvolti come in Iraq e Afghanistan, addirittura ci si erige a paladini della libertà e con questo vessillo si bombardano Paesi, si spolpano di ricchezze territori uccidendo migliaia di civili. Per non parlare poi dell’ipocrisia, anche violando l’articolo 11 della Costituzione, allorquando si parla di missioni di pace. L’ultima, in ordine di tempo, uccisione di un soldato italiano raccoglie questa incongruenza in una foto di Repubblica in cui una frase di un conoscente del caduto affermava in virgolettato che quest’ultimo era un portatore di pace, che amava la pace e in basso c’era la foto di un nostro militare armato fino ai denti pronto all’assalto.
Su questo occorre essere chiari: la pace, quella vera, la si conquista con il paziente dialogo, seminando il bene e non con le armi!
È fondamentale, specie per i più giovani, tenere viva la memoria. Ma ancora più importante è insegnare ad attualizzare ciò che è successo 69 anni fa, capire oggi dove, in che forme e per quali motivi si eserciti il male della guerra. Occorre capire insieme ai giovani il perché siamo così succubi dei potentati militari tanto che, nel nostro Paese, investiamo quotidianamente 70 milioni di dollari in armamenti e dobbiamo acquistare dei cacciabombardieri difettosi per i quali ogni singolo casco costa due milioni di dollari.
Occorre capire perché questo Sistema mondiale investa ogni anno 1.753 miliardi di dollari in armamenti quando ne basterebbero circa 40 per porre fine alla fame nel mondo.
Alla nuova generazione deve essere chiaro che le armi come deterrente e la guerra per accaparrarsi sempre crescenti risorse, per questo sistema neoliberista, sono linfa vitale. Questo Sistema della crescita infinita in un mondo finito è portatore sano di ineguaglianze come mai si sono avute in passato (ogni anno muoiono circa 50 milioni di persone per fame). Se non si cambia questo sistema le ricorrenze per ricordare il male di ieri saranno solo sterili cerimonie per ripulirsi l’anima dei crimini di oggi.
(di Gianluca Ferrara da “Il Fatto”)
12 agosto 1976: strage di Tall el Zaatar (تل الزعتر )
In origine Tall El Zaatar (la collina del timo) era una bidonville alla periferia est di Beirut in Libano. giunti i palestinesi, si trasformò a poco a poco: sorsero i palazzi, nacquero le fabbriche. Alla vigilia della guerra, la città aveva 50.000 abitanti. Poi la guerra scoppiò e la parte orientale di Beirut cadde in mano ai cristiani. Tutta, tranne la “collina del timo”.
Il 22 giugno 1976 i cristiani piazzarono intorno alla “città dei palestinesi” cannoni, razzi, mortai e seimila uomini. Cominciò l’assedio. I palestinesi non potevano arrendersi, perchè la resa avrebbe significato morte sicura. Resistettero, ma era una resistenza senza speranza: i siriani vigilavano che nessun aiuto fosse portato ai trentamila assediati, i cristiani avevano provveduto a interrompere le forniture d’acqua.
Dentro Tall El Zaatar la gente prese a morire di sete, di fame e per le ferite. Le ferite si sarebbero potuto curare ma i cristiani non permettevano l’invio di soccorsi. Il 17 luglio due medici e un infermiera svedesi lanciarono un appello alla Croce Rossa perchè fossero evaquati quattromila feriti gravi. Giunsero le ambulanze ma i cristiani le mitragliarono. Il 25 luglio crollò un palazzo e 500 civili restarono sotto le macerie. Morirono tutti soffocati, perchè i cristiani si esercitarono al tiro a segno sui soccorritori. Dal 3 al 6 agosto la Croce Rossa riuscì ad evacuare 407 civili. Ma il 7 l’organizzazione dovette desistere a causa del fuoco ininterrotto degli assedianti. All’alba del 12 agosto 1976, i miliziani fascisti della Falange, delle Tigri del Libano e i kataebisti cristiano-maroniti, penetrati a Tall El Zaatar trucidano senza misericordia gli scampati all’assedio che sono usciti dai rifugi per organizzare il trasporto dei feriti. Nelle stradine di terra c’è una caccia all’uomo feroce, anche con i coltelli. Gli uomini del campo dai 15 ai 40 anni sono tutti eliminati a freddo. Lo stesso destino capita a donne e ai loro bambini. Vengono assassinati 60 infermieri. Più tardi, in due riprese, il convoglio della Croce Rossa raccoglie direttamente dalle mani delle milizie cristiane alcune migliaia di persone. Sono contro il muro, un’immagine di vergogna. Un testimone afferma che l’entrata nord del campo, a Dekuaneh, è una visione terribile, di orrore. Per muoversi tra le stradine, dove regna l’odore del putrido, dove decine e decine di cadaveri giacciono al suolo tanto che è impossibile contarli, bisogna usare la maschera. C’è chi alla resa preferisce la morte combattendo. Chi, fatto prigioniero, è ferocemente torturato prima di essere eliminato. Alla fine i morti saranno circa 3000.
[da “La diaspora palestinese in Libano e i tempi della guerra civile”, di Mariano Mingarelli]
Comunicato del Comune di Mirano
Commemorati i bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki
Iniziative per l’abolizione delle armi nucleari
Oggi venerdì 9 agosto 2013 nel Municipio di Mirano è stato commemorato l’anniversario della tragedia di Hiroshima e Nagasaki, dove il 6 e 9 agosto 1945 vennero sganciate le bombe atomiche che provocarono decine di migliaia di morti.
Una delegazione dell’ANPI di Mirano, che ha promosso l’iniziativa, è stata è stata ricevuta dalla Sindaca Maria Rosa Pavanello, dagli Assessori Lauro Simeoni e Cristian Zara, dai Consiglieri comunali Fiorenzo Rosteghin ed Erica Brandolino, quest’ultima anche in rappresentanza del Centro Pace comunale.
La Sindaca ha aperto la cerimonia con queste parole: “Oggi siamo qui per commemorare le immani tragedie delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, indelebili macchie di sangue sulla storia e sulla coscienza dell’umanità. E quest’occasione, per onorare al meglio la memoria delle infinite vittime, deve essere anche un grido contro ogni forma di guerra e una presa di posizione salda contro ogni strumento di morte in generale e contro gli armamenti nucleari in particolare. Occorrono dei protocolli internazionali ancor più stringenti sulle armi nucleari, lungo la via che, faticosamente, ha iniziato a mettere freni alle mine antiuomo, alle bombe a grappolo, ecc. Questa non può essere che l’occasione anche per parlare di nucleare “civile”. È ancora vivo nella memoria il recente disastro ambientale di Fukushima, che ha ferito con la radioattività un’altra volta la terra di Hiroshima e Nagasaki. L’incidente alla centrale è un episodio molto diverso, certo. Ma, forse, porta impresso il marchio di quello che è uno dei più grandi difetti del genere umano, la tendenza a dimenticare, a spogliare della sua funzione educativa la storia. Anche per questo, per non dimenticare mai, nulla, per non rischiare il nostro pianeta e le vite che lo popolano, siamo qui oggi”.
Bruno Tonolo, segretario dell’ANPI miranese, ha ricordato i molteplici effetti delle bombe sulla popolazione sottolineando che, sebbene sia finita la guerra fredda, le armi nucleari sono ancora in uso. Quindi, per contribuire all’affermazione della pace tra i popoli, ha proposto alcune iniziative immediate quali l’invio di un telegramma di solidarietà ai Sindaci di Hiroshima e Nagasaki e l’iscrizione alla rete internazionale dei Sindaci per la Pace – Mayor for Peace, un’organizzazione non governativa fondata dalle due città giapponesi con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’abolizione totale delle armi nucleari entro il 2020.
La Sindaca ha condiviso queste proposte ed ha subito inviato i telegrammi alle due città giapponesi; ha scritto anche ai Sindaci di Palmanova e Busto Arsizio, già aderenti alla rete Mayor for Peace, per associarsi alle loro iniziative.
Infine Erica Brandolino, Consigliera delegata per la promozione di una cultura di pace e dei diritti umani, ha aggiunto che è necessario lavorare contro la guerra, non solo quella nucleare.
L’ufficialità della cerimonia è stata rimarcata dalla presenza della Polizia Locale con il gonfalone.
Erano presenti Renzo Tonolo, vice presidente ANPI Mirano;Giovanni Minto in rappresentanza del circolo PD di Mirano e del coordinamento Genitori Democratici; Giampaolo Coin rappresentanza dell’AUSER di Mirano; il segretario dell’ANPI di Santa Maria di Sala e consigliere comunale della lista civica Insieme Giuseppe Rodighiero e numerosi giovani della Rete degli Studenti Medi di Mirano oltre ad alcuni cittadini.
URP Comune di Mirano
Per approfondire l’argomento riguardante le due esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki c’è un interessante articolo di Vittorio Zucconi del 7 aprile 2008, con le foto scattate subito dopo l’esplosione da un soldato giapponese, morto anche lui dopo averle scattate: http://www.fisicamente.net/DIDATTICA/index-517.htm
Lo storico Luciano Canfora: “Uguaglianza davanti alla legge? È diventata roba da comunisti”
Con le parole costruisci un sogno, un mondo nuovo o solo un fraintendimento. Le parole possono essere piallate, manipolate, riempite d’aria come quei palloncini che s’innalzano al cielo. Le parole sono alberi dritti che puoi far divenire storti. E trasformare in nero ciò che è bianco. La filologia è la compagna di vita di Luciano Canfora, storico dell’età antica e saggista.
C’è il potere e c’è la manipolazione.
È del tutto evidente. Il linguaggio politico è dichiaratamente artefatto. Promuove l’inganno, lo pianifica.
Sa in che menti deve essere somministrata la dose quotidiana di manipolazione.
Nel dopoguerra era ricorrente la divisione del mondo in due parti: qui i liberi, lì gli schiavi. Tra gli eroi della libertà, del mondo libero, erano ricompresi i razzisti del-l’Alabama, Francisco Franco, i torturatori francesi.
Difendevano la libertà contro il comunismo. Berlusconi è sceso in campo proprio con questo intento.
Naturalmente lui non ci crede assolutamente. Avendo però avuto percezione che la bubbola funzionava ha proseguito con l’inganno.
Comunisti i comunisti, e comunisti un po’ tutti gli altri.
Fino al punto parossistico di ripeterlo davanti a Enrico Letta che, poverino…
Comunisti i magistrati.
Dal suo punto di vista è comprensibile. L’applicazione del principio della legge uguale per tutti è all’evidenza un processo comunista. E quindi, correlata, la proposizione: bisogna respingere la sentenza per difendere la democrazia.
Altri parlamentari si sono spinti più in là.
Ho sentito Cicchitto e mi pare Lupi conseguentemente affermare che l’unico rimedio per riportare la democrazia è cassare la Cassazione. C’è una logica, in qualche misura.
Ci sarebbe il popolo da rispettare
Mah. Votare non ha più peso, non ha più senso. Il potere politico prende ordini da quello economico che si trova altrove, a Bruxelles o Francoforte. Il Parlamento è degradato a un organo tecnico. Certo, può liberamente dibattere sulla legge animalista. Anti e pro, fatevi sotto e discutete.
Io voto ma tu fai come ti pare.
Direi meglio: quando la legge elettorale falsifica così dichiaratamente i rapporti in campo ecco che la rappresentanza politica perde ogni legittimazione. C’è una ragione per cui il Pd non riesce a dar corso alla forza parlamentare che detiene. Ha la maggioranza assoluta dei deputati frutto di una disponibilità in voti inferiore, e di molto, al trenta per cento degli elettori.
La politica è dunque inganno?
Nel poker c’è l’azzardo, il bluff. Il paragone non è irriverente.
Si dice sempre: siamo nel pieno di una democrazia incompiuta.
E si dice un’ovvietà, una sciocchezza. La democrazia è incompiuta per definizione.
E che la nostra sia una democrazia anomala.
Sarebbe anomala se altrove il diritto fosse totalmente rispettato. Lei crede che in Grecia il diritto di quel popolo sia rispettato? Hanno chiuso in due ore la televisione pubblica solo perché dava fastidio al governo di Samaras. Nessuno ha fiatato, e neanche i giornali italiani, neanche il suo, ha approfondito questa monumentale ingiustizia.
Ma sarà pur vero che Berlusconi, e il potere che ha dettato, rende singolare e unica la vicenda italiana.
Non c’è alcun dubbio.
E non c’è dubbio che il declino morale della classe dirigente italiana abbia avuto un peso anche nel linguaggio.
Cavour parlava di connubio, descrivendo la necessità di trovare un’adesione tra diversi. Oggi si parla di inciucio.
Espressione dialettale napoletana con cui si intende per la verità il pettegolezzo minuto, il vicolo che mormora.
I due termini misurano la differenza di valore culturale tra le classi dirigenti di ieri e di oggi. Non è un caso che ciclicamente si chiamano al governo i professori.
Sì, i professori sono diventati come la Misericordia. Compagnia di protezione civile.
La Rai dei professori, ricorda? In quella convocazione l’idea di portare alla guida persone migliori di quelle elette per guidare il Paese.
Mettiamo in circolazione persone migliori di noi.
E qui il professor Monti.
Poi l’abbiamo cacciato. Abbiamo idee confuse come le parole che utilizziamo.
Assolutamente sì. Prenda gli inviti alla coesione del presidente della Repubblica. Si invita alla coesione, dunque alla ricerca del punto comune, un sistema formalmente bipolare, dunque estraneo al punto comune.
Amiamo l’uno e il suo opposto.
Vorremmo essere bipolaristi e insieme però coesi.
Hanno capito che siamo tele-elettori e usano le parole a casaccio, un po’ come capita.
Ci sono bubbole indicibili, alcune volte è veramente troppo. (Intervista di Antonello Caporale da “Il Fatto”)
2 Agosto: “Il mio urlo su quella barella oggi serve per non dimenticare”
«Ai ragazzi delle scuole dico sempre: ottantacinque morti e duecento feriti non sono un mantra da recitare all’anniversario. Dietro ci sono storie, vite perdute, famiglie distrutte. Domandate, informatevi, cercate e fatevi voi un’opinione».
Marina Gamberini è la ragazza della foto simbolo di quel giorno maledetto in Stazione, trasportata su una barella mentre urla il suo sgomento. Solo pochi minuti prima era con le colleghe della Cigar nell’ufficio che stava proprio al piano sopra la sala d’aspetto di seconda classe. Un bell’ambiente, ragazze tutte giovani, complici, che nelle pause pranzo gironzolavano in stazione con le loro divise. «Ci sentivamo delle hostess, conosciute da tutti, il caffè e una passeggiata sul primo binario, così per staccare un po’ dall’ufficio. E’ un ricordo ancora bellissimo».
Dopo le lunghe cure in ospedale, furono mesi, e anni, difficili. Covando la voglia irreale di potersi sostituire alle amiche perdute. «Volevo andare ad abitare nella casa di una di loro, comprare i mobili che lei aveva scelto e mi aveva fatto vedere». Poi, finalmente, di nuovo un lavoro: in Comune, insieme ad una vita quasi normale. Adesso, uscita da una convalescenza, c’è di nuovo l’impegno. Della sua vita da sopravvissuta, Marina vuole fare un modo per continuare a cercare il perché di quella strage: lo fa andando nelle classi. Ed è difficile, dice: ogni volta è un dolore che riemerge, ma lei adesso si sente forte, batte la fatica. E allora racconta di lei, delle colleghe, ma vuole andare oltre.
«Incontro ragazzi puliti, che non sanno nulla di quella storia. Ma è meglio così. Quante volte, anche adesso, in altri contesti sento che ci sopportano, passiamo per pesanti, e solo perché siamo ancora qui, con tenacia, a chiedere la verità, perché adesso ne conosciamo solo un pezzettino. I ragazzi no, invece: vedo che ci ascoltano, perché sono interessati davvero e non per obblighi d’ufficio. Vogliono capire e non hanno verità che ogni tanto qualcuno pretende di confezionare».
C’è un documentario adesso, che racconta di una mattina all’Itis Belluzzi, parlando coi ragazzi della IV B: Marina si tortura le mani, fa qualche pausa, prende il respiro. Ascolta, e racconta. «Sembra assurdo capire che di quel giorno si possa dire tutto e il contrario di tutto, la tristezza è questa. Tutti ne parlano, ma manca ancora la verità. Successe, ma perché?».
Anni di silenzio, per mascherare un dolore e un senso di colpa, per essere lei sola uscita viva da quell’ufficio di ragazze che svanì dentro un’esplosione. «Se sono qui ancora a parlarne, è anche per quietare quel sentimento che tra noi feriti è molto diffuso». Marina è nel comitato direttivo dell’Associazione familiari, ed è quasi una figlia per Lidia Secci, la moglie di Torquato che fu il primo presidente. «Quanti momenti anche di sconforto abbiamo passato in questi anni, delusioni atroci, come non bastasse già quello che avevamo passato. Quando annullarono la sentenza di primo grado del processo, quando il nostro avvocato di parte civile si schierò improvvisamente contro di noi. E, ancora oggi, ogni volta che sentiamo insinuare altre ipotesi. Per questo sosteniamo Paolo (Bolognesi, ndr) nella sua richiesta per avere il reato di depistaggio. Noi queste cose le abbiamo già vissute, è una cosa tremenda pensare che qualcuno apposta metta in piedi una falsità. Ma non si mette un punto interrogativo davanti a una sentenza».
Il sindaco Merola, accogliendo una proposta apparsa su “Repubblica”, da parte dell’associazione “Piantiamolamemoria”, ha promesso che presto sedici vie e piazze saranno dedicate alle vittime bolognesi della strage alla Stazione. «Ben venga. Abbiamo bisogno di tutto, se serve per capire e ricordare che dietro a quelle lettere di metallo che compongono i nomi sulle lapidi, c’erano delle vite, una storia. A Katia (Bertasi, ndr) hanno dedicato un centro sociale». Marina sarà venerdì in piazza, accompagna sempre Bolognesi fin sotto il palco, poi si allontana. «Nella sala d’aspetto faccio ancora fatica ad entrarci, ho paura di non controllare i nervi, e preferisco così. Ma a volte penso che non dovrei avere pudore».
Invece non ha più paura, e se la ha, la vince. E vuole continuare ad andare nelle scuole. «A volte mi viene un frizzo di ottimismo. E se qualcuno un giorno raccontasse quale era il disegno? Se da un’indagine esce qualcosa che spieghi chi decise di fare quella strage? Ma non vorrei fosse un’illusione. Una speranza invece ce l’ho: goccina per goccina, nel passaparola tra i ragazzi che ascoltano e poi raccontano le nostre storie, vorrei che il 2 Agosto non resti una formuletta. “85 morti, 200 feriti”. E’ invece una storia, ancora senza il perché». (di Luca Sancini da “Repubblica”)
Meno garanzie per la Carta solo per tenere in vita il governo
Non vedo nessuna ragione di derogare all’articolo 138, accelerando i tempi. Se non una, forse: mantenere in vita questo governo”. Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, fa parte della commissione dei saggi che lavora, molto sotto traccia, a una proposta di riforma della Carta. Istituita nello scorso giugno, è composta da 34 tra giuristi ed esperti di discipline politiche ed economiche. Settimane fa la commissione ha perso Lorenza Carlassare, dimessasi per protesta contro la sospensione del-l’attività parlamentare voluta dal Pdl (e accettata dal Pd) come ritorsione per la fissazione in calendario della sentenza Mediaset. Ultimati i lavori, a ottobre i saggi consegneranno le loro relazioni sulla riforma, che verranno poi inoltrate al comitato dei 42: i parlamentari a cui il ddl costituzionale affida il compito di riscrivere i titoli I, II, III e V della seconda parte della Costituzione.
Professoressa, partiamo dallo stravolgimento dell’articolo 138. Che ne pensa e cosa ne pensano gli altri saggi?
La commissione non se ne è mai occupata, perché non rientra nel suo ambito di intervento. Non parlo per gli altri, e dico la mia opinione da cittadina: non c’è nessun motivo di modificarlo. Se non uno: prolungare la vita di questo governo, legandola alla riforma costituzionale. Finché questo processo è in corso, il treno va.
Molti costituzionalisti sono contrari alla deroga: definiscono questa norma come “la valvola di sicurezza” della Carta.
Sono assolutamente d’accordo: il 138 è la clausola di salvaguardia, perché regola tempi e modi delle modifiche alla Costituzione. Ridurre l’intervallo tra le due deliberazioni delle Camere sulle leggi costituzionali (da tre mesi a 45 giorni, ndr) è sicuramente un passo che comporta dei rischi. Non c’è nessuna emergenza che lo giustifichi.
Veniamo alla commissione dei saggi. Sul vostro lavoro circolano pochissime informazioni. Sembra quasi che lavoriate in modo carbonaro.
Proprio per rimediare, nei giorni scorsi ho proposto e ottenuto che i resoconti delle nostre riunioni venissero pubblicate su Internet (sul sito rifor mecostituzionali.gov.it ). Ci deve essere trasparenza su quello di cui discutiamo.
Alcuni, tra cui i Cinque Stelle, avevano proposto la diretta streaming dei lavori.
Sono contraria. Con la diretta tv tutti rimarrebbero troppo influenzati. Nessuno parlerebbe in modo sincero, perché penserebbe ai possibili effetti sul pubblico.
Di cosa state discutendo?
Gli argomenti sono quattro: bicameralismo, Titolo V (Regioni, Province, Comuni, ndr), forma di governo e legge elettorale.
È vero che lavorate a una riforma presidenzialista?
Stiamo discutendo con ampia diversità di opinioni. Vi sono posizioni semipresidenzialiste e altre che vogliono il rafforzamento e la razionalizzazione del Parlamento.
Lei è contraria al semipresidenzialismo?
Sì, perché ritengo rappresenti una forma di sfiducia verso la politica, come luogo di mediazione e rappresentanza delle diverse opinioni. Inoltre, nel semipresidenzialismo il potere esecutivo ha un peso eccessivo. Preciso anche un’altra cosa. Molti spingono per una riforma di questo tipo, sostenendo che dobbiamo armonizzarci con il resto d’Europa. Ma il semipresidenzialismo negli altri Paesi è l’eccezione, non la regola.
Ci sono punti su cui voi saggi concordate?
Molti di noi sono concordi sul-l’esigenza di passare da un bicameralismo perfetto, come quello attuale, a un sistema con un Senato delle autonomie. Due Camere con le stesse competenze esistono solo in Italia. Inoltre siamo d’accordo sulla necessità di ridurre il numero di parlamentari. Anche se su questo punto non bisogna esagerare.
Il ddl costituzionale prevede un comitato dei 42 che preparerà la riforma. Poi dovrà essere approvata dal Parlamento, ma con poche possibilità di intervento: per esempio, ci saranno grandi limiti agli emendamenti. Non teme una riforma blindata?
Sì, e per questo spero che venga dato ampio spazio al dibattito. La Costituzione è troppo importante per essere oggetto di tentativi di forzatura. (di Luca De Carolis da “Il Fatto” del 31 luglio 2013)