Il giorno 3 agosto, l’enorme risentimento contro la guerra e il disprezzo verso i tedeschi accumulato dal popolo siciliano esplose in due paesini alle falde dell’Etna, a pochi Chilometri da Catania.
Per prima “ esplose” Mascalucia, dove stazionavano circa 2000 soldati tedeschi. Nel paese era presente un nucleo di sodati italiani, addetti alle fotoelettriche.
Soldati tedeschi, dopo avere sottratto la motocicletta ad un miliare italiano portaordini e il fallito tentativo di rubare i quattro cavalli del carrettiere Bonaccorso, tentarono di rapinare i cavalli ad una famiglia catanese (Amato) – sfollata nel paese -; spararono, provocando un morto ed un ferito. In un altro punto del paese, in un casolare, un tedesco ubriaco sparò, uccidendo il soldato Giuseppe La Marra. Successivamente i tedeschi uccisero un altro soldato italiano, Francesco Wagner, ventiduenne mantovano.
I componenti della famiglia Amato – di mestiere, armieri, avevano un deposito nel paese – risposero con le armi. Fu il “segnale” dell’inizio della resistenza popolare.
In breve molti cittadini armati di fucili e pistole ( distribuiti dalla famiglia Amato, prelevate dal proprio deposito di armieri) scesero per le strade, sparando ai soldati tedeschi. Molti colpi furono tirati dalle terrazze delle case e dal campanile della chiesa principale del paese. Ai cittadini si affiancarono i soldati italiani, i carabinieri e i Vigili del fuoco, sfollati da Catania. I soldati portarono altre armi e bombe a mano.
La sparatoria durò circa quattro ore. Armi di vario tipo, munizioni e camionette furono catturate ai tedeschi.
I tedeschi, dopo avere lasciato diversi caduti – quattordici, raccontano le cronache dell’epoca, vari cadaveri non furono mai ritrovati -, si ritirarono dal paese. Rimasero uccisi un cittadino del paese e due soldati italiani tra i tanti che si erano schierati con gli abitanti.
Il 17 agosto del 2007, davanti il Palazzo di Città, una lapide è stata inaugurata per commemorare la resistenza dei coraggiosi abitanti di Mascalucia ai nazisti.
Durante la stessa giornata , a pochi chilometri di distanza, a Pedara, dopo che un contadino aveva ucciso, a colpi di pietre, un soldato tedesco – un altro rimane ferito – in difesa del proprio mulo preda del razziatore, scoppia la rabbia popolare. Parecchi giovani si armano ( oltre ai fucili personali altre armi furono date dai carabinieri), dislocandosi tra le vie del paese. I tedeschi, ricevuti rinforzi, occuparono il paese, iniziando un vero e proprio rastrellamento. Arrestarono 13 cittadini, portati successivamente in una località montana di Zafferana nell’albergo “Airone”, requisito dai tedeschi. Furono lasciati liberi il 10 agosto, quando i tedeschi furono costretti ad abbandonare quelle posizioni.
Ormai i soldati tedeschi, incalzati dalle truppe Alleate, sono allo sbando. Lasciano Zafferana, liberata definitivamente l’8 agosto. Il giorno prima la liberazione aveva toccato Mascalucia. (da http://anpicatania.wordpress.com)
Categoria: Memoria
2 Agosto: “Il mio urlo su quella barella oggi serve per non dimenticare”
«Ai ragazzi delle scuole dico sempre: ottantacinque morti e duecento feriti non sono un mantra da recitare all’anniversario. Dietro ci sono storie, vite perdute, famiglie distrutte. Domandate, informatevi, cercate e fatevi voi un’opinione».
Marina Gamberini è la ragazza della foto simbolo di quel giorno maledetto in Stazione, trasportata su una barella mentre urla il suo sgomento. Solo pochi minuti prima era con le colleghe della Cigar nell’ufficio che stava proprio al piano sopra la sala d’aspetto di seconda classe. Un bell’ambiente, ragazze tutte giovani, complici, che nelle pause pranzo gironzolavano in stazione con le loro divise. «Ci sentivamo delle hostess, conosciute da tutti, il caffè e una passeggiata sul primo binario, così per staccare un po’ dall’ufficio. E’ un ricordo ancora bellissimo».
Dopo le lunghe cure in ospedale, furono mesi, e anni, difficili. Covando la voglia irreale di potersi sostituire alle amiche perdute. «Volevo andare ad abitare nella casa di una di loro, comprare i mobili che lei aveva scelto e mi aveva fatto vedere». Poi, finalmente, di nuovo un lavoro: in Comune, insieme ad una vita quasi normale. Adesso, uscita da una convalescenza, c’è di nuovo l’impegno. Della sua vita da sopravvissuta, Marina vuole fare un modo per continuare a cercare il perché di quella strage: lo fa andando nelle classi. Ed è difficile, dice: ogni volta è un dolore che riemerge, ma lei adesso si sente forte, batte la fatica. E allora racconta di lei, delle colleghe, ma vuole andare oltre.
«Incontro ragazzi puliti, che non sanno nulla di quella storia. Ma è meglio così. Quante volte, anche adesso, in altri contesti sento che ci sopportano, passiamo per pesanti, e solo perché siamo ancora qui, con tenacia, a chiedere la verità, perché adesso ne conosciamo solo un pezzettino. I ragazzi no, invece: vedo che ci ascoltano, perché sono interessati davvero e non per obblighi d’ufficio. Vogliono capire e non hanno verità che ogni tanto qualcuno pretende di confezionare».
C’è un documentario adesso, che racconta di una mattina all’Itis Belluzzi, parlando coi ragazzi della IV B: Marina si tortura le mani, fa qualche pausa, prende il respiro. Ascolta, e racconta. «Sembra assurdo capire che di quel giorno si possa dire tutto e il contrario di tutto, la tristezza è questa. Tutti ne parlano, ma manca ancora la verità. Successe, ma perché?».
Anni di silenzio, per mascherare un dolore e un senso di colpa, per essere lei sola uscita viva da quell’ufficio di ragazze che svanì dentro un’esplosione. «Se sono qui ancora a parlarne, è anche per quietare quel sentimento che tra noi feriti è molto diffuso». Marina è nel comitato direttivo dell’Associazione familiari, ed è quasi una figlia per Lidia Secci, la moglie di Torquato che fu il primo presidente. «Quanti momenti anche di sconforto abbiamo passato in questi anni, delusioni atroci, come non bastasse già quello che avevamo passato. Quando annullarono la sentenza di primo grado del processo, quando il nostro avvocato di parte civile si schierò improvvisamente contro di noi. E, ancora oggi, ogni volta che sentiamo insinuare altre ipotesi. Per questo sosteniamo Paolo (Bolognesi, ndr) nella sua richiesta per avere il reato di depistaggio. Noi queste cose le abbiamo già vissute, è una cosa tremenda pensare che qualcuno apposta metta in piedi una falsità. Ma non si mette un punto interrogativo davanti a una sentenza».
Il sindaco Merola, accogliendo una proposta apparsa su “Repubblica”, da parte dell’associazione “Piantiamolamemoria”, ha promesso che presto sedici vie e piazze saranno dedicate alle vittime bolognesi della strage alla Stazione. «Ben venga. Abbiamo bisogno di tutto, se serve per capire e ricordare che dietro a quelle lettere di metallo che compongono i nomi sulle lapidi, c’erano delle vite, una storia. A Katia (Bertasi, ndr) hanno dedicato un centro sociale». Marina sarà venerdì in piazza, accompagna sempre Bolognesi fin sotto il palco, poi si allontana. «Nella sala d’aspetto faccio ancora fatica ad entrarci, ho paura di non controllare i nervi, e preferisco così. Ma a volte penso che non dovrei avere pudore».
Invece non ha più paura, e se la ha, la vince. E vuole continuare ad andare nelle scuole. «A volte mi viene un frizzo di ottimismo. E se qualcuno un giorno raccontasse quale era il disegno? Se da un’indagine esce qualcosa che spieghi chi decise di fare quella strage? Ma non vorrei fosse un’illusione. Una speranza invece ce l’ho: goccina per goccina, nel passaparola tra i ragazzi che ascoltano e poi raccontano le nostre storie, vorrei che il 2 Agosto non resti una formuletta. “85 morti, 200 feriti”. E’ invece una storia, ancora senza il perché». (di Luca Sancini da “Repubblica”)
24 luglio 1943: si riunisce il Gran Consiglio del fascismo
Il Gran consiglio del fascismo fu istituito il 15 dicembre del 1922, quale organo supremo del Partito Nazionale Fascista, e tenne la sua prima seduta il 12 gennaio 1923.
Divenne organo costituzionale del Regno con la legge 9 dicembre 1928, n. 2693, che lo qualificava come «organo supremo, che coordina e integra tutte le attività del regime sorto dalla rivoluzione dell’ottobre 1922». Nell’ultima seduta, quella del 24 luglio 1943, fu sancita la caduta del governo Mussolini e il suo arresto. Dei 28 componenti del consiglio 19 votarono a favore, 8 furono contrari e ci fu un astenuto. I 19 che votarono a favore, dopo la liberazione di Mussolini da parte dei tedeschi, furono condannati alla pena di morte come traditori (a parte Cianetti che ritrattò e venne condannato a 30 anni di prigione), ma solo 5 furono catturati e fucilati (Ciano, De Bono, Marinelli, Pareschi e Gottardi). Tutti gli altri componenti, a parte Farinacci e Buffarini Guidi, che furono fucilati dopo il 25 aprile, morirono tranquilli nel proprio letto, dopo essere stati riabilitati come persone qualunque e non tenendo conto dei loro incarichi ai massimi livelli della gerarchia fascista. Queste le loro storie dopo la guerra:
Dino Grandi: per la mozione del 25 luglio, Grandi fu condannato a morte in contumacia al processo di Verona, che si tenne nel territorio della Repubblica Sociale Italiana. Grandi, tuttavia, avendo presagito quanto stava per accadere già immediatamente dopo la caduta di Mussolini, riparò in Spagna già nell’agosto del 1943. Nello stesso anno si trasferì in Portogallo, ove visse sino al 1948. Negli anni cinquanta fu consulente assiduo delle autorità americane, in particolare dell’ambasciatrice a Roma, Clare Boothe Luce. Grandi servì spesso da intermediario in operazioni politiche ed industriali tra Italia e Stati Uniti. Si trasferì quindi in America Latina, ove visse soprattutto in Brasile, da dove rimpatriò negli anni sessanta per aprire una fattoria modello nella campagna di Modena. Morì a Bologna nel 1988 all’età di 93 anni.
Giuseppe Bottai: dopo la destituzione di Mussolini vive per alcuni mesi nascosto in un convento di Roma. Nel 1944 si arruola con il consenso delle autorità politiche francesi, sotto il nome di Andrea Battaglia, nella Legione straniera, dove rimarrà fino al 1948. Nel 1947 viene amnistiato per le imputazioni post-belliche connesse alla partecipazione avuta nella costituzione del regime fascista e che gli erano costate una condanna all’ergastolo, mentre la condanna a morte di Verona è divenuta ovviamente nulla con la dissoluzione della Repubblica Sociale Italiana. Tornato in Italia, nel 1953 fonda la rivista di critica politica ABC, di cui sarà direttore fino alla morte. Per un certo periodo, dirige dietro le quinte Il Popolo di Roma, un quotidiano finanziato da Vittorio Cini per fiancheggiare il centrismo. Muore a Roma il 9 gennaio 1959. Ai suoi affollati funerali a Roma sarà presente, tra le numerose autorità, il ministro della Pubblica Istruzione, allora in carica, Aldo Moro, amico di famiglia poiché il padre di questi, Renato, era stato tra i collaboratori di Bottai al ministero.
Luigi Federzoni: alla fine della guerra fu processato assieme a Bottai, Rossoni e Acerbo, unico presente, dall’Alta Corte di giustizia per il suo passato fascista e condannato all’ergastolo nel maggio 1945 (fu amnistiato nel dicembre 1947). Latitante, dopo esser stato nascosto nel Pontificio Collegio ucraino S. Giosafat a Roma, fuggì dall’Italia e tra il maggio 1946 e l’aprile 1948 visse sotto falso nome in America Latina. Nell’aprile 1948 poté rientrare in Portogallo, dove insegnò storia dell’umanesimo all’università di Coimbra e nel 1949 letteratura italiana all’università di Lisbona. Tornò in Italia definitivamente, dopo un viaggio nell’estate 1948, nel 1951 e si ristabilì a Roma con la famiglia. Impegnato nello studio della recente storia d’Italia (fece tra l’altro parte del Comitato di divulgazione storica dell’Unione monarchica italiana) e nella scrittura delle proprie memorie, il F. mantenne in questi anni uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione con Umberto di Savoia, sia durante la sua permanenza in Portogallo, sia dopo il rientro in Italia: in particolare – come dimostrano le minute dell’ampia corrispondenza conservata nell’archivio personale – gli inviava informazioni e notizie relative alla situazione politica italiana, ai vari partiti e soprattutto al partito monarchico. Morì a Roma il 24 gennaio 1967.
Cesare Maria De Vecchi: procuratosi un passaporto paraguayano, si trasferì nel giugno 1947 in Argentina. Ritornò in Italia solo nel giugno 1949, dopo che la Cassazione aveva cancellato senza rinvio la sentenza della corte d’appello di Roma II Sezione Speciale con la quale era stato condannato ad anni 5 di reclusione, condonati, per aver promosso e diretto la marcia su Roma, con le attenuanti generiche e l’attenuante di cui all’art.7 lett.b DLL 27-7-44 n.159.
Alfredo de Marsico: per la sua adesione al fascismo, terminata la seconda guerra mondiale, fu privato della cattedra per sette anni e allontanato dall’attività forense per quattro. Eletto, come indipendente, senatore tra le fila del Partito Nazionale Monarchico di Achille Lauro, dal 1953 al 1958, venne nominato nel 1964 professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma. Numerose furono le onorificenze ricevute dal De Marsico in quel periodo: venne nominato, ad esempio, cittadino onorario di Avellino, cavaliere di Gran Croce dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro e gli fu consegnata una medaglia d’oro dall’Ordine degli avvocati di Lucerna. Fu, inoltre, otto volte presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli, di cui tenne la guida fino al 1980. Dopo la morte, venne posto in suo onore un busto in Castel Capuano e la cerimonia fu accompagnata dal discorso funebre del presidente dell’Ordine, l’avvocato Renato Orefice. Nel 1995, un decennio dopo la morte, un altro busto in bronzo fu collocato nella sala del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli.
Giacomo Acerbo: fu catturato dagli Alleati e condannato dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il Fascismo a 48 anni di reclusione successivamente ridotti a 30. In quel periodo, amministratore dei suoi beni fu l’Avv. Pasquale Galliano Magno, (già presidente del CLN, avvocato della famiglia Matteotti nel processo di Chieti e capolista del PCI nell’elezioni amministrative di Pescara). Trasferito presso il carcere dell’isola di Procida, per il breve periodo rimastovi insegna matematica agli ergastolani presenti. Annullata la sentenza dalla Cassazione il 25 luglio 1947, fu poi riabilitato e nel 1951, in seguito a sentenza del Consiglio di Stato, fu riammesso all’insegnamento universitario. Nel 1953 e nel 1958 si candidò alle elezioni con i monarchici, ma senza successo. Nel 1962 fu decorato dal Presidente della Repubblica Antonio Segni della medaglia d’oro per i benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte. Nel 1963, in occasione del suo collocamento a riposo per limiti d’età, fu insignito all’unanimità del titolo di Professore Emerito di Economia e politica agraria dal Senato Accademico dell’Università La Sapienza di Roma. Subito dopo, tuttavia, venne richiamato in servizio in qualità di docente di Ordinamento e tecnica dei crediti speciali nel corso di specializzazione in Discipline bancarie. E’ morto a Roma il 28 novembre 1973.
Dino Alfieri: deferito nel dopoguerra per i reati previsti dal decreto legge luogotenenziale del 27 luglio 1944 (instaurazione della dittatura, suo mantenimento, ecc.) fu prosciolto in istruttoria dalla sezione speciale della Corte d’appello di Roma con sentenza del 12 nov. 1946, perché la sua azione non integrava i termini del reato rispetto all’accusa maggiore e per amnistia per quelle minori. Uguale conclusione favorevole ebbe, il 6 febbraio 1947, il procedimento dinanzi alla Commissione per l’epurazione del personale del ministero degli Esteri. Su entrambe le procedure ebbe notevole influenza il parere formulato, su richiesta del tribunale, dal ministero degli Esteri. Nel dopoguerra, pensionato come ambasciatore, l’A. ebbe presidenze in organismi economici a carattere internazionale. Morì a Milano il 2 genn. 1966.
Edmondo Rossoni: i superiori salesiani, senza battere ciglio, accolsero benevolmente la sua richiesta d’aiuto destinandolo presso la casa della Procura, un minuscolo edificio di tre piani situato in un dedalo di stradine in via della Pigna nei pressi del vicolo della Minerva al civico 51. In seguito, nel timore di essere riconosciuto dai ragazzi del piccolo oratorio sottostante, nei primi mesi del 1944, l’ex gerarca fascista decise di lasciare la Procura salesiana per trovarne un altro più appartato lontano da occhi indiscreti. Con il sopraggiungere del fronte alleato nei pressi di Roma, per maggiore sicurezza, fu deciso di trasferirlo – sotto mentite spoglie – in un monastero più appartato dell’Appennino meridionale e poi fu preso in custodia dall’Abate Generale dei Benedettini, mons. Emanuele Caronti che nel novembre del 1945 lo ricondusse dapprima a Roma e poi, il 30 agosto 1946, accompagnato presso l’aeroporto di Ciampino dal solerte abate Emanuele Caronti, Rossoni, vestito alla foggia degli ecclesiastici statunitensi, munito del passaporto di copertura prese il volo verso misteriosi lidi, che lo avrebbe condotto in Irlanda presso la nunziatura apostolica di Dublino, facendo dapprima scalo a Ginevra per poi raggiungere Parigi, da dove avrebbe raggiunto Dublino. Da qui, poi, riparò in Canada, dove rimase fino alla promulgazione dell’amnistia approfittando del provvedimento emanato dalle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione che annullarono senza rinvio la sentenza di condanna all’ergastolo emessa appena due anni prima dall’Alta Corte di giustizia, i reati che gli erano stati addebitati furono definitivamente derubricati. Di conseguenza l’ex gerarca fascista poté rientrare indisturbato nella capitale, ritirandosi a vita privata». Muore a Roma l’8 giugno 1965.
Giuseppe Bastianini: sfuggì alla esecuzione ordinata da Mussolini rifugiandosi sulle montagne toscane del Chianti e poi in Svizzera fino alla fine della guerra. Al termine della seconda guerra mondiale il governo jugoslavo del Maresciallo Tito lo accusò di essere un criminale di guerra, per il suo ruolo di Governatore della Dalmazia, insieme al generale Mario Roatta e a Francesco Giunta, suo successore in tale veste. La Commissione italiana d’inchiesta per presunti criminali di guerra, nominata dallo Stato maggiore dell’esercito il 6 maggio 1946 sostenne che il comportamento di Bastianini era improntato a “eccessivo ossequio verso Mussolini” e di essersi circondato “di elementi fascisti che, non di rado, trascesero ad eccessi, così da provocare nella popolazione locale vivo risentimento anche contro il Governatore Bastianini dal quale non videro rispettate quelle esigenze fondamentali alle quali sentivano di avere diritto” ma la Corte d’Assise speciale di Roma nel 1947 lo assolse da ogni accusa così come la Commissione per le sanzioni contro il fascismo. Nel 1959, tornato a Milano, pubblicò presso la piccola casa editrice “Vitagliano” le sue memorie, dal titolo “Uomini, cose, fatti: memorie di un ambasciatore“, ripubblicato da Rizzoli nel 2005 con il titolo Volevo fermare Mussolini. Bastianini morì a Milano il 17 dicembre 1961.
Annio Bignardi: nel dopoguerra ha ricoperto cariche in associazioni sportive.
Alberto De Stefani: dopo la caduta di Mussolini ed il collasso del regime fascista, il D. si rifugiò in un monastero di Roma (dall’inizio del 1944 al luglio del 1947) per sfuggire prima alla esecuzione capitale cui era stato condannato per tradimento dal tribunale di Verona della Repubblica sociale italiana, poi per proteggere ancora la sua contumacia nell’Italia repubblicana davanti alla Alta Corte, che lo assolse. Scrisse i Racconti del risveglio e in successive stesure, a partire dal 1942, il più importante Fuga dal tempo (Perugia 1948; Bologna 1959), libro che ebbe un non indifferente successo di critica e di pubblico. Ma le sue doti di acuto osservatore politico e di economista di vaglia vennero ugualmente messe a frutto. Sia dalla Repubblica nazionale cinese che gli richiedeva periodici rapporti sulla situazione politica europea, sia soprattutto dal Vaticano, dove le sue osservazioni trovavano sempre un attento auditorio. Come quando il D., rilanciando l’idea del radiomessaggio pontificio natalizio del 1942, si fece propugnatore di “una grande crociata veramente verificatrice per un ordine sociale e politico cristiano” da parte della Chiesa, invitata ad aggregare attorno al “comune principio cristiano” i diversi popoli “pronti a difenderlo e vederlo attuato nella vita politica e sociale del mondo” (lettera a don Rivolta, 1ºgenn. 1945, in Arch. della famiglia De Stefani). In questo quadro la Chiesa veniva a rappresentare l’istituzione totale, guida della società, sintesi definitiva e inappellabile delle diverse istanze politiche, sociali ed economiche, tanto da indurlo ad affacciare l’ipotesi di una sorta di “internazionalizzazione” del governo ecclesiale. Il 15 giugno del 1948 venne riabilitato all’insegnamento universitario che lasciò nel novembre dell’anno successivo per raggiunti limiti d’età, pur conservando l’incarico di direttore dell’istituto fino all’anno accademico 1953-54, anno in cui la facoltà gli conferì il titolo di professore emerito. Seppur ritirato dalla politica attiva, fu ancora ascoltato consigliere del nuovo personale politico democristiano. Nel 1953 aderì assieme a Bottai alla costituenda Associazione nazionale combattenti d’Italia che si sciolse nel 1958. Dal 1948 al 1955 collaborò quale notista economico a Il Tempo, dal 1956 al 1959 al Giornale d’Italia, e poi di nuovo a Il Tempo dal 1960 fino alla morte. Morì a Roma il 15 gennaio 1969.
Giovanni Balella: alla fine della guerra contribuì alla ricostituzione della Confederazione degli industriali, per la quale ricoprì il ruolo di responsabile dei rapporti esterni, occupandosi anche del rilancio del quotidiano romano Il Giornale d’Italia. Balella infatti creò la Stec (Società tipografico-editoriale capitolina) e diede il via alla costruzione della nuova sede del giornale, dopo aver acquistato un terreno a piazza Indipendenza, in zona Campo Marzio. Successivamente prese il posto di Furio Cicogna al CNEL, in rappresentanza della Confindustria, e continuò ad occuparsi del settore delle Fibre chimiche, ricoprendo sia ruoli nell’associazione industriale del settore sia nelle società operative, in particolare nella Italviscosa e nella Chatillon. E’ morto il 20 gennaio 1988.
Tullio Cianetti: dopo la liberazione emigrò in Mozambico, dove morì il 7 agosto 1976.
Carlo Scorza: al termine della Seconda guerra mondiale si rifugia a Gallarate (Varese). Scoperto ed arrestato nell’agosto del 1945, riesce a evadere riparando in Argentina. Rientrato in Italia nel 1969, si trasferisce in un piccolo comune vicino a Firenze, dove si spegne nel 1988. Ha scritto un memoriale sulla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio 1943.
Guido Buffarini Guidi: Il 25 aprile seguì Mussolini fino a Como dove, resosi conto dell’inconsistenza del Ridotto alpino repubblicano, insistette a lungo per convincere il duce ad espatriare in Svizzera. Il giorno seguente, mentre tentava di raggiungere la Svizzera, fu catturato dai partigiani. In seguito fu processato e condannato a morte da una Corte d’Assise straordinaria; la sentenza fu eseguita per fucilazione nel campo sportivo “Giuriati”, zona Città Studi a Milano il 10 luglio 1945, poco dopo aver sventato un suo tentativo di suicidarsi con il veleno. Anni dopo alla vedova di Buffarini Guidi fu riconosciuta la pensione riferita al grado di colonnello di artiglieria del marito.
Enzo Galbiati: Avendo superato indenne gli eventi dell’aprile 1945 Galbiati si stabilì a Milano. Nel 1955 querelò per diffamazione a mezzo stampa Vanni Teodorani (genero di Arnaldo Mussolini), che lo aveva accusato di codardia per i fatti del 25 luglio. Diversi ufficiali della Milizia confermarono, testimoniando nel corso del processo, che una reazione della Milizia (anche con la divisione corazzata M) era possibile. Il processo si chiuse nel 1956 con l’assoluzione di Teodorani relativamente alla ricostruzione storica degli eventi del 25 luglio, ma con una pena pecuniaria per gli epiteti da lui rivolti a mezzo stampa a Galbiati. Dopo il processo Galbiati si ritirò prima a Bordighera e successivamente in una casa di riposo di Solbiate, dove morì il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno (23 maggio 1982). Per sua espressa volontà Galbiati è stato sepolto nel “Principato” di Seborga, nella tomba di famiglia da lui stesso progettata.
Carlo Alberto Biggini: Il 25 aprile 1945, Biggini è a Padova, presso la sede del suo dicastero, dove anche grazie alla protezione di alcuni autorevoli antifascisti che aveva contribuito a salvare, supera la fase più critica del dopo-liberazione. Un male incurabile lo costringe però al ricovero, presso la clinica San Camillo di Milano, dove si spegne il 19 novembre 1945, poco prima di compiere 43 anni.
Antonino Tringali Casanova: morto nel 43.
Ettore Frattari: Nel dopoguerra ha continuato la sua attività nel settore agricolo, diventando anche Presidente nazionale della sezione economica della ortofrutticoltura.
Roberto Farinacci: Fucilato il 28 aprile 1945.
Giacomo Suardo: morto nel 1947.
Ancora falsità su Via Rasella
Lunedì 8 luglio è andato in onda su Rai Tre in prima serata il programma ‘Il viaggio’, con Pippo Baudo. Al suo interno è stato dedicato un servizio al Sacrario delle Fosse Ardeatine nel quale il presentatore Baudo ha intervistato il maggiore dell’Esercito Italiano Francesco Sardone. Purtroppo ancora una volta, parlando di via Rasella, si sono rappresentati i fatti come se si fosse trattato di un attentato terroristico, e non di una “legittima azione di guerra partigiana”, come è stato riconosciuto più volte dalla Corte di Cassazione italiana e da numerosi tribunali. Dispiace che uno dei più noti volti della TV italiana abbia scelto, ponendo le domande, di porre l’accento su presunti fatti poco chiari ancora oggi, quando la verità storica dovrebbe essere oramai riconosciuta e sedimentata. Ma le imprecisioni e i commenti equivoci non finiscono qui. Baudo, parlando di Don Pietro Pappagallo, dice che lui non c’entrava nulla! E’ vero, come innocenti però furono tutte le 335 vittime: non ci furono innocenti più di altri. Inoltre dobbiamo correggere il maggiore Sardone, che ha raccontato che dopo l’8 settembre del ’43 i Gruppi Armati Proletari cominciarono a compiere attentati contro i tedeschi, evidentemente confondendo i G.A.P. , Gruppi di Azione Patriottica responsabili dell’azione di via Rasella, con i Gruppi Armati Proletari, gruppo terroristico degli anni di piombo. Parlando della rappresaglia, le domande di Baudo sembrano legittimare le presunte leggi di guerra, solo in parte spiegate dal maggiore dell’Esercito, continuando a diffondere l’dea sbagliata che si potessero uccidere 10 persone per ogni militare morto. Baudo afferma: ”Dobbiamo dire la verità, sui fatti ancora si discute… gli autori non si sono mai presentati, anzi, sono stati insigniti di medaglia d’oro ed alcuni hanno fatto i deputati”. In realtà l’eccidio fu compiuto dai tedeschi in gran segreto e in tempi rapidissimi (21 ore dopo l’azione), in combutta con la polizia fascista, che consegnò alle SS di Kappler una parte delle vittime. Non fu rivolto alcun appello a consegnarsi agli autori dell’azione di via Rasella nè vi fu alcun preavviso della rappresaglia. Proprio per celare il posto dell’eccidio, i tedeschi fecero esplodere delle bombe all’ingresso delle cave Ardeatine. Ricordiamo quindi a Baudo, nel ’70 anniversario della Resistenza, e a tutti i cittadini italiani che lo hanno ascoltato, che la verità è un’altra ed è stata definitivamente stabilita dai tribunali.
Ufficio Stampa Anpi Roma
Sicilia, 10 luglio 1943: una strage a stelle e striscie
I civili vengono fatti allineare a bordo strada, un sergente imbraccia un mitra e li falcia. Cadono in 37. Ma il fucilatore non è il solito tedesco con il tipico elmetto grigio calcato sugli occhi. E’ un G.I. americano, di quelli che al ritmo dello swing liberavano l’Europa regalando cioccolata, gomme da masticare e Lucky Strike alle popolazioni affamate e sinistrate dai bombardamenti. Quella strage non fu un caso isolato. Anzi. Ma per l’Italia fu un caso dimenticato. Finché il nipote di uno di quei 37 sfortunati «italian sons of bitches» non si è improvvisato storico…
E’ uscito un libro di cui pochi hanno parlato ma che svela una importante pagina della nostra storia recente, ingiustamente dimenticata. Stiamo parlando di «Le stragi dimenticate», dedicato ai massacri compiuti dagli americani subito dopo lo sbarco in Sicilia. Una sorta di «armadio della vergogna» di cui non si sospettava neppure l’esistenza. Lo ha scritto Gianfranco Ciriacono, (che lo ha dovuto pubblicare privatamente e a sue spese). Ciriacono è un appassionato studioso di storia, ma le motivazioni che lo hanno spinto ad intraprendere questa ricerca sembrano principalmente influenzate dall’esperienza personale. Infatti suo nonno paterno era nel gruppo di contadini trucidati dagli americani nel luglio del ’43 nei pressi di Piano Stella. Suo padre, allora appena un ragazzino, si salvò solo perché uno dei soldati, un attimo prima di sparare, lo tolse dal gruppo e gli intimò di andar via.
Ciriacono, ricorda la prima volta che sentì parlare nella sua famiglia di questo episodio?
«Sin da bambino, mi chiedevo perché non avessi un nonno con cui giocare come tutti gli altri miei amichetti. Poi, crescendo, ho iniziato le ricerche che mi hanno portato a scoprire gli eccidi americani in Sicilia. Oltre alle motivazioni sentimentali, occorreva recuperare una pagina di memoria ignorata dalla storiografia ufficiale. Era opportuno dare voce a coloro che normalmente non lasciano tracce nella “storia”. Chi vince una guerra acquista – di fatto – anche il diritto a non essere giudicato per come si è comportato durante il conflitto: è la legge del più forte. Ma chi ha perduto, ingiustamente, i propri familiari, ha diritto alla giustizia? Ha diritto alla verità? Nei confronti dei tedeschi, il governo italiano ha rivendicato – e ottenuto – di processare ufficiali della Wehrmacht responsabili di massacri atroci. Io, con il mio libro “Le stragi dimenticate”, ho cercato di dare voce a vittime innocenti di cui non si conosceva neppure l’esistenza».
A un certo punto del libro, lei riporta notizie di violenze e stupri sulla popolazione civile che sarebbero stati perpetrati soprattutto da soldati americani di origine italiana. Quale documento ha letto? Su quali fonti si basa questa informazione?
«A raccontare degli stupri, così come delle violenze perpetrate nei confronti della popolazione civile inerme, sono gli atti della Corte Marziale americana. La struttura giudiziaria militare americana (JAG Branch) con giurisdizione sui reati commessi dai soldati in quell’ambito, ha processato diverse centinaia di soldati. Nella fattispecie, le mie informazioni provengono dagli interrogatori di alcuni membri della 45a Divisione che parteciparono allo sbarco e che raccontano come le peggiori atrocità furono commesse da soldati italo-americani. Altri scritti memorialistici, sempre in mio possesso, raccontano peraltro di molti altri italo-americani che si prodigarono per aiutare i propri conterranei sconfitti».
Il libro si sofferma sulla distribuzione delle terre che il regime fascista aveva attuato in quella parte della Sicilia sud orientale. Suo nonno, contadino bracciante, aveva ottenuto un piccolo podere con altre famiglie che appunto costituivano la nuova comunità “coloniale” di Piano Stella, in provincia di Agrigento. Poveri contadini che effettivamente avevano ricevuto un aiuto concreto da Mussolini. Potrebbe questo spiegare l’accanimento dei soldati americani contro di loro?
«Lo escludo. Nelle giornate immediatamente precedenti lo sbarco, gli abitanti dei borghi colonici avevano cercato di nascondere tutti gli orpelli che potevano ricondurre alle strutture al fascismo. Era gente umile e aveva mostrato sin dall’inizio la propria umanità nei confronti dei soldati americani. Basti pensare che, nelle ore precedenti la strage, mio nonno, assieme ad altri, aveva prestato le prime cure ad un paracadutista americano rimasto ferito ad una gamba. Tutto questo nonostante la presenza di truppe tedesche sul territorio. Purtroppo, la sincera umanità mostrata dai coloni di Piano Stella fu contraccambiata dalla cieca ed immotivata ferocia delle truppe americane».
Oltre alla strage di contadini di cui faceva parte il nonno dell’autore, nel libro si racconta che furono trucidati dagli americani soldati italiani presi prigioneri. Eccone una sintesi. Nei pressi dell’aeroporto di Biscari, il 14 luglio, il capitano John Compton (comandante di una compagnia di fanteria) «ordinò di uccidere i prigionieri», un gruppo di trentasei italiani, «parecchi dei quali indossavano abiti civili». «Lo stesso giorno un’altra compagnia di fanteria catturò quarantacinque italiani e tre tedeschi. Un sottufficiale, il sergente Horac T. West, ricevette l’ordine di scortare trentasette italiani nelle retrovie perché fossero interrogati dal Servizio S-2 del Reggimento. Dopo circa un chilometro e mezzo di strada, il sergente ordinò al gruppo di fermarsi e di spostarsi verso la carreggiata, dove i componenti furono allineati. Spiegando che avrebbe ucciso quei «sons of bitches», il sergente si fece dare un fucile mitragliatore Thompson dal suo caporalmaggiore e, freddamente, eliminò gli sventurati italiani».
Lei, per ricostruire gli episodi, é riuscito a risalire ai documenti della Corte Marziale americana. Alla fine, solo West fu giudicato colpevole, scontando comunque solo pochi mesi di prigione per poi tornare a combattere, sempre in Italia. Per quale motivo, secondo lei, la giustizia militare americana, pur avendo subito individuato e processato i colpevoli di quei crimini, non andò fino in fondo?
Lo sbarco in Sicilia, Operazione Husky«Dai documenti in mio possesso si evince un interessamento delle alte sfere militari per non far trapelare nulla agli organi di stampa. Esiste un carteggio tra il generale Patton e il suo vice Bradley in cui il primo cerca di dissuadere Bradley di rendere pubblica la vicenda di Biscari. Tra i documenti si trovano anche lettere del futuro presidente Eisenhower e di membri del Congresso con cui si chiedeva una revisione del processo. Nei due processi celebrati si cercò di salvaguardare gli ufficiali. Infatti l’unico ad essere condannato fu il sergente West».
Nel libro, lei ricostruisce i primi giorni dello sbarco, lo stress dei soldati che prima avevano affrontato una tempesta in mare, il sergente West che non dorme da tre giorni… Secondo una delle testimonianze conservate nei documenti della Corte Marziale, alcuni commilitoni di West lo descrivono come “fuori di testa”. Lui, un soldato della Guardia Nazionale dell’Alabama, con due figli, di colpo si trasforma in un terribile assassino assetato di sangue. Come si spiega?
«Quell’uomo aveva pagato a duro prezzo la crisi del ’29. Era un cuoco affermato, ma aveva perduto il lavoro e sofferto la fame. Così, aveva preferito imbracciare un fucile mitragliatore, più che per liberare l’Europa dal giogo nazifascista, per cercare una rivincita economico-sociale. Questa la mia interpretazione, rafforzata dalla considerazione che, tra gli americani, c’erano parecchi volontari ormai non più giovanissimi, tutti travolti – chi più chi meno – dalla crisi economica del ’29».
Cosa è successo a West e Compton dopo la guerra? Hanno avuto una vita normale, o anche la loro vita è stata segnata da quegli episodi, come poi avverrà a molti reduci dal Vietnam?
«Il Capitano Compton, dai documenti in mio possesso, morì durante lo sbarco di Salerno del settembre 1943. Della vita del sergente West poco si sa. So soltanto che, prima la Procura Militare di Padova, e poi quella di Palermo, competente territorialmente, hanno chiesto all’Interpol di accertare che fine abbiano fatto sette militari che parteciparono alle stragi».
E’ rimasto il mistero dei resti di quei poveri soldati italiani, molti originari della provincia di Brescia, che non furono mai ritrovati. Lei é riuscito a sapere dove sono sepolti? Il governo italiano ha mai cercato questi soldati o rivolto ufficiale richiesta al governo americano? Se non lo ha fatto, secondo lei, perché?
«È mia convinzione, confermata anche da qualche accenno negli atti della Corte Marziale, che i corpi degli sventurati soldati italiani si trovino presso cimiteri militari americani. Di certo, negli archivi storici italiani questi uomini, di cui sono riuscito a ricostruire le generalità, risultano dispersi. Ancora oggi, le famiglie di quei soldati che ebbero la sventura di incrociare le divise delle truppe americane, rimangono in attesa di notizie certe e di un giaciglio dove poter ricordare con un fiore ed una lacrima il parente morto in guerra».
Secondo lei, chi fu il vero colpevole morale di quegli episodi?
«Il mandante morale delle stragi fu certamente il generale Patton. Già prima di partire per l’Algeria, e poi durante le fasi dello sbarco, aveva diramato ordini perentori del tipo: «Voi siete una divisione di killers, non bisogna fraternizzare con le popolazioni locali, non occorre fare prigionieri». E per finire: «Kill, kill, and kill some more» («Uccidere, uccidere e uccidere ancora»). Ordini inequivocabili di un generale, che le truppe eseguirono senza rendersi conto di venirsi a trovare palesemente fuori legge».
Perché ha deciso di scrivere «Le stragi dimenticate»? Per dimostrare che nessuno è immune dai crimini di guerra?
«Che la storia la scrivano i vincitori è fatto arcinoto e ciò può trovare una spiegazione, seppure perversa ed inaccettabile, laddove si tratti di storici appartenenti alla nazione vincitrice, ma nel nostro caso ciò che ripugna è il silenzio degli storici di casa nostra, di quelli che per più di 60 anni non hanno ritenuto importante studiare, indagare, informarsi ed informare sugli accadimenti di quei giorni. C’è voluto il mio lavoro per aprire il caso. Ritengo che dopo 64 anni occorra ristabilire la verità storica sugli eccidi di Biscari e Piano Stella: sarebbe, seppur tardivo, un atto di giustizia e il giusto riconoscimento per il tributo di sangue pagato dalla nostra gente».
L’operazione Husky per la principale storiografia rappresenta un grande successo strategico militare, decisivo per la liberazione dell’Italia dal nazi-fascismo. Per lei, al di là del tragico episodio che ha coinvolto la sua famiglia, il primo sbarco alleato in Europa rappresenta soltanto l’inizio della fine dell’Asse o anche un crimine di guerra?
«La liberazione dal nazi-fascismo rappresentò certamente per un nuovo periodo storico che ha riconsegnato al nostro Paese libertà, democrazia, pace e prosperità. Ma le stragi americane, ahimè, non si fermarono solo a Biscari e Piano Stella, continuarono nelle giornate seguenti con la stessa virulenza a Comiso, dove furono uccisi, violando la convenzione di Ginevra, 60 soldati tedeschi e 50 soldati italiani. A Canicattì, poi, furono uccisi 8 civili per mano di un ufficiale americano. Così come a Butera, e via dicendo, fino ad arrivare nelle vicinanze di Palermo. Per lo più si trattò di stragi rimaste nella memoria delle comunità e confermate da diverse testimonianze oculari di soldati italoamericani, per le quali tuttavia manca il supporto documentaristico. Ma non c’è dubbio che quelle stragi vi furono».
L’impressione che resta dopo avere letto la sua ricostruzione, è che la popolazione locale abbia subito voluto dimenticare. E’ cosí? E secondo lei perché?
«L’icona del soldato americano rappresentava la libertà: dolciumi, sigarette e razioni di cibo. L’America aveva mandato la crema della sua gioventù in tutto il mondo, non a conquistare ma a liberare, non a terrorizzare ma ad aiutare. Grazie alla martellante e danarosa propaganda che ha bombardato il mondo per sessant’anni, l’opinione pubblica ha, in linea di massima, recepito e fatto propria, come verità di fede, questa oleografia storico-militare, tanto che nessuno ha mai pensato di sottoporre a verifica il vero comportamento degli arcangeli della libertà e della democrazia. Questo è certamente uno dei motivi per cui la popolazione locale ha faticato a creare una memoria comune. L’altro dato è che i 73 soldati, per lo più bresciani, non avevano alcun rapporto di parentela con gli abitanti del territorio. Pertanto la loro scomparsa non è fu notata da nessuno».
Il suo libro è ricavato dalla sua tesi di laurea presentata all’Universitá di Catania, pubblicata poi da un editore locale. Aveva provato a proporre la sua ricerca ad un editore nazionale?
«Proprio in questi giorni ho concluso un contratto con un buon editore nazionale. Le posso dire in tutta sincerità che non è stato facile. Ancora oggi, in Italia, è arduo parlare di verità scomode. Basti pensare che le istituzioni repubblicane non hanno ancora riconosciuto tali eccidi, nonostante gli atti della Corte Marziale americana che ha dichiarato colpevoli i soldati a stelle e strisce».
Luciano Garibaldi da www.storiainrete.com
Mariech 14 luglio 2013: Dalle montagne la Libertà
Il 14 luglio per la Libertà: per incontrarsi e ricordare. Alle 10:30 a Cima Mariech. Valdobbiadene (1435 m. s.l.m.).
Vi siete mai fermati a pensare ai luoghi della vostra memoria?
Vi sono luoghi che potrebbero regalarvi lo spaziare degli occhi, il colore dei prati, la serenità di uno sguardo che dai declivi nelle giornate limpide giunge fino al mare.
Ognuno di essi ha una storia, fatta di uomini e donne, fatta di sudore e sguardi, fatta di condivisione spesso e di solitudine altre volte.
Poi vi sono luoghi in cui questo si lega alla Storia, Mariech è uno di questi. Mariech ha visto uomini e donne lottare per la libertà. Il cippo attorno al quale i ritroviamo ogni anno, in memoria dei 137 caduti civili e partigiani, ma che ricorda anche Salvedella, sede del Comando di Brigata, Forconeta, Garda, Pecol, S.Boldo e gli altri luoghi della fascia pedemontana che hanno ospitato, come il Cansiglio e la Pianura Veneta, i “Garibaldini” della Brigata “Mazzini, dalla fine del 1943 alla primavera del 1945, nella lotta contro il nazifascismo per la libertà e la democrazia. Luoghi che sono stati pieni di vita e speranze, luoghi che ne risuonano ora nel loro silenzioso ricordo.
Ci ritroviamo per far risuonare in quel silenzio un ricordo di parole, per condividerlo, mantenere ferma la memoria su quanto è stato conquistato ed impegnarci ogni giorno per guardare il mondo con quella consapevolezza: la difesa della libertà e della democrazia si costruisce ogni giorno, parlando, impegnandosi, raccontando e condividendo storie ed intenti .
Partigiani e bambini, uomini e donne, ragazzi. Esserci oggi ha quel senso.
Il senso di far anche sentire e vedere che siamo in molti a voler continuare a pensare il mondo come un luogo dove impegnarsi qui, ora, perché tutto questo venga difeso.
Un cippo è un luogo per fermarli quegli occhi, fermare i pensieri, ricordare insieme quanto queste vite abbiano lottato per la Libertà, la Democrazia, i Diritti.
E lasciar poi spaziare lo sguardo fino al mare, all’orizzonte.
Perché abbiamo avuto chi ha dato ai nostri occhi la libertà di poter pensare reali le parole orizzonte, futuro, domani.
Per chi non riuscisse a salire in montagna l’appuntamento è alle 12.30 all’osteria Al Codirosso di Nogarolo di Tarzo, per continuare la giornata insieme, condividere un tempo di discorsi e di stare insieme, per sostenere l’ANPI e perché anche da un bel modo di stare insieme parte il costruire la democrazia. (da http://www.anpitreviso.it)
Per prenotazioni, entro mercoledì 10 luglio
Piero Baratto 0423 981246
Luigi Polegato 3388658929
Pasquale Ruffo 043883422
Natalino Merotto 0438898303
ANPI povinciale 0422 260113
Una strage dimenticata: 4 luglio 1944 a Cavriglia (Ar)
Il 4 luglio 1944 191 civili maschi fra i quattordici e gli ottantacinque anni vengono rastrellati, mitragliati e bruciati da reparti tedeschi specializzati della Divisione Hermann Göring nei paesi di Meleto Valdarno, Castelnuovo dei Sabbioni, Massa Sabbioni e San Martino, frazioni di Cavriglia nel Valdarno in provincia di Arezzo.
Dopo la strage i soldati nazisti (inclusi alcuni fascisti italiani travestiti da tedeschi che parlavano con perfetto accento toscano…) scomparvero dalla valle d’Avane senza lasciare traccia di sé.
Nessuno seppe più niente di loro e la popolazione, che non vide mai fatta giustizia sulla morte dei propri padri, tentò nel tempo di spiegarsi i motivi del massacro.
Nacquero così progressivamente negli anni la tesi della rappresaglia, del controllo del territorio, quindi quella che voleva come preordinatori della strage i repubblichini locali, che intendevano distruggere la radice storica comunista di questa società (zona mineraria per l’estrazione della lignite con forti lotte operaie anarchiche e socialiste).
Nessuno dei governi italiani (sempre asserviti agli interessi della NATO, dell’isterico anticomunismo e della “Guerra fredda”) si preoccupò mai dei veri responsabili tedeschi, dei cosiddetti cani che dormono da non stuzzicare, nessuno dette più peso alle loro strategie, ai loro piani, alle loro origini ed alle loro filosofie di guerra, stabilite ai prodromi del secondo conflitto mondiale da Adolf Hitler.
Grazie allo studio attento e dettagliato dell’inchiesta portata a termine dallo Special Investigation Branch inglese tra il 1944 ed il 1945 nei luoghi scenari delle stragi, secretata fino agli anni novanta negli archivi di Kew (Londra) e nel noto Armadio della vergogna a Roma, il ricercatore di Storia Contemporanea all’Università di Firenze Filippo Boni con il fondamentale aiuto della più importante memoria storica vivente di Castelnuovo dei Sabbioni, Emilio Polverini (figlio di una vittima) ha ritrovato nomi, cognomi e fotografie dei soldati che quella mattina si resero protagonisti del massacro e li ha pubblicati nel libro “Colpire la Comunità: 4-11 luglio 1944, le stragi naziste a Cavriglia” edito dalla Regione Toscana, in cui in un’analisi storico-scientifica dettagliata e puntuale, dopo aver ricostruito il contesto storico e narrativo della strage, è riuscito a portare alla luce quella che fu la reale strategia del terrore nazista, politica di guerra che era sempre stata un caposaldo della Wehrmacht prima e durante la seconda guerra mondiale. (Anpi Crescenzago)
http://campidisterminio.altervista.org/site/strage-di-cavriglia.php
Vicenza: la nuova caserma intitolata a un partigiano
Oggi, 2 luglio 2013 la nuova caserma di Vicenza che sarà una sede del comando americano Africom che sovraintende alle operazioni in Africa, è stata inaugurata ed è stata intitolata a Renato Del Din, partigiano bellunese al comando della 1ª banda di montagna del Gruppo Divisioni d’assalto Osoppo-Friuli, medaglia d’oro al valor militare, morto il 26 aprile 1944 durante un assalto a un distaccamento di repubblichini a Tolmezzo (Udine). Questa è stata l’ultima decisione presa dal ministro della Difesa Ignazio La Russa due giorni prima delle dimissioni del governo Berlusconi. Cinzia Bottene, consigliere comunale in prima fila nella protesta contro la base americana: «È l’ennesima presa in giro. Molti partigiani hanno lottato contro la base continuando a credere nei valori in cui credevano quando lottavano contro il nazifascismo. Il nome storico di quell’area è Dal Molin, il resto è solo propaganda» aggiungendo che «il 25 aprile la Liberazione sarà festeggiata al Parco della pace, a pochi metri dalla futura base, per ricordare che quella è un’usurpazione».
La scelta di La Russa esplode come una bomba a scoppio ritardato. Per la città medaglia d’oro per la Resistenza suona come una beffa a pochi giorni dal 25 aprile: Vicenza già ospita tremila soldati Usa, dal 2013 ne accoglierà altri duemila che dalla Germania si trasferiranno al Dal Molin, ed è sede di Africom, che sovrintende alle operazioni nel continente nero, alle dirette dipendenze del Pentagono. I primi a rivoltarsi comunque sono gli stessi partigiani. La voce grintosa di Renzo Ghiotto, uno dei «Piccoli maestri» protagonisti del romanzo capolavoro di Luigi Meneghello, è indignata: «È un’offesa, un ulteriore oltraggio alla città – spiega – Tutti i partigiani d’Italia sono contro questo tipo di violenze. Se credono di comprarci mettendo quel nome, si sbagliano. Vogliono come sempre smussare gli angoli facendo finta di celebrare un eroe della Resistenza, ma sono finte miserabili, da repubblichini. Raccoglieremo delle firme, faremo di tutto per impedirlo». Per Mario Faggion, segretario provinciale dell’Anpi, è «una scelta impropria. L’intitolazione suona strana: quasi parlassimo di una base che serve alla difesa del nostro paese, quel paese che Dal Din stava difendendo quando morì in modo eroico. La base, per come è stata concepita, realizzata e concessa, serve soprattutto agli Stati Uniti». Questo il comunicato ufficiale dell’Anpi di Vicenza approvato all’unanimità il 21 aprile:
Il Comitato Provinciale dell’A.N.P.I. di Vicenza, riunito il 21 aprile 2012, appresa la notizia che l’ex Ministro della Difesa La Russa, con uno dei suoi ultimi atti, ha stabilito che la caserma americana sorta nell’ex aeroporto Dal Molin sia intitolata al partigiano bellunese Renato Del Din, caduto a Tolmezzo nella notte tra il 24 e 25 aprile 1944, Medaglia d’Oro, esprime grandi perplessità e vivo disappunto nei riguardi di tale scelta per i seguenti motivi:
1. Perché il nome di un partigiano, medaglia d’oro, caduto battendosi per la libertà e l’indipendenza dallo straniero, non dovrebbe essere associato ad alcuna caserma straniera in Italia, anche se di uno Stato amico.
2. Perché il nome di un partigiano che ha dato la sua vita per i principi e i valori contenuti nella Costituzione non dovrebbe essere usato per una istallazione militare che, come abbiamo sempre sostenuto, è sorta in contrasto con la Costituzione stessa, in particolare con l’articolo 11. Esso, infatti, testualmente stabilisce che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni: promuove e favorisce organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». In questo caso siamo in presenza di una cessione di sovranità non a “organizzazioni internazionali” e nemmeno per scopi di pace e di giustizia fra le Nazioni. La nuova base non è infatti né ONU né NATO, ma è utilizzata esclusivamente per scopi e interessi propri ed inconfutabili di un solo Stato estero, rispetto al quale non si è nemmeno agito in condizioni di parità.
3. Perché in questo caso la scelta operata presenta, a nostro avviso, anche risvolti strumentali e provocatori. Infatti, fermo restando la nostra contrarietà alla intitolazione della base ad un partigiano, rileviamo che la storia di Renato Del Din, fulgida ed esemplare, non ha però mai avuto come riferimento il territorio vicentino, nel quale invece numerosi sono stati i partigiani caduti valorosamente e ugualmente decorati di Medaglia d’Oro.
4. Perché la scelta di questa intitolazione è ispirata a criteri di dubbia democrazia, in quanto operata senza consultare nessuna organizzazione o istituzione del territorio interessato.
Pertanto chiede al Coordinamento Regionale Veneto e al Comitato Nazionale dell’ANPI di farsi interpreti presso il Ministro della Difesa Di Paola affinché, tenendo conto di quanto sopra, addivenga ad un ripensamento sulla decisione del predecessore, presa ancora una volta con modalità impositive nei riguardi della comunità vicentina e senza tener conto delle sue specificità storiche, sociali e politiche.
Mario Faggion, Presidente dell’Anpi di Vicenza
È morta Anna Maria Levi
È morta a Roma, all’ età di 92 anni, Anna Maria Levi, la sorella di Primo Levi. Nel dare la notizia della sua scomparsa, Moked. it, il portale dell’ ebraismo italiano, ha scritto che viveva nella capitale «ormai da lungo tempo assieme a Julian Zimet, un ebreo americano attivo nel mondo del cinema». Era minore di due anni rispetto all’ autore di Se questo è un uomo, nato nel 1919 ( e morto nel 1987) , che fu sempre molto legato a lei. Di carattere allegro e aperto, Anna Maria rispecchiava un po’ , in tutto ciò, il padre Cesare, un ingegnere elettrotecnico sposatosi nel 1918 con Ester Luzzati, che viene descritto da Primo come uomo estroverso e moderno, amante dei libri e del buon vivere, poco curante delle cose di famiglia. Ernesto Ferrero, studioso di Leviea lungo dirigente della sua casa editrice, l’ Einaudi, ricorda Anna Maria come «una donna di una simpatia straordinaria, spiritosa ed estroversa, diversa da Primo, timido e riservato. Amava i suoi nipotini, aveva un forte legame col fratello. La crescente fama di Primo, in ogni caso, era stata vissuta da lei con discrezione e riserbo; da parecchi anni, oltretutto, si era trasferita a Roma». Solo in rare occasioni era venuta meno al riserbo. Accadde nel 1997, quando al Teatro Regio di Torino ci fu l’ anteprima mondiale de La tregua, il film che Francesco Rosi trasse dall’ omonimo romanzo. Quella sera in platea sedettero Anna Maria e i figli di Primo, Renzo e Lisetta. I giornali del tempo, in questo caso Repubblica, sottolinearono che la famiglia di Levi non aveva voluto sottrarsi a un’ opera che Primo aveva amato ancora prima che ne iniziasse la lavorazione. Lo scrittore, poco prima di morire, aveva detto: «L’ idea che da La tregua nasca un film, è una delle poche cose che in questi giorni mi dà un briciolo di felicità». Anche il giornalista Gad Lerner, che l’ ha incontrata di recente, dopo le polemiche insorte a proposito del libro Partigia di Sergio Luzzatto, ne ha tracciato su Twitter un ritratto analogo a quello di Ferrero: «L’ avevo visitata da poco, sempre acutae spiritosa. Con me, assai generosa». Anna Maria, pur amareggiata da quelle polemiche, non aveva voluto commentarle. Fin da ragazza, la sorella di Levi aveva fatto parte dei circoli ebraici torinesi animati da giovani intellettuali come Emanuele Artom, poi trucidato dai nazifascisti nell’ aprile del 1944, che avrebbero dato vita alla Resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà. Fu la stessa scelta che fece Anna Maria, che aveva accompagnato Primo in Val d’ Aosta sul finire del 1943. A differenza del fratello, però, rimasto in montagna, aveva deciso di ritornare in pianura. Il futuro scrittore, entrato in una delle prime bande partigiane, venne catturato dai repubblichini a dicembre e successivamente deportato nei lager nazisti. Anna Maria, rammenta ancora Moked.it, «partecipò alla Resistenza assieme a tanti altri giovani ebrei piemontesi perseguitati», conducendo dalla fine della guerra «un’ esistenza molto discreta e al riparo dalla straordinaria notorietà internazionale conquistata dal fratello». Fu apprezzata «per il suo contributo nell’ edizione italiana di numerosi libri di grande valore, fra cui gli studi di Leon Poliakov sull’ antisemitismo». Prima di andare a Roma, aveva frequentato gli ambienti e gli amici di Primo. In una intervista a Repubblica, il sociologo Franco Ferrarotti ha rievocato: «Traducevo dall’ inglese, dal tedesco, e mi ero fidanzato con Anna Maria Levi, la sorella di Primo Levi, il quale allora stava cercando un’ occupazione da chimico e nessuno sapeva tutto quello che poi avrebbe raccontato nei suoi libri». Anna Maria è presente, conclude il portale dell’ ebraismo italiano, in una pagina di Primo, «in cui nel corso di un sogno angoscioso sembra tragicamente presagire e denunciare i tempi della manipolazione e della cancellazione della Memoria». L’ intellettuale torinese «descrive l’ allontanamento degli amici dalla sua testimonianza, lasciando proprio alla sorella il compito di abbandonarlo da ultima in una insanabile solitudine». I funerali di Anna Maria Levi si svolgeranno in forma strettamente privata.
MASSIMO NOVELLI da Repubblica
Non cambiate la Costituzione!
“Non la Costituzione, non la Repubblica sono da cambiare (…) Sono gli uomini che vanno sostituiti, almeno quelli che del malgoverno hanno la responsabilità; è il modo di far politica, è il sistema politico, che vanno radicalmente mutati. Noi difendiamo la centralità del parlamento e la Repubblica che da esso prende il nome, perché così è consacrato nella Costituzione nata dalla Resistenza.
Quella Resistenza che si è fondata sulla grande generosità, sul sublime altruismo di uomini, che andarono volontari sui monti, non per riscuotere tangenti, non per illeciti interessi personali come il mercato nero che gli speculatori fascisti gestivano nelle città sulla fame della povera gente, mentre i partigiani morivano quassù, o nelle atroci carceri, o nei gelidi lager di Germania. Resistenza furono il sacrificio e i lutti di un intero popolo. Resistenza fu il purissimo ideale di libertà e di giustizia che ha illuminato la nostra giovinezza”. [Ettore Gallo, Partigiano e Presidente Emerito della Corte Costituzionale]