Il cattivo tedesco e il bravo italiano

coverfocardiPremessa – di Wu Ming 1

Ecco un’occasione da cogliere al volo.

Il 2014 si è aperto alla luminosa insegna degli «Italiani brava gente», la solita autonarrazione vittimistica e tossica su cui si basano tanto le versioni dominanti della vicenda «due Marò», quanto il discorso dominante sullo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi. L’Italiano, chiunque e ovunque egli sia, va rappresentato come buono e come vittima: vittima dello straniero, delle circostanze, della sfortuna, di “traditori”…
Le parti di storia che vedono – o anche solo potrebbero vedere – l’Italiano nel ruolo di carnefice vanno minimizzate, quando non completamente rimosse. E’ sempre colpa di qualcun altro, sono «loro» ad avercela con noi.
Miliardi di miliardi di parole stampate, migliaia di ore di programmazione televisiva sui marò, ma è rarissimo udire o leggere i nomi di Ajesh Pinky e Selestian Valentine, i due pescatori uccisi in quel braccio di mare da colpi d’arma da fuoco partiti dalla petroliera Enrica Lexie.
[Potrà sembrare strano a chi abbia visto solo la montagna di fandonie, complottismi e sensazionalismo e non le notizie sepolte sotto, ma questo è quanto emerge dalla perizia balistica indiana alla quale hanno assistito tecnici italiani. La premessa che gli spari siano partiti da armi in dotazioni ai marò è accettata dalla difesa italiana.
Del resto, la maggior parte degli italiani non sa nemmeno che il governo italiano ha risarcito preventivamente (già due anni fa) le famiglie dei pescatori, che dopo l’elargizione non si sono costituite parte civile.]
Evidentemente le due vittime (quelle vere) sono in fondo non-persone, straccioni, per giunta «di colore», quindi a un livello di umanità inferiore a quello dei «nostri ragazzi». Un po’ come siamo stati considerati noialtri in vicende come il Cermis o l’uccisione di Nicola Calipari, ma l’Italiano, avvelenato com’è dal provincialismo e dalla cattiva memoria, non è mai in grado di rovesciare lo sguardo, di riconoscere se stesso nei panni dell’Altro.
Analogamente, perché il dibattito sulle foibe e sul cosiddetto «Esodo» – con la E pseudobiblicamente maiuscola, altrimenti dove va a finire la sua Unicità, dove va a finire l’italocentrismo? – possano proseguire nelle attuali forme, è necessario rimuovere o comunque minimizzare (magari liofilizzandola in cinque minuti cinque, per poi passare all’usuale vittimismo) una buona fetta di storia:
– la persecuzione di sloveni e croati dopo l’annessione della Venezia Giulia nel 1918;
– l’italianizzazione forzata perseguita dalle autorità savoiarde prima e fasciste poi: cambio dei cognomi, dei toponimi, chiusura dei giornali in lingua non italiana, scioglimento coatto delle associazioni e istituzioni delle comunità slovene e croate, divieto di scrivere in sloveno e croato sulle lapidi dei propri cari, e così via;
– la ruberia delle terre di sloveni e croati per darle a coloni italiani, courtesy by Ente Tre Venezie (e magari il nipote oggi dice «Mio nonno aveva la terra in Istria!», tacendo o ignorando come l’aveva avuta!);
– i processi-farsa e le condanne a morte comminate dal  Tribunale speciale a Trieste e Pola;
– l’occupazione tedesco-italiana della Jugoslavia nel 1941;
– la deportazione di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini ecc. in campi di concentramento (sparsi anche nella nostra Penisola) dove morivano come mosche.
E l’elenco sarebbe ancora lungo.
Queste cosa sono, sofferenze di serie B? E quelle degli esuli “giuliano-dalmati” sono di serie A? Non lo credo, e nemmeno vale il viceversa. Fatto sta, però, che foibe ed «Esodo» meritano una giornata commemorativa ad hoc e puntate su puntate di Porta a porta, mentre si è boicottato quasi ogni tentativo di far conoscere le responsabilità e i crimini dell’Italiano fuori dai recinti del sapere specialistico. Va sempre ricordata la censura Rai contro questo documentario:http://youtu.be/2IlB7IP4hys

Da quasi un anno porto in giro per l’Italia (anche) queste storie, perché sono parte essenziale del libro Point Lenana, che ho scritto insieme a Roberto Santachiara. A proposito, oggi, allo spazio sociale “La Boje!” di Mantova, farò la settantunesima presentazione di questo «oggetto narrativo non-identificato» (e WM2 farà la chissaquantesima di Timira).

A pag. 592 di Point Lenana, nella sezione intitolata «It’s been a long strange trip», c’è scritto:

«Mentre chiudevamo Point Lenana è uscito il libro di F. Focardi Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della Seconda guerra mondiale, Laterza, Roma-Bari 2013. Non abbiamo fatto in tempo a leggerlo, ma lo segnaliamo sulla fiducia.»

Ebbene, se nel frattempo qualcuno lo ha letto fidandosi di noi, converrà che la segnalazione era giusta e doverosa.
Da qui, l’occasione da cogliere al volo a cui accennavo all’inizio: proprio oggi, su Carmilla, Anna Luisa Santinelli pubblica la densa, notevole, chiarissima intervista che ha fatto a Filippo Focardi. E com’era doveroso segnalare il libro, anche a scatola chiusa, così è doveroso linkare l’intervista. Buona lettura.

(dal sito http://www.wumingfoundation.com)

Alvaro Bari: un pilota veneziano nella Resistenza feltrina

Nessun titolo diapositivaA Feltre, nell’Aula Magna dell’istituto “A. Colotti”, sabato 1 marzo 2014 alle ore 11 ci sarà la presentazione del libro “Alvaro Bari – Un pilota veneziano nella Resistenza feltrina”. Saranno presenti gli autori Aurelio De Paoli e Renato Vecchiato.

Questo il prologo di Renato Vecchiato:

Aurelio ed io, nell’autunno del 2012, ci siamo ritrovati in un incontro conviviale tra ex studenti. Accomunati da reciproca curiosità per le nostre radici storiche, c’incamminammo con la conversazione, sul tema delle lotte partigiane della sua terra, il Feltrino. L’argomento incontrò il mio interesse sia per la conoscenza dell’argomento sia per l’ammirazione che nutro, da diversi anni, per la leggendaria figura di comandante partigiano, del “comandante Bruno”, l’ingegnere Paride Brunetti, da poco deceduto. Un uomo che segnò la storia della Resistenza di Feltre e non solo. Così, dopo esserci scambiati reciproche informazioni storiografiche e opinioni personali sulla particolare complessità storica di quei tormentati venti mesi di guerra nel Feltrino, Aurelio mi comunicò di aver iniziato una ricerca su alcuni specifici episodi, in particolare su un giovane Tenente pilota ucciso dai nazi – fascisti vicino a casa sua e con giusto orgoglio m’informò che aveva già raccolto le testimonianze di alcuni anziani e di partigiani.
«Pensa, conosco personalmente un ex – aviere, già Capo Nucleo della nostra Associazione Arma Aeronautica (AAA), che aveva incontrato più volte questo Tenente pilota!» e, con un tono di sfottò etnico campanilistico, affermò: «E son sicuro che neanche giù, da voi a Venezia, si hanno notizie di questo tosàt morto per la libertà!»
«Ma come si chiamava?»
«Tenente pilota Bari Alvaro», scandì con tono militare e aggiunse «trucidato, assieme ad un altro, dai nazifascisti su di un ponte sul Piave, quello che collega Busche a Cesana».
«Bari? Conosco un medico con questo cognome…».
Così, aperta la breccia, Aurelio continuò. Il suo interessamento a quell’avvenimento era iniziato qualche tempo prima. Aveva ben presente la lapide posta all’interno dello storico Istituto Colotti che ricorda il «diplomato Alvaro Bari, il partigiano combattente “Cristallo” morto a Lentiai» quando fu incoraggiato dal Maresciallo dei Carabinieri, Stefano Vagnozzi, a raccogliere ulteriori informazioni su quel giovane. Il fatto di essere allora Capo Nucleo dell’AAA e di abitare poco lontano dal luogo della tragedia lo stimolò ad avviare la ricerca tra gli anziani. Dopo diversi contatti, la sorte lo fece incontrare con un anonimo e impaurito testimone oculare della tragedia. Un anziano che ebbe allora l’onere di aiutare il padre falegname, come lui, a costruire le casse da morto per quei due sfortunati sconosciuti. Con questa straordinaria testimonianza la ricerca si consolidò con l’acquisizione presso il Comune di Lentiai delle copie integrali dei certificati di morte di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda, il suo compagno di sventura. E in questi preziosi documenti trovò trascritti i verbali ufficiali di ritrovamento che confermavano la testimonianza.
Aurelio terminò dicendomi di essere un po’ preoccupato perché non voleva turbare con la sua ricerca la sensibilità dei famigliari di Alvaro. Mi chiese allora di verificare se c’era qualche parentela con i miei conoscenti e, se ci fosse stata, di sentire la loro disponibilità a riaprire quella dolorosa ferita per ricordarne la memoria.
La fortuna l’ha assistito una seconda volta. La casualità aveva fatto incontrare i nostri interessi rispetto a questa dolorosa storia. Un Feltrino e un Veneziano, per un eroe veneziano d’origine ma feltrino d’adozione.
Così, dopo aver avuto da due nipoti, Mario e Giorgio Bari, il ringraziamento per il suo impegno a far conoscere il loro congiunto, ho dato anch’io la mia disponibilità a proseguire e sviluppare la sua bozza iniziale, per la quale era stato già incoraggiato anche dalle parole del Vice Presidente della Sezione AAA di Treviso, il Ten. Col. Augusto Costantini :
[…] Aurelio contribuisce a farci conoscere queste storie ingiustamente sconosciute o dimenticate e che comunque non dovrebbero mai più ripetersi. Il lavoro, scritto con passione, è molto interessante […]»
Aurelio non ha solo il merito di aver promosso l’iniziativa, ma anche di aver coinvolto i seguenti testimoni feltrini:
– Romildo De Bastiani, artigiano muratore di Pont di Feltre.
– Carlo Gris, artigiano, figlio del comandante partigiano Oreste, “Tombion” di Menin di Cesiomaggiore.
– Sergio Samiolo, partigiano “Sam”, taxista, ex – aviere aiuto autista, amico di Alvaro. Capo nucleo della AAA di Feltre dal 1989 al 2003.
– Umberto Tatto, partigiano “Leone”, giovanissima guida nella ritirata della Brigata Gramsci durante il rastrellamento nazifascista delle Vette feltrine; capo cantiere dell’impresa “Lodigiani”.
– Mauro Velo, falegname, testimone oculare della fucilazione di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda.
Il mio impegno si è focalizzato soprattutto nella ricerca documentale e bibliografica riguardante la vita di Alvaro, breve ma densa dei tragici avvenimenti dell’epoca. Per fare questo ho coinvolto molte altre persone, tra i primi i nipoti Mario e Giorgio Bari; a quest’ultimo va anche il merito di aver rintracciato il fascicolo del processo a Niedermayer presso il Tribunale Militare di Verona, oltre che aver seguito con sensibilità e passione il lavoro.
Tra i tanti contributi di collaborazione personalmente ricevuti, ricordo con gratitudine quelli forniti: dalle signore Fiorenza Lovera e Cristina Gherlenda (nipoti di Gherlenda); dal dirigente scolastico e dalla direttrice amministrativa dell’istituto Andrea Colotti di Feltre; dai funzionari dei diversi Comuni interpellati (tra i quali Feltre, Lentiai, Cesiomaggiore, Fiera di Primiero, Venezia, San Stino di Livenza, Noale, Loreggia); dai responsabili dei due Istituti di storia della Resistenza: Isbrec (Belluno) e Ivsrec (Padova); dai parroci di Pez, Lentiai e Primiero; dai funzionari del Ministero della Difesa (Divisione Documentazione Aeronautica di Roma, Centro di documentazione militare di Padova, Tribunale Militare di Verona) e, (non ultimi!) dagli storici citati in bibliografia, specialmente Giuseppe Sittoni.
Un ringraziamento particolare:
alla professoressa Liana Bortolon, coetanea ed amica d’infanzia della giovane fidanzata di Alvaro, per avermi concesso un’intervista telefonica;
al professor Giovanni Perenzin per aver fornito, da attento e scrupoloso studioso feltrino della Resistenza, molte e dettagliate osservazioni nella stesura finale del libro.
Renato Vecchiato

17 febbraio 1992: arresto di Mario Chiesa

054606030-bd40ec04-7745-42c2-a01e-a159908174a8Lunedì 17 febbraio 1992, ore 17,30. Un imprenditore di 32 anni, Luca Magni, si presenta in via Marostica 8 a Milano, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Magni è titolare di una piccola impresa di pulizie, la Ilpi di Monza, che lavora anche per il Trivulzio, la storica casa di ricovero per anziani fondata nel Settecento. Chiesa è un esponente del Partito socialista italiano e non nasconde le sue ambizioni: sogna di diventare, in un futuro che spera prossimo, sindaco di Milano. Dopo mezz’ora di anticamera, Magni viene ricevuto. Deve consegnare al presidente 14 milioni, la tangente pattuita su un appalto da 140 milioni. Nel taschino della giacca ha una penna che in realtà è una microspia. In mano stringe la maniglia di una valigetta che nasconde una telecamera. «A dir la verità – ricorda Magni – avevo una paura pazzesca, ero agitatissimo. L’ingegner Chiesa era al telefono e io sono rimasto dieci minuti in piedi ad aspettare che finisse di parlare. Poi gli ho dato una busta che conteneva 7 milioni. Gli ho detto che gli altri sette per il momento non li avevo.» Chiesa non reagisce. Domanda soltanto: «Quando mi porta il resto?». «La settimana prossima», risponde concitato Magni. Poi saluta. E, uscendo, quasi si scontra con un carabiniere in borghese.
Mentre l’imprenditore telefona a casa («Per tranquillizzare mia madre e mia sorella, che sapevano dell’operazione ed erano preoccupate per me»), una squadretta di investigatori blocca il presidente del Trivulzio, che capisce di essere caduto in trappola. «Questi soldi sono miei», azzarda. «No, ingegnere, questi soldi sono nostri», replicano gli uomini in divisa. Allora chiede di andare in bagno e si libera delle banconote di un’altra tangente da 37 milioni, incassata poco prima, gettandole nella tazza del gabinetto. Poi viene arrestato e portato nel carcere di San Vittore.
L’intervento è stato preparato con cura. Le prove sono schiaccianti: una ogni dieci delle banconote di Magni è stata firmata da un lato dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani, dall’altro dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro. La ditta di Magni, che si occupa di speciali trattamenti ospedalieri, lavora per il Pio Albergo Trivulzio da qualche anno. Nel 1990, con i primi appalti consistenti, sono arrivate anche le prime richieste di denaro. Racconta Magni: «I soldi Chiesa me li ha chiesti con quattro parole secche, com’è sua abitudine: “Mi deve dare il 10 per cento”». In meno di due anni l’imprenditore porta a Chiesa una quarantina di milioni, in sei o sette consegne, sempre in contanti, dentro una busta bianca. «Io non immaginavo certo che cosa sarebbe successo dopo la mia decisione di andare dai carabinieri. Per me era un problema economico. Il 10 per cento è troppo, anche perché nel nostro settore non possiamo recuperare gonfiando i prezzi. E poi le buste Chiesa le voleva subito, mentre noi i pagamenti li vedevamo molti mesi dopo. Era una situazione insostenibile.»
Così Magni chiede aiuto all’Arma. Il 13 febbraio telefona alla caserma milanese di via Moscova. Il capitano Zuliani gli fissa un appuntamento per le 10 del giorno seguente, venerdì 14. Lo ascolta, raccoglie la sua denuncia e la presenta al magistrato con cui lavora: Di Pietro. Il pm e l’ufficiale preparano il blitz per il lunedì: quel giorno Di Pietro è di turno, quindi l’inchiesta sarà assegnata a lui. L’appuntamento è per le 13 del 17 febbraio, alla caserma di via Moscova. Luca Magni arriva con la sua auto Mitsubishi e con i suoi 7 milioni. Il capitano lo accompagna subito a palazzo di giustizia: «Ero un po’ teso – ricorda l’imprenditore – perché non mi aspettavo di incontrare un magistrato. Però mi sono subito tranquillizzato, perché Di Pietro è stato molto gentile. Ha fatto uscire dalla sua stanza tutti quelli che vi stavano lavorando, mi ha messo a mio agio e mi ha chiesto di raccontargli i fatti, senza alcun atteggiamento inquisitorio».
In caserma, le banconote vengono siglate e fotocopiate. Si prova la penna- trasmittente e la valigetta-telecamera (che alla fine non risulterà granché utile). Poi un corteo di quattro macchine, la Mitsubishi di Magni e tre auto dei carabinieri, parte per il Pio Albergo Trivulzio (che i milanesi chiamano affettuosamente «Baggina» perché ha sede sulla strada che porta a Baggio). Sta nascendo Mani pulite, l’inizio della fine di un sistema politico. Ma nessuno, quel giorno, può ancora immaginarlo. (da “Il Fatto Quotidiano)

Nella giornata del ricordo oltraggio ai partigiani

Simbolo-ANPIIn occasione della giornata del ricordo veniamo informati di un’iniziativa organizzata dall’Anpi di Cadoneghe in collaborazione con l’Anvgd di Padova, con la partecipazione di Maurizio Angelini, Italia Giacca e Adriana Ivanov dell’Anvgd di Padova. Come Anpi di Mirano esprimiamo la nostra assoluta contrarietà all’iniziativa e siamo sconcertati per il titolo dato a questo convegno. Le due lettere che seguono sono dell’Assessore ai Lavori Pubblici di Cadoneghe, Silvio Cecchinato, e della storica  Alessandra Kersevan, ed esprimono benissimo anche il nostro pensiero.

Anpi “Martiri di Mirano”

Sono l’assessore ai LL.PP. e Protezione Civile di Cadoneghe (PD) nonchè ricercatore di storia della Resistenza Padovana che ha espresso il proprio sdegno alla Amministrazione e alla Presidenza ANPI locale per una iniziativa che definisco offensiva per la memoria e il sacrificio dei Caduti della Resistenza. Il fatto che la commemorazione e il volantino-invito sia stato redatto di concerto tra la presidente e il vice presidente ANPI rispettivamente di Padova e della Regione Veneto è per me  un fatto di inaudita gravità. La prof.ssa Ivanov, figlia di un fascista  ha operato con gli ustascia in Croazia è autrice di un libello di manipolazione storica di concerto con la provincia di centro destra di Padova. Nel merito ho già avuto modo di polemizzare nella passata veste di Assessore alla Cultura del Comune partigiano di Cadoneghe. Mi fermo qui per lasciare a Voi tutti una valutazione nel merito. Fraterni Saluti.

Assessore Cecchinato Silvio

Caro Silvio, grazie per questa tua decisa presa di posizione. La deriva non ha ormai più fine. Credo che i vari circoli ANPI debbano chiedere conto a Angelini e agli altri soggetti dell’ANPI coinvolti in questa operazione. Questo titolo dell’iniziativa è un oltraggio alle migliaia e migliaia di comunisti che sono morti ammazzati dai fascisti per liberare l’Italia dal nazifascismo e per la Costituzione. Questo titolo mette partigiani e repubblichini sullo stesso piano, obiettivo che Violante e Fini hanno cercato di realizzare già nel 1997 trovando allora molta opposizione, ma evidentemente ora gli sforzi massmediatici e di altro tipo degli ambienti antipartigiani che fanno riferimento all’ANVGD stanno raggiungendo l’obiettivo, confondendo ormai vittime e carnefici, guerrafondai e difensori della libertà anche nella lotta di liberazione italiana, come sono riusciti a fare con quella jugoslava. Credo che non si possa ormai più far finta di niente, che la dirigenza nazionale dell’ANPI debba prendere una posizione precisa, contro le posizioni del responsabile dell’ANPI del Veneto.

Alessandra Kersevan

Questo il video in cui Alessandra Kersevan spiega gli avvenimenti del confine orientale:

Un importante articolo di Sandi Volk sul fenomeno dell’esodo:

https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMbWZ4ODBSQ0FrVGs/edit?usp=sharing

Lettera del Presidente dell’Anpi di Salò, Paolo Canipari, sulla vicenda:

Ciao e buongiorno,
ho ricevuto e letto la comunicazione dell’ANPI di Mirano( VE ) che esprime la netta contrarietà ad una iniziativa della Sezione ANPI di Cadoneghe ( PD ) , che la vede coinvolta in un dibattito pubblico insieme all’Associazione ANVGD. Mi associo a quanto denunciato dall’ANPI di Mirano e vi porto a conoscenza della lettera che ho inoltrato al Consiglio Direttivo provinciale di Brescia ( di cui faccio parte ) e ad altri indirizzi , per cercare insieme di affrontare e far conoscere , nel più adeguato dei modi, un argomento che penso non sia sufficientemente conosciuto nei suoi aspetti storici.

Cari compagni,
Quando alcune sezioni dell’ANPI non sono adeguatamente informate su quanto accadde in quel periodo storico, succede di cadere in queste ” brutte e cattive ” iniziative, che l’ANPI di Cadoneghe ha intrapreso per commemorare la ” Giornata del ricordo “. E’ successo anche qualche anno fa, a Vobarno (BS) dove, anche nella buona fede del Sindaco ( mio amico e compagno e iscritto all’ANPI – antifascista DOC ) su suggerimento di ” amministratori comunali di Brescia ” si invitò il ” noto” Rubessa dell’ANVGD di Brescia per l’esposizione di una Mostra e per un dibattito pubblico. Meno male, che l’ANPI di Vobarno ( con il segretario Vezzola ) e il sottoscritto intervennero per sminuire le ” porcate ” del suddetto Rubessa.
In questi giorni è apparsa e sta imperversando nella mia Zona (specialmente nelle scuole) – a Salò ( ahimè la mia città ), Gavardo , Moniga ( dove addirittura il Comune l’anno scorso ha concesso ” La cittadinanza onoraria ” ), la ” testimone ” Nadia Cernecca – figlia ( allora aveva 7 anni ) di ” una vittima del diffuso propagandato odio dei partigiani di Tito verso gli italiani ” così è la presentazione ufficiale con la quale si presenta, a nome di un’altra fantomatica Associazione – Ass.Naz C(ongiunti)D(eportati)I(taliani) in J(ugoslavia).(??) – ( Notizia dell’Ultimo minuto, mentre sto scrivendo – e con beneficio di inventario: mi dicono che il Sindaco di Gavardo ha annunciato un collegamento in diretta con ” Porta a Porta ” proprio con la loro iniziativa con la Cernecca.. Udite – udite).
E nelle sezioni ANPI ancora l’argomento non è sufficientemente conosciuto, nonostante il convegno organizzato dalla Commissione Scuola – il 31 gennaio 2005 – a Cellatica ( BS ) e i continui interventi sul nostro periodico provinciale ” Ieri e Oggi Resistenza”.
Varrebbe la pena, secondo il mio parere, organizzare un seminario, una giornata di studio ..un qualcosa.. sull’argomento.
Una ” sventagliata di falsità” da parte di questi figuri – che si atteggiano a ” storici “, e di fronte specialmente a studenti storicamente impreparati, cancella in un battibaleno il prezioso e costante lavoro che tante Sezioni dell’ANPI svolgono in occasione della ” Giornata della Memoria”, o del 25 aprile o del 2 giugno..
In vista delle prossime scadenze elettorali, varrebbe la pena “informare” che anche la generazione dei “nuovi ” Amministratori dovrà fare riferimento ai principi dell’antifascismo, così come sanciti dalla nostra Costituzione e così tenacemente da salvaguardare nei suoi principi fondamentali ( come ci sta sollecitando il nostro Presidente Smuraglia).
Anche la scuola oggi dimostra scarsa attenzione ai periodi storici succedutisi dalla nascita della nostra Repubblica.
Lo dico come Presidente dell’ANPI di Salò, una città quasi solamente conosciuta a livello internazionale per la sua antistorica assonanza nominale di capitale della RSI ( da qui ” repubblica di Salò “) e magari non conosciuta come città natale dell’ottava vittima della strage di Piazza Loggia del 1974 ( il compagno Vittorio Zambarda ). Io stesso ero presente quella mattina e mi sono salvato solo perchè appoggiato ad una colonna. E si fa fatica a rendere l’episodio come parte della ” storia ” della città: a 40 anni di distanza. Ma anche qui , se chiedete alle nuove generazioni della mia zona se hanno qualche informazioni o conoscenza della carneficina. Risposta: quasi niente !! ( o magari sono state le brigate rosse!!).
Per ultimo: vi ricordo che proprio a Salò, la mia sezione ha in corso la esposizione della Mostra ” Testa per dente ” curata , curata dagli storici che fanno riferimento alla casa editrice “Kappavu ” di Udine (di cui fa parte anche la dott.ssa Kersevan – autrice della lettera inviata all’ANPi di Cadoneghe – inserita nell’allegato).
(Non me ne voglia la sezione ANPI di Cadoneghe: avranno sicuramente modo di rimediare a quello che è, sicuramente, un incidente di percorso. Anzi: li invito a Salò per un cordiale incontro).
Paolo Canipari – Presidente Sezione ANPI di Salò

Lettera di Renzo Giannoccolo a Carlo Smuraglia:

Signor Presidente Carlo Smuraglia,

il 25 luglio 2012, in quel di Gattatico (RE), l’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA, da Lei presieduta, e l’ISTITUTO ALCIDE CERVI, sottoscrissero il documento/manifesto “Per un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”.
La lettura del documento fece immediatamente breccia su di me e, a partire dal mese di settembre dello stesso anno, iniziai una lunga serie di telefonate, contattando compagne e compagni della CGIL – anche di Avellino e Alessandria – dello SPI, dell’ANPI – locale e provinciale – di ISTORECO e dell’ISTITUTO CERVI.
Con il prezioso contributo di tutti, compresa l’Amministrazione comunale di Correggio, organizzammo, nelle giornate del 15 e 16 dicembre 2012, un evento che recepiva il titolo del documento/manifesto del 25 luglio: “PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA”. “FINE SETTIMANA RESISTENTE” che comparve anche sul sito dell’ANPI nazionale.
Allego il link http://www.anpi.it/eventi/per-un-nuovo-impegno-e-una-nuova-cultura-antifascista__20121215/

In questi giorni, frequentando le pagine di facebook, leggo che il 17 febbraio prossimo, in quel di Cadoneghe (PD), in occasione del “GIORNO DEL RICORDO”, si svolgerà un dibattito dal titolo più che emblematico: “Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti; siamo italiani e crediamo nella Costituzione”.
Il dibattito è organizzato da ANPI Veneto e Padova (sigh!) e da ANVGD di Padova, e vede la partecipazione, tra le altre persone, del sindaco di Cadoneghe.
Allego link https://www.facebook.com/photo.php?fbid=620027838067924&set=a.502872946450081.1073741827.100001821392324&type=1&theater
Ora, mio chiedo e Le chiedo: dove trovano piena cittadinanza e coerenza il “Nuovo impegno e la nuova cultura antifascista”?
Nella iniziativa svolta a Correggio il 15 e 16 dicembre 2012 o in quella programmata a Cadoneghe per il 17 febbraio prossimo?
La sezione ANPI di Cadoneghe ha letto il documento/manifesto del 25 luglio 2012? In caso di risposta affermativa, perchè organizza una iniziativa che va in direzione opposta e contraria?

Signor Presidente Carlo Smuraglia,
nel ricordarLe la Sua puntuale e tempestiva presa di posizione, nel 2011, di fronte alla proposta di legge (primo firmatario Gregorio Fontana del Pdl), di equiparare i repubblichini di Salò ai Partigiani (il link) http://www.repubblica.it/politica/2011/05/31/news/pdl_propone_riconoscimento_ex_combattenti_sal_per_loro_contributi_statali_come_per_anpi-17031066/?ref=HREC1-5
Le chiedo cortesemente e, altrettanto fermamente, anche in qualità di iscritto all’ANPI, di PRENDERE DECISAMENTE LE DISTANZE DALL’INIZIATIVA DI CADONEGHE e, per quanto Le sarà possibile, attivarsi affinchè non si compia l’ennesimo scempio e l’ennesima violenza contro coloro che hanno combattuto e, in troppi, dato la vita per la Liberazione dell’Italia che nulla e, ribadisco, nulla hanno avuto in comune con coloro che hanno combattuto a fianco dei nazisti per l’occupazione del nostro Paese e che la Libertà ci volevano togliere.
E per rispetto dei tanti e tante che, in una situazione politica, economica, sociale e culturale sempre più drammatica, si battono quotidianamente.
PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA.

Con Affetto e Cordialità

Renzo Giannoccolo

Oggi, settant’anni fa, i fascisti uccidevano Leone Ginzburg

leoneginzburg2Leone Ginzburg (Odessa 1909 – Roma 1944)

Riproponiamo qui il testo che abbiamo scritto nel novembre scorso per gli ottant’anni della casa editrice Einaudi.

«Questa mia traduzione è nata nelle circostanze seguenti».
Il primo nome che ci è venuto in mente quando dalla casa editrice ci hanno chiesto un pugno di righe – un ricordo, uno spunto, qualcosa – sull’ottantennale della fondazione dell’Einaudi, è quello di Leone Ginzburg. A seguire, quello di Proust. Perché?
Perché nel giro di ventiquattr’ore si celebrano il centenario della pubblicazione di Du côté de chez Swann (14 novembre 1913) e l’ottantennale dell’Einaudi (il giorno dopo).
E perché c’è un collegamento forte tra Leone Ginzburg, la sua persecuzione da parte dei nazifascisti, la tragica fine a Regina Coeli… e la Recherche.
La traduzione «classica» del primo tomo della Recherche, quella che l’Einaudi continua a pubblicare (oggi nella Biblioteca ET) è di Natalia Ginzburg. Gran parte del lavoro fu svolto nel 1940 a Pizzoli, in Abruzzo, dove Natalia era al confino con il marito Leone. I volumi della Recherche, in un’edizione di gran lusso, li avevano ricevuti come regalo di nozze. Dopo l’Armistizio – del quale è appena ricorso il settantennale, quanti anniversari con la cifra tonda! – i Ginzburg lasciarono il confino, ma i fogli della traduzione rimasero a Pizzoli. Leone andò a Roma, incontro alla Resistenza e alla morte. Della quale è prossimo il settantennale.
Scrive Natalia:
«Per molto tempo, non pensai più a quei fogli protocollo. Se a tratti m’avveniva di ricordarli, ricordavo soprattutto il tempo felice trascorso. Leone era morto e la quiete di quei pomeriggi che passavo a tradurre apparteneva a un’età perduta».
Ma i fogli si erano salvati. Natalia poté recuperarli a guerra finita, e terminare la traduzione.
Quanto c’è di quell’età perduta nel lavorio di Natalia sul francese e sull’italiano? Quanto della quiete al confino, e poi della guerra, della morte, della perdita? Quali parole fanno da «spia» dell’esperienza vissuta?
Quanto c’è di Leone nella traduzione di Natalia?
Natalia scrive:
«Leone mi aveva detto che dovevo cercare tutte le parole sul vocabolario, anche quelle di cui sapevo il significato. Era sempre possibile trovare un termine più preciso e migliore. Questa frase la presi alla lettera e cercavo proprio ogni parola: anche maison».
Lezione più significativa e politica di quel che sembra. Il fascismo, con la sua retorica tronfia e tonitruante, delle parole e dei significati aveva fatto strame. E oggi non siamo messi molto meglio. Imperano «neolingue» eufemistiche, la cui unica funzione è ottundere. La lezione di Leone è più utile che mai.
Se, pensando alla fondazione dell’Einaudi, il primo ad apparirci è stato lui, vorrà pur dire qualcosa.
Leone Ginzburg, perseguitato e ucciso dai fascisti.
Fascisti. Fascismo. Eccole, due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.
Storie dell’Einaudi, storie nel catalogo Einaudi. Un catalogo dove Proust, morto prima della Marcia su Roma, ha voce d’antifascista.
Del resto, lo scrisse un allora fascistissimo Bargellini su un numero del Frontespizio nel 1936:
«Chi ama Proust non può amare la serenità e la virilità italiana».
Dove «italiana», come ancora oggi spesso accade, sta in realtà per «fascista».
Italia. Italiano. Ecco altre due parole da cercare. Proprio perché tutti credono di conoscerne il significato.

(da http://www.wumingfoundation.com)

Ugo De Grandis: “Malga Silvagno – Il giorno nero della Resistenza vicentina”

DeGRANDIS-MalgaSilvagnoGiuseppe Crestani, nato a Duisburg nel 1907 da genitori italiani e residente fin da giovane in provincia di Vicenza, nel 1936 era emigrato in Francia e da qui aveva raggiunto la Spagna per combattere il fascismo durante la guerra civile. Inquadrato nella Brigata Garibaldi, aveva ottenuto il grado di tenente dopo aver frequentato la scuola ufficiali di Pozo Rubio. Ferito sul fronte dell’Ebro, in seguito internato nei campi francesi e confinato a Ventotene; nell’autunno del 1943 era stato tra i primi organizzatori della Resistenza sulle montagne vicentine. Ma era stato ucciso il 30 dicembre 1943, assieme ad altri tre compagni, alla Malga Silvagno, in comune di Fontanelle di Conco, sull’Altopiano di Asiago. Una storia purtroppo comune ad altri reduci della guerra civile in quegli anni, sfuggiti alla morte in Spagna per trovarla poi in Italia combattendo nelle formazioni partigiane. Ma in questo caso vi è un elemento in più che rende questa vicenda tragica ed assurda: Crestani assieme a tre compagni è stato ucciso per motivi ideologici dai componenti di una banda partigiana cattolica assieme ai quali egli cercava di organizzare una lotta comune contro nazismo e fascismo. Le “colpe” dei quattro erano di aver imposto un’accelerazione sul piano militare, con azioni che rendevano difficili gli ambigui contatti tra forze partigiane moderate ed ambienti fascisti che miravano ad una transizione indolore, ed una disciplina che tenesse conto delle basilari necessità della guerriglia. In più, erano comunisti. Particolare inquietante, ad alcuni di essi era stato chiesto se fossero o meno cattolici; al loro diniego era partito il colpo mortale. Il gruppo partigiano dopo il fatto si era ricostituito, ma era stato sorpreso meno di tre settimane dopo dai tedeschi ed alcuni dei responsabili di quelle morti erano stati fucilati. In loro memoria annualmente le associazioni partigiane tengono una cerimonia, ma nessuno ricorda i “rossi” ammazzati dal loro gruppo in precedenza. Giova pertanto qui ricordare i nomi di questi dimenticati: assieme a Crestani erano stati uccisi il friulano Ferruccio Roiatti, già condannato nel 1934 a otto anni di carcere dal Tribunale Speciale per attività comunista. Inoltre Tomaso Pontarollo, lavoratore veneto emigrante che aveva trascorso diversi anni in Algeria prima di venire arrestato in Istria nel 1936 per lo stesso motivo di Roiatti e di passare quasi sette anni tra confino e campo di internamento, ed infine un certo “Zorzi” o “Maschio”, la cui identità è destinata a rimanere ignota.
I particolari di queste morti sono stati a lungo e con grande tenacia nascosti dagli ambienti anticomunisti e cattolici della provincia di Vicenza, dominata per molti anni politicamente dalla Democrazia Cristiana. La storia diffusa dai canali ufficiali non era quella reale, e sui quattro “rossi” uccisi era calata una spessa coltre di silenzio, una sorta di damnatio memoriae. Ora invece questa storia non ufficiale è stata documentata, con grande abbondanza di particolari, da Ugo de Grandis, in questo libro, arricchito anche da molte immagini dell’epoca che ritraggono sia i protagonisti che alcune delle vicende raccontate. Scrivendo, De Grandis ha tenuto presenti le tante strumentalizzazioni mediatiche contro la Resistenza garibaldina e comunista realizzate ponendo a pretesto i fatti di Porzûs (o meglio delle malghe Topli Uork, dove un battaglione di gappisti friulani aveva arrestato e poi ucciso in momenti diversi nel febbraio 1945 i componenti di un comando della Brigata Osoppo). Non a caso, i fatti descritti in questo libro sono talvolta definiti una “Porzûs alla rovescia”. Certo, le differenze tra i due episodi non mancano, la definizione non è forse esatta, ma ha il merito di riaprire un dibattito che tanta storiografia nata con la guerra fredda ed ormai dilagata, dopo la sua fine, sui media e sulla stampa, considera chiuso con la definitiva condanna della Resistenza comunista. In realtà i conflitti interni alla Resistenza ci furono, i componenti delle brigate autonome, cattoliche, badogliane, a volte furono vittime ma altre volte furono carnefici, l’unità delle varie formazioni sul piano militare e degli obiettivi politici antifascisti fu spesso un obiettivo da raggiungere più che una realtà. E perciò va dato merito a quanti si spesero allora, anche tenendo presente la “lezione della Spagna”, in favore di tale unità.
De Grandis afferma che la decisione di eliminare i quattro comunisti, due dei quali ritenuti “foresti”, stranieri, perché non erano originari della zona, era stata presa in alcuni ambienti politici di Vicenza e poi trasmessi al gruppo cattolico di Fontanelle di Conco. Certo, rimane poco chiaro il ruolo giocato da alcuni personaggi ambigui, che frequentavano le bande partigiane cattoliche e badogliane ma anche ambienti fascisti della provincia, nello spingere i giovani cattolici a procedere alle quattro sbrigative eliminazioni. L’autore ricostruisce anche con attenzione le varie inchieste promosse dal PCI, a partire dai primi mesi del 1944, per far luce sull’accaduto. All’epoca il responsabile dell’organizzazione militare in una zona molto ampia e tradizionalmente cattolica era il friulano Amerigo Clocchiatti, che si trovava di fronte a livello politico e militare un compito difficilissimo. La documentazione raccolta da Clocchiatti però era stata persa durante un bombardamento. L’inchiesta era proseguita nel dopoguerra, aveva raccolto numerose informazioni ed individuato alcune responsabilità, ma poi tutto era finito con un nulla di fatto. Nel dopoguerra la gran parte dei protagonisti di quelle uccisioni era morta, il personaggio che manteneva rapporti con ambienti fascisti ma anche con i partigiani cattolici, che alcuni consideravano un provocatore fascista nelle file partigiane, godeva fama di essere stato un valoroso partigiano e sarà decorato con due medaglie di guerra. Alcuni reduci delle formazioni cattoliche, tra cui un futuro giornalista di un certo prestigio, interrogati avevano ripetuto le accuse di furti e violenze a carico dei quattro garibaldini che a suo tempo avevano formulato i fascisti. Il membro del Comitato Militare Provinciale reo di aver probabilmente trasmesso in montagna l’ordine di eliminazione dei quattro si proclama con molta energia estraneo a quei fatti Se non si voleva colpire i responsabili, perché i vari funzionari di partito non denunciarono almeno con forza quegli avvenimenti, come avrebbero potuto comunque fare, sebbene avessero raccolto informazioni sufficienti per capire bene quanto era accaduto? De Grandis individua il motivo del silenzio su queste morti, e su altre che hanno coinvolto partigiani comunisti, nella linea dell’unità antifascista voluta da Togliatti, che aveva portato a propagandare un’immagine della Resistenza come movimento in cui le divisioni interne erano state armoniosamente composte (pp. 396 – 397). Un’immagine, aggiungo io, che non deve impedire a noi di cercare una verità anche che può risultate scomoda.
Marco Puppini

Italiani mala gente (di Franco Giustolisi)

grecia3Ha condotto l’azione «con calma, implacabile energia ed intelligenza». Sono le precise parole di una proposta di encomio solenne per un tenente colonnello che durante l’ultima guerra guidò un’operazione militare nella Grecia occupata. Le parole le scrisse il comandante della divisione Pinerolo, il generale Cesare Benelli. L’ufficiale da encomiare era il tenente colonnello De Paula. Ma l’ufficiale non aveva guidato un’azione particolarmente rischiosa o impegnativa. Non aveva combattuto contro «soverchianti forze nemiche», come spesso si legge nelle motivazioni di medaglie ed encomi. Aveva “solo” messo a ferro e fuoco un paese, Domenikon, in Tessaglia, uccidendo gli uomini, bruciando le case, deportando donne e bambini. Un crimine di guerra commesso da soldati italiani sul quale sta adesso indagando la procura militare di Roma.
Tutto avviene il 16 febbraio 1943, in Tessaglia, appunto. Un’autocolonna italiana che trasporta viveri viene attaccata da quello che viene definito un “gruppo di banditi”, cioè di partigiani greci che combattono contro gli occupanti italiani. La battaglia termina con la rotta degli assalitori. Ma da dove sono arrivati i partigiani? La località abitata più vicina è Domenikon e gli italiani immaginano che da lì siano venuti i “banditi”. Gli uomini della Pinerolo agiscono immediatamente. Radunano e massacrano tutti i maschi di più di 14 anni che vi abitano. Le poche case vengono date alle fiamme. La chiesa viene risparmiata, le donne avviate in un campo di concentramento. Il generale Benelli si vanta di quell’azione, dice che è «esempio e monito per il futuro» e nelle conclusioni del rapporto scrive che «le perdite sono le seguenti, da parte nostra. Morti in combattimento:
truppa 8: morto in ospedale in seguito alle ferite, truppa 1. Feriti: 2 ufficiali, truppa 13. Da parte dei greci. Morti durante lo scontro: 8. Sbandati raggiunti e passati per le armi dalla scorta dell’autocolonna: 7. Rastrellati dalla compagnia di rinforzo e passati per le armi: 16. Passati per le armi perché cercavano di fuggire dall’accerchiamento: 4. Passati per le armi da reparto inviato da Tyrnavos: 8. Passati per le armi a Damasi: 97 (sono i cittadini di Domenikon, ndr.). In totale 140 sudditi greci deceduti».
I documenti su questa storia erano stipati in quello che può essere definito un “carrello della vergogna”. Un carrello grande, a due piani, di quelli che servono a portare faldoni da un ufficio all’altro e nascosto in un angolo della Procura militare, non molto lontano dall’“armadio della vergogna”. L’armadio aperto nel 1994 e di cui parlò per primo “l’Espresso”con l’articolo “Dieci, cento, mille Ardeatine” di Alessandro De Feo e mio. Un armadio della procura militare rimasto per decenni con le ante rivolte verso il muro e dentro, «archiviati provvisoriamente», 695 fascicoli sulle stragi commesse in Italia dai nazisti. Vi vennero chiusi nel 1960 per una sorta di patto segreto tra Italia e Germania. Nessun processo per i nazisti, nessun processo, in cambio, contro i fascisti colpevoli di crimini di guerra nei paesi aggrediti da Mussolini. Nel carrello della vergogna, infatti, insieme al fascicolo sulla strage di Domenikon ce ne sono molti altri relativi alle tante stragi commesse, durante l’ultima guerra, dai militari italiani.
Il fascicolo su Domenikon adesso è sul tavolo del procuratore militare di Roma, Marco De Paolis. E i fatti sono ricostruiti nel diario della divisione Pinerolo che, comandata dal generale Cesare Benelli, era di stanza nella Grecia occupata. A far riemergere questa storia è stato un documentario di Giovanni Donfrancesco (mai trasmesso dalla Rai), “La guerra sporca di Mussolini”. La Procura militare di Roma apre l’inchiesta, ma poi
la chiude frettolosamente con doppia motivazione: «Il generale Benelli è deceduto e manca la parità di tutela penale da parte dello Stato nemico a norma dell’art.165 del Codice militare di guerra». A parte il fatto che sarebbe stato opportuno scrivere Stato ex nemico, molti magistrati contestano l’applicabilità di quell’articolo, un articolo chiamato “salva-tutti”, perché riguarderebbe il rapporto tra militari e militari e non tra militari e civili.
Ma per fortuna il tempo non basta a soffocare l’anelito di giustizia che è una delle colonne portanti della democrazia. E così a Marzabotto, nel giorno della ricorrenza della strage, l’8 ottobre di due anni fa, un distinto signore avvicina l’attuale procuratore militare della Repubblica di Roma, Marco De Paolis. Si chiama Efstathios Psomiades, è il rappresentante delle famiglie delle vittime di Domenikon. Chiede giustizia, fa un discorso di questo tipo: qui in Italia, a gran voce, si chiede che vengano puniti i criminali nazisti responsabili di questo e di tanti altri massacri. Ma i fascisti sono ugualmente colpevoli di delitti simili. Perché non si procede anche contro di loro? Al suo ritorno a Roma De Paolis consulta quei vecchi fascicoli e riapre l’inchiesta chiusa circa cinque anni prima dal suo predecessore Antonino Intelisano, poi promosso al massimo grado di procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. Va ricordato che De Paolis ha riavviato le inchieste su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano e molte
altre stragi, chiedendo ed ottenendo, sinora, sessanta ergastoli. Di nazisti colpevoli ne sono rimasti in vita una quarantina, ma Germania e Austria non vogliono “disturbarli”, vivono tranquillamente nelle loro case.
Per Domenikon De Paolis ha aperto un procedimento a carico di ignoti alla ricerca di qualcuno della divisione Pinerolo ancora in vita. A oggi, a quanto pare, i carabinieri hanno scovato solo un novantacinquenne, ex sottotenente di quella divisione, che però non si trovava allora in quel teatro di operazioni. Ma l’inchiesta continua. (di Franco Giustolisi da “L’Espresso)

La guerra sporca di Mussolini: http://youtu.be/_ttQKhut4vo

Hannah Arendt

arendt

“La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”

Per comprendere meglio la personalità e le idee di Hannah Arendt vi proponiamo la visione di questa conferenza tenuta da Olivia Guaraldo,  ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Verona:

Genocidio nei balcani

JSNingrNon c’è stato soltanto l’Olocausto degli ebrei. Il primo genocidio dell’età contemporanea è stato quello degli armeni, un milione e 200 mila persone (o forse due milioni) massacrate dagli ottomani. Poi ci sono stati i crimini staliniani, molti milioni di morti, che sono soltanto una parte della tragedia sovietica. Infine, c’è stato l’Olocausto dei serbi ortodossi, ancora oggi praticamente sconosciuto, in cui sono stati eliminati 700 mila persone(o forse un milione).
I carnefici di quest’ultima mattanza – avvenuta durante gli anni del secondo conflitto mondiale e organizzata sul modello nazista, con deportazioni e campi di concentramento e di sterminio -, furono gli ustascia (letteralmente, ribelli) croati, guidati dall’ultranazionalista Ante Pavelić. Il quale si autoproclamò Poglavnik (Duce) dello Stato indipendente di Croazia (in realtà, un satellite della Germania e dell’Italia) e attuò una politica di pulizia etnica nei confronti di “tutti gli altri”, con particolare riguardo, naturalmente, verso zingari, ebrei e gli stessi croati che si opponevano agli ustascia, ma con speciale cura per i serbi. Non tanto e non solo perché costoro erano il nerbo della resistenza guidata dal comunista Tito, il maresciallo della futura Jugoslavia postbellica, ma soprattutto perché i serbi erano cristiani ortodossi e dunque, per un cattolico integralista fanatico come Pavelić, dovevano essere i primi della lista. E così, se agli ebrei toccò di essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte, la stella di Davide, cucita sul bavero della giacca, i serbi furono contrassegnati da una fascia infilata al braccio con una lettera P di colore blu. P come pravoslavni, cioè ortodossi.
I lager degli ustascia, fatti costruire alle stesse vittime, erano disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina, ma poiché il loro programma era quello di “eliminare quanti più Serbi possibile nel minor tempo possibile”, vennero utilizzati anche i lager che i tedeschi avevano costruito nel resto della ex Jugoslavia.
Soltanto negli ultimi anni però, e non dappertutto, si è cominciato a ricordare le vittime con testimonianze visibili, come per esempio il piccolo monastero alla memoria costruito a Herzeg Novi, in Montenegro, oppure la scultura che dal 2007 sorge a Banja Luka, Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, significativamente chiamata Pioppo dell’Orrore. Fino ad allora, fatta eccezione per il monumento del lager principale di Jasenovac (un enorme Fiore di Pietra dello scultore Bogdan Bogdanović, inaugurato nel 1966), il genocidio serbo aveva trovato accoglienza soltanto nell’Holocaust Memorial Museum di Washington e, alcuni anni dopo, all’Holocaust Memorial Park di New York. Al di là dell’Oceano. Mentre è da questa parte, a un centinaio di chilometri da Zagabria, che si trova Jasenovac, centro e luogo simbolo dello sterminio (vi sarebbero state eliminate circa 80 mila persone), e tuttavia un nome che non dice niente se non lo si accompagna con la stolida definizione di “Auschwitz dei Balcani”, quasi che, per essere riconosciuto, il male di casa a Jasenovac avesse bisogno di essere paragonato a quello di Auschwitz.
Jasenovac era un “complesso” di otto campi di sterminio – cinque più grandi e tre più piccoli -, con le camere di tortura e i boia, i quali impiccavano, accoltellavano, strangolavano, bruciavano vivi i deportati. O più “pietosamente” li abbattevano con un colpo alla nuca, senza far differenza tra adulti e bambini, donne e vecchi, ma facendo grande attenzione a eliminare i serbi in quanto serbi, come pure gli ebrei e i rom in quanto tali. Il tutto, spesso e volentieri, davanti a una cinepresa.
Oggi Jasenovac è un luogo silenzioso, impregnato di una tristezza che richiede solo contemplazione. Anche l’acqua dei quattro fiumi che la circondano (Sava, Trebež, Una e Struga) e le fronde degli alberi che colorano la pianura sembrano non voler fare troppo rumore qui, dove persino le SS tedesche inorridivano di fronte agli “eccessi criminali” degli ustascia, con i quali i militari italiani si scontrarono diverse volte per frenarne la furia sanguinaria. Ma c’era poco da fare, quando nel lager di Jasenovac a dispensare la morte con le proprie mani era addirittura un frate francescano, Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato Fra’ Satana (espulso dall’ordine appena vennero scoperti i suoi crimini), che guidò il campo dal 1942 e fu giustiziato nel 1945.
Ne nacque anche uno scontro fra la neonata Repubblica federale di Jugoslavia e il Vaticano. La prima accusò l’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, di aver coperto e favorito gli ustascia e per questo lo condannò a 16 anni di carcere. La Chiesa di Roma rispose prima con papa Pio XII, che nel 1953 nominò Stepinac cardinale, e poi con papa Giovanni Paolo II, che nel 1998 lo beatificò. Per chi lo accusa, Stepinac è stato un cinico favoreggiatore di Pavelić che non avrebbe esitato financo a praticare la conversione forzata di massa dei serbi. Per chi lo difende, tutto questo sarebbe una montatura, come dimostrerebbero le testimonianze di perseguitati serbi, rom ed ebrei che invece Stepinac avrebbe salvato anche attraverso lo stratagemma della “conversione”.
Resta il fatto che il dolore e la rabbia per Jasenovac sono poi esplosi durante la guerra degli anni Novanta, che ha sancito la dissoluzione della Jugoslavia. Un dolore e una rabbia che ancora covano sotto la cenere, se è bastata, nei mesi scorsi, una intervista di Bob Dylan al giornale Rolling Stone per scatenare una polemica feroce. “Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Così come gli ebrei possono sentire il sangue nazista, e i serbi il sangue croato”, ha detto Bob Dylan. Parole che gli sono costate l’incriminazione per ingiurie e istigazione all’odio in seguito a una denuncia presentata dalla Comunità dei croati francesi. Solo che appare difficile immaginare un Bob Dylan razzista. Meravigliose canzoni a parte, il vero nome di Dylan è Robert Allen Zimmerman e i suoi nonni, ebrei ucraini, fuggirono in America per scampare alle persecuzioni antisemite della Russia zarista.
Carlo Vulpio (La Lettura, Corriere della Sera, 19 gennaio 2014)

Guerra di Liberazione, non guerra civile

Guerra di Liberazione, non guerra civile, questa la conclusione della serata di ieri, con Gianni Giannoccolo, Alessandra Kersevan, Elisa Lolli.

Dall’introduzione del libro di Gianni Giannoccolo letta da Elisa Lolli:

La memoria non può essere cancellata, anche perché la Resistenza rimane un punto di riferimento per tutti coloro che quel periodo l’hanno vissuto e hanno avuto modo di conoscere gli orrori della guerra, la spietata occupazione nazista dell’Italia e dell’Europa con la deportazione di civili nei campi di concentramento, ebrei sterminati, saccheggi, incendi di case di civili con donne e bambini, stragi di gente inerme, le requisizioni e le depredazioni. In sostanza la violenza tendeva a ridurre a terra bruciata un ambiente che si avvertiva come ostile in quanto contrastava la violazione dei fondamentali diritti umani, respingendo ogni forma di complicità.
Eventi che non debbono cadere nell’oblio, ma che debbono essere trasmessi da generazione in generazione non tanto per esorcizzarli, quanto perché servano da monito affinché non abbiano a ripetersi. Parafrasando Gioele, essi continueranno ad essere presagiti dai figli, presenti nei sogni dei vecchi e nelle visioni dei giovani nell’incessante continuazione della memoria.
C’è troppa gente che quel periodo vuole rimuovere e non mancano coloro che, con teorie elaborate a tavolino, con iniziative estemporanee sprovviste di ogni seria verifica, tentano di stravolgere i termini storici di quegli avvenimenti, capovolgendone i rapporti casuali, nascondendo la motivazione e l’origine di determinati fatti, rifacendo una storia di comodo sulla base di tesi precostituite per adattarla e renderla funzionale a orientamenti politici contingenti.
E il momento di ricostruire, sulla base di documenti e testimonianze, quei drammatici eventi nella loro verità assodata e ineccepibile, per non smarrire la memoria di un patrimonio che deve essere tramandato, un patrimonio che è ignorato volutamente da coloro che, mimetizzati sotto i paraventi di qualche partito postmoderno, persistono ancora oggi nell’esaltare gesta saloine, come si è peritato di fare più di una volta l’ex Ministro La Russa.
Dico subito che chi scrive appartiene alla schiera, per fortuna tutt’altro in via di estinzione, di coloro che non si rassegnano a dover accettare passivamente l’interpretazione corrente che si intende dare al significato della Resistenza, di quello che essa ha rappresentato nella lotta di popolo contro l’occupante nazista dell’Italia dal 1943 al 1945. E neppure ad accettare alcuni episodi e strumentalizzazioni del dopoguerra, a volte raccapriccianti e da condannare, ma pur sempre isolati e anomali, attraverso i quali avallare la tesi che in Italia in quel periodo vi sarebbe stata la guerra civile.