18 gennaio 1944: insurrezione del ghetto di Varsavia

ghettoIl 18 gennaio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia occupata dai nazisti reagirono per la prima volta alle le violenze e le deportazioni, che riuscirono a impedire resistendo ai tedeschi. Il comandante delle SS ordinò la distruzione del Ghetto, i cui abitanti organizzarono una rivolta che tenne in scacco i nazisti per un mese tra aprile e maggio, prima che il Ghetto fosse raso al suolo e la rivolta si concludesse con l’uccisione di oltre diecimila ebrei e la deportazione di circa 50 mila.   Questa la storia della rivolta:

Dal settembre 1942 al gennaio 1943 i tedeschi cercarono di rassicurare i superstiti abitanti del ghetto. Non ci sarebbero state altre deportazioni verso Est, non c’era più nulla da temere. Tuttavia qualcosa nel meccanismo di autoinganno favorito dalle menzogne tedesche si era spezzato. Il ricordo dei familiari, delle mogli, dei mariti, dei genitori, dei figli trasportati verso la morte era troppo vivo negli scampati. Nessuno più si faceva illusioni o credeva nelle menzogne naziste.
Nessuno più credeva che sarebbe uscito vivo dal ghetto. Se si doveva morire questa volta si doveva però morire con onore, combattendo. Anche chi non cercò di aggregarsi alla resistenza militare aveva maturato la convinzione che occorresse combattere.
I combattenti della ZOB non elaborarono alcun piano di ritirata. A differenza del movimento di resistenza della città di Vilna, l’FPO che aveva pianificato la rivolta per fuggire dal ghetto, la ZOB voleva morire con il Ghetto di Varsavia difendendolo metro per metro.
Verso il 15 gennaio i nazisti compirono delle retate di uomini nella parte “ariana” di Varsavia. Una gigantesca caccia al polacco in età di lavoro venne scatenata dalla Gestapo. Nel Ghetto non ci si attendeva una azione nazista dopo queste operazioni di rastrellamento.
Contrariamente alle previsioni alle 6 del mattino del 18 gennaio 1943 una colonna tedesca entrò nel ghetto con il proposito di rastrellare gli abitanti. La tecnica adottata era quella consueta: accerchiamento degli stabili e intimazione ad uscirne. L’operazione colse completamente di sorpresa la ZOB: non c’era il tempo di riunire il comando e prendere delle decisioni.
Anielewicz si assunse la responsabilità dell’azione e con una dozzina di uomini armati di pistola si introdusse nella colonna di prigionieri che stavano marciando verso la Umschlagplatz dove i treni aspettavano. Ad un cenno convenuto, quando la colonna arrivò all’angolo tra via Zamenhof e via Niska, ogni combattente cominciò a scaricare la propria pistola sul tedesco più vicino. Contemporaneamente Yitzack Zuckermann attirò un gruppo di nazisti in un appartamento di via Zamenhof ferendone diversi.
L’attacco colse completamente di sorpresa i nazisti. Diversi rimasero sul terreno e gli uomini della ZOB si impossessarono delle loro armi. Quando altre SS accorsero in aiuto dei loro commilitoni gli uomini della ZOB fecero l’errore di combattere allo scoperto per le vie del Ghetto. Fu un grave errore: numerosi rimasero uccisi non potendo far fronte al numero e all’armamento dei nazisti.
Nonostante questo errore tattico l’effetto politico dell’azione fu enorme. Le centinaia di prigionieri già incolonnati si dispersero sottraendosi alla deportazione. Gli uomini della ZOB dimostrarono che non solo si poteva resistere ma che si potevano uccidere anche gli uomini della “razza superiore”.
I nazisti continuarono l’operazione sino al 22 gennaio continuamente disturbati dagli attacchi della ZOB che questa volta cambiò tattica attaccando e scomparendo.
Grazie alla resistenza armata della ZOB le SS riuscirono a deportare soltanto 650 persone e ad ucciderne sul posto 1.171 che erano state catturate. Considerando che l’operazione mirava almeno al dimezzamento degli ebrei del Ghetto il successo della resistenza appare evidente.
Quel che i difensori della ZOB non sapevano era che l’operazione cominciata il 18 gennaio non mirava al totale svuotamento del ghetto. Durante i primi giorni del gennaio 1943 l’automobile blindata di Heinrich Himmler percorse le strade del Ghetto per una visita che lo stesso Reichsführer volle compiere per rendersi conto personalmente della situazione. Dopo questa “ricognizione” Himmler domandò quanti ebrei rimanevano ancora nel Ghetto. Gli si disse che si stimavano circa quarantamila residenti.
Al suo ritorno a Berlino Himmler scrisse una lettera al capo delle SS e della polizia di sicurezza Krüger ordinando l’immediata deportazione di almeno ottomila ebrei verso i campi di sterminio e di altri sedicimila nelle fabbriche di munizioni di Lublino.
Sammern-Frankenegg con l’operazione del 18 gennaio stava obbedendo ad un ordine che proveniva direttamente da Berlino: rimuovere ventiquattromila ebrei dal Ghetto. I seicentocinquanta ebrei catturati era tutto ciò che era riuscito a fare.
La notizia dell’insuccesso venne ritrasmessa a Berlino. (http://www.olokaustos.org/geo/ghetti/varsavia/warsaw01.htm)

17 gennaio 2014: commemorazione dei 7 partigiani uccisi al cimitero di Mirano

17gennaioNell’ottobre del 1944 una pattuglia della Brigata Volga, comandata da Oreste Licori, catturò il tenente delle SS italiane Vasco Mingori e, forse per uno scambio di prigionieri andato male, l’ufficiale venne ucciso nell’accampamento della “Luneo”. Elda Gallo, sorella del segretario del fascio di S. Maria di Sala fu catturata e giustiziata come spia nell’accampamento della “Volga”.
A Mirano il comandante delle Brigate nere Mario Zagari, grazie alla segnalazione di una collaborazionista, poi giustiziata dai partigiani della “Luneo”, arrestò Oreste Licori mentre faceva visita alla madre. Il giovane venne fucilato il 1° novembre 1944. Seguirono numerosi arresti tra i partigiani della “Luneo” grazie alle rivelazioni di una spia che si era introdotta nella formazione. Sei giovani furono torturati a morte nella notte tra il 10 e l’11 dicembre. I cadaveri vennero gettati ed esposti per tutto il giorno nella piazza del paese, i loro nomi sono: Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor e Giulio Vescovo; un settimo giovane Mosè Bovo fu trucidato nell’aia di casa davanti ai genitori.
Il 5 gennaio del ’45 fu riesumato il cadavere della SS italiana in zona Luneo. I tedeschi, in relazione alla morte dell’ufficiale e all’esecuzione delle due donne, chiesero dieci condanne a morte tra la trentina di partigiani reclusi nella casa del fascio. Fu istituito un processo farsa che si concluse con la condanna a morte di dieci partigiani, di cui tre ebbero accolta la domanda di grazia. Il 17 gennaio furono fucilati presso il cimitero di Mirano Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni).

Per commemorare i partigiani uccisi, venerdì 17 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano (VE) verrà presentato il libro di Gianni Giannoccolo “Resistenza: guerra civile o guerra giusta?”. Sarà presente l’autore. Introduzione di Alessandra Kersevan, Elisa Lolli leggerà brani del libro.

GIANNOCCOLO

Cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo”

pietre inciampoDomenica 12 gennaio alle ore 11.00 in Campo del Ghetto Novo, Venezia ci sarà la cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo” (Stolpersteine) in memoria dei cittadini e cittadine veneziani deportati nei campi di sterminio nazisti, con l’artista tedesco Gunter Demnig autore delle Pietre.
Il percorso della posa delle dodici Pietre d’Inciampo inizierà nel Campo drio la Chiesa, adiacente Campo SS. Apostoli (Cannaregio 4470), alle ore 9.00 per poi proseguire con la posa delle altre Pietre; invitiamo tutti a partecipare fin dall’inizio alla manifestazione e seguire l’intero percorso della posa per rendere omaggio, simbolicamente, a tutti coloro che hanno sofferto prima la deportazione e poi la morte nei campi di sterminio nazisti.
http://iveser.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1076&Itemid=13

 

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno: Intervista con Mario Bernardo, classe 1919, uno dei protagonisti della Resistenza, in particolare nel Bellunese ma anche a Venezie e nel Trentino orientale. La sua esperienza in proposito è narrata nel volume “Il momento buono” del 1969.

Di origini veneziane, classe 1919, Mario Bernardo è stato fra i protagonisti della Resistenza nelle vicine montagne bellunesi, come comandante delle formazioni garibaldine nelle quali erano inquadrate anche le due giovanissime martiri del Tesino, Clorinda Menguzzato «Veglia», seviziata e poi fucilata dai nazisti (nell’ottobre 1944, a Castello), e la sua amica Ancilla Marighetto «Ora», freddata con un colpo alla testa dopo essere finita nelle mani di una pattuglia del Corpo di sicurezza Trentino, Cst (nel febbraio 1945 al passo Broccon). Mario Bernardo, che dopo la guerra è diventato una figura di primo piano del mondo del cinema (direttore della fotografia per molti grandi maestri nonché regista a sua volta), era ufficiale alpino di stanza in Alto Adige quando arrivò l’8 settembre. Riuscì con alcuni commilitoni a sfuggire ai nazisti, supportati da forze locali, e riparò in una casa di montagna che la famiglia (padre veneziano, madre bellunese) aveva a Bieno, nel Tesino (dove Radiosa vive tuttora). Qui animò un primo tentativo di dar vita alla guerriglia ma non c’erano le condizioni per un successo e quindi si aggregò alle forze garibaldine del Bellunese. Ebbe ruoli di comando dapprima nella brigata Gramsci sulle Vette Feltrine, dove nacque l’operazione che condusse al varo del battaglione Gherlenda in Tesino, e poi con la divisione Belluno proprio sui monti che sovrastano il capoluogo della vicina provincia dolomitica. Radiosa Aurora si distinse in numerose azioni e, data la sua competenza specifica, diede un contributo importante alle azioni armate, specie in relazione all’utilizzo dell’artiglieria e degli esplosivi. Nel settembre 1944 riuscì con alcuni compagni a mettersi miracolosamente in salvo durante il tragico rastrellamento sul monte Grappa, quando ingenti reparti nazifascisti circondarono il massiccio e massacrarono anche civili in un’operazione che rappresentò un colpo durissimo per la Resistenza (più di 500 morti e 400 deportati).  Dopo la Liberazione, Bernardo fu inviato a Trento per guidare la polizia partigiana, ma in breve tempo prese atto della impossibilità di procedere realmente nei riguardi dei numerosi e zelanti collaborazionisti. Una delusione che indusse amaramente Radiosa Aurora a lasciare l’incarico anzitempo.

Questa la registrazione audio dell’intervista di Zenone Sovilla (Bellunopop.it): http://www.bellunopop.it/bellunopodcast/?p=episode&name=2012-04-11_o_voci-10-4-2012.mp3

Roma 4 gennaio 1944: 292 “indesiderabili” vengono deportati in Germania

Ultimo biglietto di Valrigo Mariani scritto nel viaggio fra Dachau e Mauthausen

Questa e’ la storia di un gruppo di uomini, detenuti nel carcere di Roma, che furono prelevati la mattina del 4 gennaio 1944 ed avviati alla Stazione di Roma Tiburtina per essere deportati. Uomini che non avevano commesso alcun reato. Iniziarono un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l’Italia e la Germania, con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo di Concentramento di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.

Al KZ Mauthausen, `l’inferno dei vivi`, furono immatricolati solo 257 uomini del gruppo uscito da Regina Coeli.
Dal mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, si legge:
‘Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino e’ partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sara’ scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone ‘.
Facciamo un passo indietro. Alcuni anni fa, nel 2004, feci un viaggio con destinazione Auschwitz e Birkenau in Polonia. Passando per l’Austria mi ricordai di un fratello di mio nonno, Valrigo Mariani, nato a Roma nel 1907, di cui avevo sempre sentito parlare in famiglia. Egli fu arrestato, poi deportato da Roma nel 1944 per morire in un campo di concentramento, forse a Mauthausen, dove quindi decisi di recarmi. Giunto al Campo, consultai il data-base del Museo ed ebbi la certezza della data di arrivo e della data della sua morte. Tornato in Italia iniziai una ricerca sfibrante, ancora in corso. Passai dalla estenuante burocrazia nazista alle poche documentazioni note in Italia. Scoprii l’esistenza dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei lager nazisti) e conobbi un ex deportato, Italo Tibaldi, che aveva lavorato, dal 1945, per circa 50 anni, alla ricostruzione dei trasporti, alle liste nominative e alle matricole di circa 8.000 persone deportate dall’Italia al Campo di Concentramento di Mauthausen. Inoltre, appresi che il 4 gennaio 1944 dal Carcere Giudiziario di Regina Coeli venne composto un trasporto di detenuti che dalla Stazione Tiburtina parti’ per il Nord diretto prima a Dachau e poi a Mauthausen. Il numero dei deportati variava fra i 257 (elenchi matricolari ricostruiti da Italo Tibaldi) ed i 480 (fonte Gino Valenzano, reduce da quel trasporto).
Partii dalla sicura lista dei 257 immatricolati, fra cui compariva il nominativo del fratello di mio nonno, e la confrontai con i registri matricola di Regina Coeli. Registri salvati miracolosamente dalla Dott.ssa Assunta Borzacchiello e dai suoi collaboratori, custoditi con difficolta’ nel Museo Criminologico di Roma. Mi confrontai con un periodo della storia di Roma e della fortissima resistenza al nazi-fascismo dopo l’8 settembre 1943 . Nei registri matricola di Regina Coeli ebbi la conferma ed il riscontro di soli 239 nomi dei 257 della lista ricostruita da Tibaldi. Trovai, pero’, altri nomi di detenuti usciti e partiti la mattina del 4 gennaio 1944, ma mai immatricolati a Mauthausen e percio’ non conosciuti.
Dalla ricerca sui diciotto nominativi non trovati nelle matricole di Regina Coeli, capii che erano persone detenute al terzo braccio del carcere sotto giurisdizione germanica. Molto utili furono i due libri scritti da Gino Valenzano, nipote del Generale Badoglio, che descriveva l’arresto suo e del fratello avvenuto a Roma ad opera della polizia tedesca, la loro detenzione al terzo braccio e la loro deportazione con tutti gli altri il 4 gennaio 1944.
Controllando i 18 nomi mancanti mi imbattei in una serie di particolari interessanti. Erano quasi tutti minori di diciotto anni, il piu’ piccolo aveva quattordici anni. Il nominativo di Fausto Iannotti, in particolare, risultava coinvolto casualmente nella prima strage nazista a Roma avvenuta nell’ottobre del 1943, dopo l’assalto della popolazione affamata al Forte di Pietralata.
Dal controllo della lista matricolare di Mauthausen, ricostruita da Tibaldi, Fausto Iannotti risultava deportato e deceduto nel sottocampo di Ebensee. Qualcosa non tornava.
Bisognava ricontrollare le fonti e gli avvenimenti. Verificai le testimonianze del ritrovamento della fossa comune a Casal dei Pazzi, oggi all’interno del muro di cinta della Casa circondariale di Rebibbia `Nuovo Complesso`. Ritrovai i registri dell’ obitorio di Roma del giugno 1945 e verificai il ritrovamento delle salme. Incontrai, infine, il fratello maggiore di Fausto Iannotti. Arrivai ad una certezza, ma senza riscontri perche’ mancavano le matricole di ingresso al terzo braccio tedesco di Regina Coeli. La ricerca si trovo’ ad un punto fermo.
La polizia nazista, molto attenta nello schedare e scrivere ogni cosa, probabilmente era stata scrupolosa anche nella distruzione della sua unica documentazione di immatricolazione del braccio? Qualcuno pero’ mi disse che le forze naziste, fra il 3 ed il 4 giugno 1944, lasciarono Roma improvvisamente senza preavviso e notevolmente impreparate. A Regina Coeli il 3 giugno ’44 erano state sostituite le normali forze di polizia germanica con i componenti del battaglione `Bozen` di origine altoatesina; quando questi arrivarono trovarono il terzo braccio ed una grossa parte del carcere vuoti. L’evento, per me sconosciuto, mi fece supporre che la polizia nazista, dopo aver gestito per nove mesi il quarto braccio prima ed il terzo braccio poi, non avesse avuto il tempo di distruggere la documentazione inerente le note matricolari, di ingresso ed uscita dal carcere. Ebbi ragione e fortuna.
In seguito, altre ricerche bibliografiche mi portarono al Museo della Liberazione di via Tasso dove in un incontro con l’attuale presidente, Prof. Parisella ed il suo staff, ebbi la conferma del ritrovamento effettuato solo nell’autunno 2005, di numerose matricole, circa 2500, del braccio tedesco di Regina Coeli. Il quadro delle fonti documentali era finalmente completo e si sono potuti effettuare i riscontri necessari. Va ricordato che il ‘trasporto’ di coloro i quali uscirono nella giornata del 4 gennaio 1944 da Regina Coeli era composto da persone semplici, antifascisti di tutto l’arco della resistenza al nazi-fascismo di quei mesi a Roma. Giovani renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana, soldati sbandati dopo l’8 settembre 1943 e reduci da vari fronti di guerra. Settanta, ottanta antifascisti noti all’ Ovra ed inseriti nel Casellario Politico Centrale. Un fondatore del Partito Comunista Italiano e due nipoti del Generale Badoglio. Dodici uomini di religione ebraica ed un maestro francese in fuga dalla sua nazione ed arrestato solo il giorno prima della deportazione.
Dei 257 uomini immatricolati, sopravvissero alla liberazione dei Campi ai quali furono destinati, solo una sessantina e non tutti riuscirono a ritornare in patria. Molti di loro morirono di fame e di stenti in una Europa gia’ libera dal nazifascismo dopo 17 mesi di sofferenze.
Ad oggi, oltre a ricostruire la dignita’ dei fatti, resta solo da stabilire cosa e’ accaduto ai 70 uomini prelevati da Regina Coeli, portati alla Stazione Tiburtina, e di cui non si conosce piu’ nulla perche’ mai immatricolati ne’ al KL Dachau e ne’ al KL Mauthausen. Alcune storie cominciano a delinearsi. Di certo vi furono alcuni uomini che fuggirono durante il tragitto, ma rimane il dubbio e l’incertezza di un’eliminazione immediata e senza immatricolazione nel Campo di Mauthausen, per quelle persone ritenute inabili al lavoro coatto. (http://www.deportati4gennaio1944.it)

31 dicembre 1944: 14 partigiani fucilati in Valsassina

Sabato 30 dicembre 1944, la prima compagnia del 1° btg. Mobile della brigata nera “Cesare Rodini” di Como, suddivisa in quattro squadre, blocca ogni di via di accesso al baitone della Pianca, edificio posto sulla costa di Baldes, che dal versante valsassinese guarda la Valtaleggio.
Le squadre hanno bloccato la risalita da Avolasio e Vedeseta in Valtaleggio, sono bloccati anche i sentieri con Morterone e la Culmine di San Pietro.
Nelle prime ore del mattino entrano nella baita sorprendendo 34 partigiani. La sorpresa è totale, non viene sparato un colpo, i partigiani vengono allineati all’esterno della costruzione e qui Franco Carrara, un partigiano di Alzano Lombardo tenta una fuga disperata. Davanti alla baita il pendio è ripido, possiamo immaginare che Franco si butti alla disperata, ma non va lontano. Viene subito rafficato, poi alcuni militi scendono e lo finiscono, il suo corpo viene lasciato nella neve.
Tutti gli altri partigiani vengono legati con del filo telefonico trovato in baita assieme ad altro materiale radio, ed in colonna portati a Introbio, in Valsassina.
A quell’epoca non c’era la strada che oggi collega Moggio (in Valsassina) con Vedeseta (in Valtaleggio), ma solo una mulattiera che dalla Culmine scendeva alla baite di Mezzacca e poi a Cassina Valsassina e Cremeno. Da qui si raggiungeva Barzio e poi Introbio. I partigiani catturati vengono fatti transitare nei paesi fino a raggiungere la Villa Ghirardelli a Introbio.
Qui vengono interrogati con le rituali violenze e, alla mattina della domenica 31 dicembre, vengono caricati su due camion che partono verso Lecco.
Per andare a Lecco, da Introbio, normalmente si sale al colle di Balisio, poi per Ballabio; mentre i camion, passato il paese di Pasturo, al ponte della Frolla lasciano la strada principale e salgono a Barzio, da dove si dirigono nei pressi del cimitero.
Vengono fatti scendere dieci partigiani assieme a Mina, Leopoldo Scalcini, probabilmente il più maltrattato negli interrogatori, mentre Francesco Magni, Francio, viene spedito a Lecco nelle mani dell’Ufficio Politico Investigativo
Gli undici partigiani sono immediatamente fucilati lungo il muro del cimitero, cosicché il sacerdote arriva quando il plotone di esecuzione ha già concluso la sua opera.
I camion ripartono e vanno verso Cremeno poi, passato il ponte della Vittoria, arrivano a Moggio (Frazione di Cremeno) dove il locale presidio fascista fa scendere tre partigiani (Silvio Perotto, Giuseppe Pennati e Mario Pallavicini).  I camion ripartono mentre i tre sono fatti sfilare tra le case della frazione e poi fucilati al cimitero.
Il convoglio prosegue poi per Como dove arrivano i restanti partigiani  che vengono in seguito tradotti a Milano presso il carcere di San Vittore.
Consultando i registri del carcere di San Vittore emerge che il giorno 9 gennaio 1945 entrano nel carcere dodici persone che possono essere fatte risalire ai partigiani catturati alla Pianca. Dai registri risulta anche che il 22 marzo 1945 cinque partigiani sono deportati verso la Germania mentre gli altri sette, dei quali non si indica la destinazione, vengono assolti.

Il volantino della commemorazione

Il dizionario del partigiano anonimo

porro banda tom“Un uomo ordinato. Il dizionario del Partigiano” di Angelo Del Boca (da “Storie della Resistenza”, Sellerio Editore)

In marzo iniziò lo sgelo e poco dopo cominciarono ad affiorare i corpi dei morti. Quasi ogni giorno c’era un contadino che scendeva al comando per segnalare un ritrovamento.
Erano i ragazzi morti negli scontri durante il ripiegamento invernale e che non avevamo fatto in tempo a seppellire; oppure quelli che si erano persi nella tormenta e che il freddo aveva ucciso. La montagna continuava a restituirne e fu necessario costituire una squadra che si occupasse di questa opera di pietà.
Gli oggetti che venivano trovati indosso ai morti finivano al comando, dentro buste o sacchetti: alla fine della guerra avremmo provveduto a spedirli alle famiglie.
In genere erano orologi, catenine d’oro con la medaglia del Cristo o della Vergine, anelli, amuleti, pipe, rasoi, coltelli a serramanico, qualche libro, molte fotografie di mamme e di ragazze.
Trovammo anche un diario, testi di canzoni partigiane, lettere mai spedite, testamenti. Erano documenti, questi, che eravamo costretti a leggere per cercare di identificare i morti. Ma lo facevamo con molta reticenza e con pena, perché spesso, fra le cose private della loro vita, affioravano considerazioni sulla nostralotta, e queste erano spesso ingenue, qualche volta sbagliate, a volte straordinariamente acute, e ciò ci obbligava mentalmente a dividere i morti in buoni e in meno buoni, in consapevoli e in opportunisti ed era proprio ciò che non avremmo voluto fare.
Il documento che più ci sorprese fu una sorta di dizionario, una cinquantina di voci scritte a matita su altrettanti piccoli fogli d’agenda. I fogli, per l’umidità, si erano incollati e se non fossero stati scritti a matita non si sarebbe salvato nulla. Pazientemente asciugammo foglio per foglio e alla fine cominciammo a leggere ciò che segue:

Alba – Quando spunta, può essere troppo tardi.
Alexander (Maresciallo) – Avrebbe voluto, all’inizio del secondo inverno, che fossimo spariti come talpe sottoterra. Non se l’abbia a male se gli abbiamo disobbedito: non c’erano buche a sufficienza.
Auto – Uno ci monta sopra e va finché ha fuso. La montagna è un cimitero di macchine.
Badoglio e Bonomi – Due personaggi, scialbi, che stanno al Sud, con gli americani.
Barba – Molti se la lasciano crescere, ma non sempre perché mancano di lamette. Chi la porta, automaticamente viene chiamato “Barba”. E poiché in un distaccamento sono in parecchi ad averla, uno si chiamerà “Barba I”, l’altro “Barba II”, e così via. Ad alcuni sta bene, gli fa una faccia decisa. Ad altri addolcisce gli occhi. Altri ancora, e sono i più ostinati a tenerla, fanno pensare alle capre.
Cani – Sono un vero guaio, di notte, durante le marce di trasferimento. Il primo a sentirvi dà la sveglia al vicino, e in pochi istanti la valle è tutta un abbaio. I cani dei tedeschi invece non abbaiano. Sono alti, snelli, col pelo corto. Ti inseguono per giornate, come se ti conoscessero, ti odiassero. Cani sono anche chiamati i tedeschi, per quanto si preferisca chiamarli maiali.
Cartucce – Ce ne sono poche e non bisogna sprecarle. In media, un uomo ne porta con sé 40-50, se possiede un fucile, e 120-150, se è dotato di un mitra. Quelli che ne fanno incetta, c’è da giurare che non spareranno mai un colpo.
Casa – Meglio non pensarci. Col tempo, non è poi tanto difficile.
Castagne – Dapprincipio ci sembrava impossibile, poi ci convincemmo: si può vivere soltanto di castagne. Castagne secche per ingannare l’appetito. Castagne bollite per riempire la gola. Castagnaccio per addormentare lo stomaco. Brodo di castagne per riscaldarlo.
Città – Ci stanno “gli altri”. L’hanno fortificata, seminata di cavalli di frisia, tappezzata di proclami e di manifesti insensati. Qualcuno dei nostri c’è entrato, di notte, e gli è parso di essere finito in un labirinto, in una trappola. Eppure buona parte delle persone che l’abitano è con noi.
Comandante – Lo si diventa per meriti, non per titoli di studio. Conosco un mungitore che ha ai suoi ordini un colonnello di Stato Maggiore. Di solito si affermano quando scoprono per la guerriglia un’autentica vocazione. Fanno sempre di testa loro, e raramente sbagliano. Quando sbagliano pagano di persona.
Commissario – È quello che sa tutto, anche se non possiamo sempre giurare che sia il depositario  della verità. Quelli che hanno dubbi vanno da lui. E lui che ci ha detto chi sono Matteotti e  Gramsci i fratelli Rosselli, e perché sono morti.  Perché il fascismo è condannato. Perché noi siamo nel giusto. Perché dobbiamo combatterei.
Comunisti – Sono i più numerosi, e sono inquadrati, nelle Brigate “Garibaldi”.  Gelosi delle loro zone, pretendono il rispetto dei confini e non rispondono agli appelli di aiuto, se non ne intravedono un tornaconto.
Quando ci riescono, disarmano altri reparti con il pretesto che questi non sanno battersi. A volte sono nella ragione, a volte nel torto. Politicamente i loro quadri sono i più preparati. Gli uomini si battono bene e non lo nascondono: domani, finita la guerra, continueranno a battersi per sconvolgere la vecchia struttura dello Stato prefascista e per mutare radicalmente la nostra società. Magari con una rivoluzione.
Divisa  – Non ne esiste una di rigore, perciò sono tutte buone. La più corrente tuttavia è quella composta da un giubbotto, calzoni da sciatore e un berretto a visiera, come quello degli alpini tedeschi; forse perché si è rivelata la più pratica. Ma la fantasia e la vanità suggeriscono le divise più stravaganti. C’è un tizio – appare sempre a cavallo – che indossa un lungo mantello di pelle rossa foderato all’interno di pelliccia bianca; sotto ha un abito attillatissimo. Quelli che portano un fazzoletto rosso attorno al capo, alla pirata, sono migliaia. Altri portano cappelli da cow-boy, passamontagna, caschi coloniali, colbacchi, bustine, baschi,fez. Alcuni indossano la divisa della Wehrmacht, elmettoe croci di ferro comprese, e debbono farsi riconoscereper non essere presi a fucilate.
Domani – Si spera sempre che sia migliore. Che non ci siano da fare cinquanta chilometri per spostarsi da una valle all’altra. Che i tedeschi non sguinzaglino i loro cani. Che il freddo non sia troppo rigido. Che non manchi da mangiare. Che gli aerei degli alleati non ci scambino per gli “altri” (come è già avvenuto). Che non ci capiti di pensare a casa. Che sia finalmente l’ultimo giorno di questa storia.
Fossi – Non avremmo mai sospettato, qualche anno fa, che avremmo trascorso parte della nostra giornata nei fossi. Ci si nasconde prima di attaccare i convogli che transitano sulle strade; si balza dall’uno all’altro mentre ci si ritira in pianura; in mancanza di almi ripari, lo si sceglie per passarci la notte. Nelle ore di attesa si fa conoscenza coi topi, le serpi e ogni sorta di vermi; si scoprono fiori e arbusti che non si sapeva che esistessero; ci si avvede che la natura continua a fiorire, nonostante l’odio che ci circonda. Poi, per fortuna, si torna in montagna, dove viviamo nel cielo. Soltanto ora possiamo capire (e compiangere) i nostri padri che hanno fatto tutta loro guerra nelle trincee.
Fucile – Tutti preferiscono il mitra al fucile. Poi, però, finiscono per portare l’uno e l’altro. Un buon fucile colpisce a cinquecento metri, il mitra è inutile a cento. Quelli che abbiamo sono molto vecchi; l’Enfield inglese ha fatto la guera contro i boeri; il nostro ’91 ha sparato ad Adua e a Tripoli. Il più moderno è il Mauser, ma ne possediamo pochi.
Fuga – La nostra non è una guerra classica, non è una guerra di posizione e neppure di prestigio. Perciò la fuga vi è ammessa, ne è anzi la prima regola. Se si vuole, la nostra è una continua fuga, ma nello stesso tempo è un continuo attacco. La fuga perciò si spoglia del suo significato vile. Spesso la fuga  più immediata permette di aggirare l’attaccante e di colpirlo alle spalle mentre crede ancora di tendere un agguato. Perciò non la chiamiamo fuga questa manovre, né ritirata, ma sganciamento o ripiegamento. Il comandante rotto alla guerriglia lo si riconosce nell’attimo in cui deve decidere se accettare il combattimento o ordinare lo sganciamento. In pochi attimi egli deve valutare un’infinità di cose. Queste nuove regole, ovviamente non piacciono ai militari di carriera. Un colonnello suggeriva qualche tempo fa di costruire su alcune colline bunker e camminamenti. Gli hanno riso in faccia.
Grano (campo di) – Non è altrettanto sicuro, per starvi nascosti, del campo di granturco, ma c’è stato un giorno, indimenticabile, in cui ci siamo rivoltati sulla schiena e abbiamo  osservato le spighe, i fiordalisi, i papaveri che tremavano alla brezza estiva e ci siamo accorti che continuavamo a vivere. Di rimando, che spettacolo triste il tappeto di cenere che ne resta dopo un incendio!
Graziani (Maresciello) – Un uomo che sta al Nord, coi tedeschi e del quale si racconta  che abbia perso i coglioni in Libia. Così impara a  molestare gli arabi!
Inglesi – Da un anno aspettiamo che sferrino l’offensiva, ma non si decidono mai. A differenza degli americani, lanciano armi vecchissime e nessun genere di conforto. Gli inglesi che sono stati paracadutati nelle nostre zone sono però uomini di coraggio, anche se molto diversi da noi. Essi ci rimproverano soprattutto la passionalità e il dilettantismo. Coi loro “Commandos”, sostengono, possono compiere le stesse azioni spericolate delle nostre “volanti”, ma essi calcolano il rischio, noi no.
Lanci – Avvengono quasi sempre di notte, nel punto concordato per radio con gli Alleati e che viene delimitato da grandi falò. Dopo ogni lancio, si portano in giro le armi piovute dal cielo come abiti nuovi, mentre con la seta dei paracadute si confezionano camicie e fazzoletti dai colori più vistosi. Il più grande lancio l’abbiamo avuto la notte dell’Epifania, ma era troppo tardi, eravamo in rotta e circondati da tutte le parti. Con le lacrime agli occhi abbiamo scavato fosse per nascondere le armi che ormai non ci servivano più.
Letto – La stessa cosa che per le donne; se ne parlamolto: «quando tutto sarà finito mi metto a letto e ci resto per un anno», ma poi non si muore a stare senza. L’importante è trovare il tempo e la calma per buttarsi giù; il posto sufficiente per allungare le gambe; e sopra un tetto che non faccia acqua . Nelle foglie si dorme bene., ma al mattino ci si ritrova sudati e fiacchi; la paglia, dal canto suo, non tiene caldo; è sempre preferibile il fieno. Qualcuno è riuscito ad andare a letto con una donna, questa estate: ma, se ne parla, è per rimpiangere il letto più che la donna.
Matteotti – Uno che è morto mentre noi aprivamo gli occhi sul mondo. Se ne dice un gran bene. Nelle foto che abbiamo visto ha gli occhi dei santi- I più anziani fra noi spesso dicono: «Ai tempi di Marreotti», «l’affare Matteotti». Quante poche cose sappiamo intorno a quel periodo, ma ci resta poco tempo per far domande, per discutere, e poi – ora  che abbiamo aperto gli occhi sugli errori e i crimini del fascismo – diffidiamo un poco di tutte le altre dottrine- Adesso eliminiamo il fascismo, diciamo, poi si vedrà.
Mitra – Abbreviazione di pistola-mitragliatrice. È  una delle parole che identificherà la nostra epoca e la nostra guerriglia in particolare. La più grande ambizionedi una recluta è di buttare via il fucile per un mitra. Ce ne sono di vari tipi, ma il più pratico è lo Sten. Il Beretta è forse più preciso, ma è molto delicato. Quanto al Thompson, è troppo pesante, poi è raro. Serve ai comandanti (come il parabellum russo) quale segno di distinzione. Ha il calibro dodici e un fuoco preciso fino a 4-500 metri. Lo Sten, d contrario, è efficace dentro un raggio di 50-80 metri. E fatto per il corpo a corpo, per l’imboscata- A guardarlo è un catenaccio. Ma non si inceppa mai, anche dopo averlo tenuto sottoterra o nell’acqua. Dicono costi in America meno di un dollaro. Avere un mitra fra le mani non ci si sente più soli; è come se, a sparare, si fosse in dieci. E in fondo è così.
Mongoli – Così la gente chiama i russi che combattono a fianco dei tedeschi, anche se poi non sono affatto mongoli, ma sono soldati sovietici originari dell’Ucraina, del Caucaso, dell’Armenia, del Turkestan.
Forse il primo ad indicarli con questo nome non è stato tanto colpito dai tratti del loro viso, quanto dalla crudeltà delle loro azioni. Più che soldati, infatti, sono predatori, ladri, stupratori, proprio come si dice siano stati i mongoli di Gengis Khan. La loro sorte, d’altronde, è già decisa: essi cadranno sotto i nostri colpi o sotto quelli dei tedeschi, se tenteranno di fuggire, oppure sotto quelli dei russi, se vivranno tanto da tornare in patria. La loro violenza senza limiti è fatta anche dalla consapevolezza di avere i giorni contati.
Montagna – Prima l’identificavamo con l’estate e la villeggiatura, l’inverno e i campi di sci. Era quasi un giocattolo, come il mare. Poi, un giorno, è diventata una scelta. Ed ora è la nostra casa, il nostro letto, il nostro precario rifugio; qualche volta la nostra prigione, la nostra tomba. Altre volte, la più dolce e imprevedibile delle evasioni. Molti giurano che quando tutto sarà finito torneranno per viverci: perché qui hanno ammirato spettacoli e vissuto istanti intraducibili in parole.
Morte – Non se ne parla mai, ma è sempre con noi. Ciascuno si è immaginato la propria, lavorandovi intorno fin dal giorno in cui ha scelto questa parte della barricata. E indispensabile possedere una morte, così come è indispensabile possedere un fucile, un paio di buone scarpe e qualche idea chiara in testa. Sarebbe una sorpresa troppo spiacevole trovarsela dinanzi, all’improvviso, senza essere preparati a riceverla. In ogni caso la si preferisce alle torture e la si augura improvvisa.
Molti portano alla cintura una Sipe (bomba a mano N.d.R.)  per essere certi di poter sfuggire alla prigionia. Ogni mattina riattaccandola alla cintura, uno pensa al ferro che gli dilanierà il ventre, e si abitua a questa fine. A poco a poco, tutti si abituano alla propria morte.
Mussolini – Non se parla che raramente. Lui non viene a sparare perciò non conta. È troppo lontano quasi astratto, perché si possa provare il desiderio di ucciderlo. A parlarne di continuo invece sono i più anziani, quelli che  per un senso o per l’altro, hanno conti aperti con lui. Perché alcuni  lo hanno conosciuto di persona, ed uno gli è stato anche amico quando Mussolini diceva di essere socialista. Essi sono gli unici a figurarsi le possibili morti di Mussolini e se ne hanno a male se noi avanziamo l’ipotesi che egli sfuggirà al castigo e che sarà trasferito in America dentro una gabbia di vetro, come un animale raro. Ai giovani, la sorte di Mussolini non interessa più di quella di Farinacci o di Graziani. Per essi, è come se fosse già morto. Il loro problema è quello di buttar fuori i tedeschi e i loro servitori, e di ripulire il Paese.
Neve – Com’è diversa da quella della nostra infanzia. Nessuno, allora, fabbricando palle di neve, avrebbe sospettato che può portare alla disperazione. Mentre scrivo siamo bloccati in cinque dentro una carbonaia: fuori c’è un metro e mezzo di neve, le piste sono sparite e il più vicino villaggio è a una decina di chilometri. Da due giorni non tocchiamo cibo. Domani dovremo deciderci ad uscire, anche se non avrà cessato di nevicare.
Nome di battaglia – Serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere. Esso rivela infatti le nostre ambizioni, o le nostre letture,oppure i limiti della nostra fantasia.
Notte – Ci sono notti brevissime e notti eterne. Quelle passate nei fossi della via Emilia, in attesa di una colonna, con le mani saldate allo Sten non finiscono mai. Le rare in cui puoi dormire durano un amen. «Una notte… ». Ciascuno di noi conserva il ricordo di una notte terribile.
Paga – Una volta, e fu l’ultima, al principio della estate, distribuirono trecento lire a ciascuno di noi. «Chi li manda questi soldi?» uno domandò. Il furiere rispose: «Non so, credo gli americani». Quegli allora ribatté: «Non siamo al servizio degli americani», e restituì i soldi. Alcuni lo imitarono.
Partigiani – Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trotzkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l’uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione.
Paura – Chi dice di non averne è un bugiardo. Nessuno di noi può giurare che sarà vivo domani. O anche stasera.
Pianura – Ci andiamo spesso, ma come ladri, di notte. E ormai, abituati come siamo a vedere le cose dall’alto dei monti, abbiamo paura del suo orizzonte limitato e piatto- Un giorno l’attraverseremo con la luce del sole e sarà l’ultimo giorno di guerra.
Pippo – Con questo nome indichiamo l’aereo che vaga tutte le notti e lancia bombe a casaccio, su noi e sugli altri. Il suo non sembra un rumore di motori, ma l’ansito di un mostruoso animale. E fin che il battito delle sue ali non si si affievolisce tratteniamo il respiro.
Politica – I giovani non amano e non sanno farne. I più anziani la preferiscono alle azioni di guerra.
Ponti – In qualche valle non ne è rimasto uno. Li abbiamo fatti saltare tutti: quegli antichi in mattoni, quelli in pietra, quelli in ferro, quelli in cemento armato. Ma a che è servito? I tedeschi gettano un ponte in dieci ore. Quella che avremmo dovuto far saltare è la kommandantur.
Prete – Quello che sta con noi è l’umile e povero parroco di campagna. Gli alti prelati, in città, benedicono i gagliardetti delle “Brigate Nere”.
Raffica – Una parola, come mitra, in cui si concentrano l’odio e la violenza. Una parola di questa guerra. La raffica, per eccellenza, è del mitra ed è breve, esce dalla canna corta senza strappi e qualche volta l’uomo che spara riesce a vedere negli occhi l’altro che insacca i colpi.
Rappresaglia – Un’invenzione degli “altri” che qualche volta siamo costretti ad adottare. Il mongolo Elia, sfuggito ai tedeschi e da noi graziato, ci suggerisce: «Se volete spaventare i tedeschi, decapitate i prigionieri e andate portate le loro teste davanti alle caserme della città » E ride quando nota il nostro imbarazzo, «Voiitaliani  – soggiunge, – siete capaci di uccidere soltantoper gelosia».
Repubblica – Una parola che può significare la parte avversa. Esempio: «Arriva la repubblica». Oppure una straordinaria confusione: «Che repubblica!». Chissà quanti anni occorreranno, da noi, perché riacquisti il suo vero significato.
Repubblichini – Se ne stanno in città, preferibilmente al sicuro, con le scarpe lustre, il ciuffo fuori del berretto. Quando vengono in rastrellamento, si fanno precedere dai tedeschi. Quando le buscano, i tedeschi li tolgono dai guai. Ci sono vari tipi di repubblichini. I vecchi fascisti delle squadracce. Quelli che si ritengono disonorati dall’armistizio. I filotedeschi. Quelli che spasimano per le cause perse. Quelli che vanno sempre controcorrente. Quelli che desiderano semplicemente un’arma per sparare (ce ne sono molti anche dalla nostra parte). Quelli che sperano di arricchire. Quelli che hanno risposto ai bandi e che ora non trovano il coraggio di scappare . I razzisti. Gli spavaldi. Gli isterici. Gli stupidi. Quelli della “Muti” e delle “Brigate Nere” sono i più arrabbiati (e anche i più vigliacchi); quelli della “Decima” credono di appartenere ad un corpo scelto e amano dare spettacolo (aiutati dalle loro divise da operetta); agli alpini della “Monterosa” e ai bersaglieri dell’”Italia” hanno insegnato a combattere in Germania, in modo perfetto, ma la loro idea fissa è quella di scappare. Chi li ha battezzati “repubblichini” meriterebbe una statua.
Non c’è espressione, infatti, che meglio dipinga la loro pochezza  e viltà e goffaggine
Scarpe – E il nostro dramma; si consumano in un amen. Chiediamo scusai ai morti se li spogliamo ma noi dobbiamo continuare a camminare e loro hanno finito.
Silenzio – C’è il silenzio della notte, che fa pensare all’inganno. C’è il silenzio dell’alba, che intristisce. Ma il più crudele è il silenzio che precede la raffica nell’imboscata.
Sipe – Quando scoppia, lancia intorno ottantaquattro schegge tutte uguali ottantaquattro cubetti di ghisa. Un maggiore della missione inglese, per non cadere prigioniero, si è buttato sopra una Sipe dopo aver tolto la sicurezza. Quasi tutti, adesso, appesa alla cinghia portano una Sipe.
Spia –  Nel Paese in cui viviamo, diviso dalla guerra civile, tutti lo possono essere. Un tale che veniva da noi a mendicare pane, ha venduto per duecento lire la vita di quindici nostri compagni. Per questo siamo spietati con le spie, anche a rischio di cadere in errori.
Tedeschi – Adesso, noi che ce li siamo trovati di fronte più volte, sappiamo che non sono invincibili.  Ma le reclute si lasciano ancora impressionare da quella corta giacchetta, dalla forma dell’elmo, dagli stivaletti, dal modo di correre all’assalto. È consigliabile catturarne alcuni e tenerli all’accampamento, impiegandoli nei lavori più umili. Le reclute finiscono così per accorgersi che sono esseri umani, coraggiosi e vili come gli uomini di tutto il mondo.
Vittorio Emanuele – Era piccolo col fascismo. Senza fascismo non è cresciuto di un pollice.
Volante – Non si sa chi abbia dato questo nome al piccolo gruppo di uomini che, agendo di sorpresa, attacca gli automezzi sulle grandi vie di comunicazione, fa saltare depositi e binari e, se occorre per uno scambio di prigionieri, preleva anche un generale tedesco dal suo stesso ufficio. Non è improbabile che a coniare questo termine sia stato uno che ha partecipato alla guerra di Spagna. È impressionante il bagaglio di esperienze, di nomi, di immagini, di tradizioni che ci viene da quella sfortunata guerra per la libertà.

Con questa voce terminava il dizionario, scritto con la stessa calligrafia rotonda, educata; si sarebbe detto di un insegnante elementare. Lo esaminammo in tutti gli angoli, ma non portava firma. Mancavano anche, nel testo, riferimenti personali che potessero aiutarci ad identificarne l’autore. L’unico era contenuto nella voce “Never”, che faceva cenno, in termini asciutti ma sufficientemente drammatici, alla sosta forzata nella carbonaia. Ma era un’indicazione troppo vaga. Fra il dicembre e il febbraio a moltissimi era accaduto di rimanere bloccati dalla neve per uno o più giorni; e c’erano parecchie centinaia di carbonaie scavate nella montagna.
Constatammo, oltretutto, che questo riferimento doveva essere considerato come un’indicazione involontaria, con ogni probabilità l’effetto di un momentaneo turbamento. Soltanto nell’avvertire che si stava avvicinando la fine l’anonimo partigiano si era abbandonato a narrare i prima persona. Ma a questa debolezza aveva subito rimediato con un gesto che può essere soltanto suggerito dalla serenità e da una certa abitudine all’ordine. Trovammo infatti il foglietto con la voce “Neve” rimesso diligentemente al suo posto, fra la voce “Mussolini” e quella che riguarda la “Notte”.

Giornata della memoria: 11 dicembre 2013

Giovanni Garbin, Severino Spolaor, Bruno Garbin, Cesare Spolaor, Giulio Vescovo, Cesare Chinellato

Si ripeterà anche quest’anno il percorso commemorativo che le classi terze delle scuole medie“L. Da Vinci” e “G. Mazzini” seguiranno in piazza Martiri a Mirano nella mattina di mercoledì 11 dicembre 2013, a partire dalle ore 8.30, per la “Giornata della Memoria e dei Martiri della città di Mirano”.
Ai trecento alunni di 11 classi delle medie quest’anno si uniranno gli studenti del liceo “Majorana – Corner” per ricordare i tragici eventi accaduti nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 1944, quando sei giovani partigiani del gruppo di Luneo vennero catturati in conseguenza della delazione di una spia e, dopo un sommario interrogatorio, furono seviziati e trucidati dalla barbarie fascista. Si chiamavano Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor, Giulio Vescovo.
Gli alunni delle medie percorreranno i sei luoghi della tortura e della fucilazione in piazza Martiri (casa del Fascio – caserma della Finanza, via Barche, farmacia Sansoni, via Castellantico, Municipio, ovale) e sosteranno nei diversi punti e in ognuno ascolteranno una testimonianza portata da testimoni diretti, che hanno vissuto quell’eccidio o da persone che hanno approfondito questo episodio. I testimoni saranno affiancati dagli studenti dei licei.
Si riuniranno poi al centro della piazza, vicino al monumento al Partigiano, per la commemorazione ufficiale cui interverranno la Sindaca Maria Rosa Pavanello e la Presidente del Consiglio comunale Renata Cibin.
L’iniziativa è promossa dagli istituti comprensivi di Mirano e dal liceo “Majorana – Corner” in collaborazione con il Comune, l’ANPI del Miranese, l’AUSER quale momento di approfondimento della storia miranese e dell’episodio storico dal quale deriva il nome della piazza. Una piazza vissuta di solito diversamente, come luogo di svago, che diviene luogo di riflessione per conoscere le vicende di giovani concittadini che un tempo hanno dato la loro vita per ideali di libertà.
La Giornata della memoria è stata istituita dal Consiglio Comunale nel 2003 e celebrata l’11 dicembre di ogni anno perché la più violenta rappresaglia che ha coinvolto il paese si era svolta in piazza Martiri l’11 dicembre 1944. Questa giornata è dedicata comunque a tutte le vittime del nazifascismo che caddero a Mirano nell’inverno 1944/45, a partire da Oreste Licori che fu fucilato l’1 novembre 1944 fino alla fucilazione il 17 gennaio 1945 di Luigi Bassi, Ivone Boschin, Dario Camilot, Michele Cosmai, Primo Garbin, Aldo Vescovo, Gianmatteo Zamatteo e alla morte in combattimento il 27 aprile 1945 di Luigi Tomaello e Mario Marcato e alla deportazione in Germania, da cui non fecero più ritorno, nel febbraio 1944 di Nella Grassini Errera e Paolo Errera.

In questa occasione verrà intitolata la sezione Anpi come “Martiri di Mirano”, questa la motivazione:

Il  Presidente Franceso  De Gasperi, il  Vice Presidente Renzo Tonolo, il Segretario Bruno Tonolo e i membri del Consiglio  Direttivo della sez. ANPI di Mirano, all’unanimità approvano l’intitolazione della sezione ANPI ai “MARTIRI di MIRANO”.
Pertanto, da oggi 11.12.2013, giorno della memoria dei sei giovani martiri barbaramente torturati dalle brigate nere ed esposti in Piazza e qui lasciati morire a monito per le genti di  questi territori,  la sezione sarà  denominata:  Sezione ANPI “Martiri di Mirano”.
Con questo atto solenne si intende dare imperitura memoria ai Partigiani di Mirano e del miranese, ai soldati che dissero no alla R.S.I. morti nei campi di concentramento, agli ebrei, zingari, omosessuali, deportati e sterminati, a quanti, nel silenzio dell’anonimato, vissero quelle tragiche giornate a fianco dei combattenti fornendo loro aiuto e protezione.
Di tutti i Martiri, uniti nel dono della loro vita per la Libertà e la Democrazia, oggi, con il ricordo, vogliamo assumere l’impegno come ex partigiani e antifascisti, nella quotidiana azione politica e nella testimonianza personale.

All’Università di Padova rivive il discorso di Concetto Marchesi

Concetto Marchesi pronuncia il suo discorso

Quando Concetto Marchesi morì, nel 1957, e il parlamento italiano si fermò per commemorarlo, tutti gli intervenuti, da Togliatti a Bettiol, centrarono il loro intervento su due episodi: straordinari, pur all’interno di una vita straordinaria. Domani questi due episodi rivivranno concretamente, a set­tanta anni di distanza, negli stessi luoghi in cui si svolsero. Tutto comincia il 9 novembre del 1943 e finisce il 5 dicembre dello stesso anno. Padova è appena entrata a far parte della Repubblica di Salò. Concetto Marchesi, grande latinista, è il nuovo rettore dell’Università, nominato da Badoglio e lasciato in carica dal nuovo governo mussoliniano. È l’inaugurazione dell’anno accademico, Marchesi tiene un discorso che, pur non esplicitamente, suona all’orecchio di chi ascolta come un alto richiamo a valori di libertà, di giustizia che sono contrapposti a quelli dello stato nazifascista.
Marchesi parla dopo aver fatto cacciare dall’aula studenti in divisa della milizia fascista e parla davanti al nuovo ministro dell’Educazione Nazionale nominato da Mussolini, Carlo Alberto Biggini. Un caso unico, una sfida intollerabile per fascisti come Alessandro Pavolini, che ne vuole a tutti i costi la testa, non solo metaforicamente. Ma mentre il fascismo prende le sue decisioni Marchesi rimane al suo posto, quasi per un mese, anche contro l’opinione del Partito Comunista di cui era membro, perché vuole difendere gli studenti e i professori dell’Università. Il 1 dicembre però le cose precipitano, Marchesi è costretto alla clandestinità, ma fa ancora in tempo a lanciare un appello agli studenti, che viene distribuito di mano in mano il 5 dicembre: “Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria…, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia”. È la prima esplicita chiamata alle armi per la Resi­stenza italiana. Per i settantanni di questi avvenimenti, l’Università di Padova ha pensato a qualcosa di nuovo e di diverso. Non la commemorazione, non il ricordo, ma la riproposta teatralizzata di quegli eventi. Alle 10.30 di giovedì 5 dicembre, nell’Aula Magna del Bo rivivranno il discorso inaugurale del 9 novembre e l’appello agli studenti, riproposti non da attori ma da professori dell’Università patavina. A chiudere un intervento di Carlo Fumian – docente di Storia Contemporanea – e del Rettore attuale, Giuseppe Zaccaria. «Non volevamo», racconta Carlo Fumian, «proporre agli studenti i soliti interventi sulla figura di Marchesi. Abbiamo pensato che fosse giusto porre l’accento su quello che stava avvenendo in quei giorni. Sulle decisioni irrevocabili che gli studenti erano costretti a prendere . Oggi può sembrarci facile, ma in quei giorni del ’43 chi sceglieva non sapeva cosa sarebbe successo, non poteva prevedere come sarebbe finita. L’appello di Marchesi è ancora oggi un testo emozionante, di una grande forza, che è giusto far ascoltare ai giovani».
Non per nulla Togliatti sottolineava – nel ricordo – la voce di Marchesi “che dava alle parole una potenza nuova e incideva negli animi”, una voce “precisa, dura, spietata perfino”. Una voce che apre una guerra. «È un caso unico», dice Fumian, «in nessun altro posto l’Università si è posta alla guida della lotta contro il nazismo e il fascismo. Lo raccontiamo attraverso le testimonianze di Bruno Trentin e Maria Carazzolo, che erano nell’Aula Magna il 9 novembre e poi aderirono all’appello. Trentin aveva diciassette anni e teneva un diario. Dopo aver ascoltato Marchesi scrive due sole ultime righe: tempo scaduto. Adesso all’opra».
Bruno Trentin, poi grande sindacalista, non fu l’unico a raccogliere l’appello. Furono molti ad ascoltare Marchesi che li invitava a prendere le armi per aggiungere “al labaro della vostra Università la gloria di una nuova e più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace  del mondo”. (di Nicolò Menniti-Ippolito da “La Nuova Venezia” del 4-12-13)

I particolari della giornata del 5 dicembre all’Università di Padova: http://unipd-centrodirittiumani.it

Il discorso di Concetto Marchesi (e una sua biografia):

3 dicembre 1944: strage di Vo’

Willy Lembcke (al centro)

Finché avvengono cerimonie come quella di stamattina a Vo’, i conti con la seconda guerra mondiale non saranno mai chiusi. Ma i paesi che (come Vo’, suppongo) pensano che prima o poi avranno giustizia, devono rassegnarsi: giustizia non c’è stata e non ci sarà mai. L’Europa Unita non nasce sull’espiazione delle colpe, ma sul loro oblio. Oggi a Vo’ si ricorda l’ultima strage commessa dai tedeschi prima della ritirata, l’impiccagione di tre abitanti del luogo. Da quel che scrive Claudio Ghiotto, le impiccagioni erano la rappresaglia per il ferimento di un soldato tedesco. Ma il soldato tedesco si era ferito da solo, sparandosi a un piede per non andare al fronte. I Superuomini ariani avevano capito che i Sottouomini russi stavano vincendo e sarebbero arrivati a Berlino. Era la fine. Il presentimento della fine produce nell’uomo uno di questi due effetti: o aumenta la paura e lo rabbonisce, o aumenta la furia e lo imbestialisce. I tedeschi erano imbestialiti. Uno storico di Este ha studiato queste vicende, Francesco Selmin: è partito con l’ipotesi che le vittime di questa guarnigione tedesca fossero una trentina, e ha concluso che furono un centinaio e mezzo. I condannati all’impiccagione venivano appesi a un albero, o alla spalletta di un ponte. Oppure venivano impiccati con la tecnica dello strappo: in piedi su un camion, col laccio al collo, il camion avanzava, un tedesco lanciava la corda ad avvinghiarsi a un ramo, e l’uomo era morto. Qui a Vo’ usarono ambedue i metodi. Che utilità politica o militare aveva questa crudeltà? Nessuna. Il comandante tedesco era un capitano, si chiamava Willy Lembcke, uomo di una stupidità totale. Mirava alla carriera. Era della Wehrmacht, ma quando ottenne da Berlino il compito di svolgere servizi di polizia, come se fosse delle SS, gongolò. Aveva piantato la sede del comando a Este, nel Collegio Vescovile, e riservava alcune stanze del palazzo alle torture. Conosco abitanti di Este, Montagnana, Castelbaldo, Merlara, Urbana e dintorni a cui ha fatto cavare le unghie, o li ha folgorati con le scosse elettriche. Un quarto di secolo fa è tornato a Este un suo soldato, a dire: «Io ero buono, vi avvisavo quando partivano le retate, sono vostro amico». L’incontro si svolgeva nel Collegio Vescovile, e uno degli ascoltatori si alzò in piedi: «Voi mi avete cavato le unghie, nella stanza di là». Io avevo scritto un articolo, proprio quel giorno, su questo giornale, rievocando le vicende. E il tedesco mi puntò contro il dito: «Questo scrittore senza onore non sa che Hitler diceva: o morite colpiti al petto dal nemico, o morite colpiti alla schiena da me come traditori». No, io sapevo benissimo queste cose, ma se hai fatto quel che hai fatto, stai nascosto in Germania, non venire nel Veneto per essere festeggiato. Poco dopo questa feroce e stupida strage di Vo’, i tedeschi scapparono. Nel mio primo romanzo, “Il quinto stato”, racconto quelle vicende, mitizzandole come meritano. Il libro vien tradotto anche in Germania (“Der fünfte Stand”), insieme con i primi capitoli del secondo, “La vita . eterna” (“Das ewige Leben”). Nei libri, al comandante tedesco mantengo il suo nome vero, Lembcke. Era ancora vivo. Un pool di magistrati tedeschi aveva delle prove dei suoi crimini, allegano anche i due romanzi, e cominciano il processo. Il comandante è nel suo salotto, con la pila delle prove su un tavolo, ha un infarto, lo portano in clinica, e muore. Potenza della scrittura? Gli ho spaccato il cuore? Al quotidiano francese “Libération” confessavo di sentire il mio primo libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della mia gente». Patetica illusione. La letteratura non ha alcun potere. Anni dopo, una docente dell’università di Potsdam adotta come testo per le sue lezioni “Das ewige Leben”, i suoi studenti leggono le stragi sui Colli Euganei, e vogliono saperne di più, girano per le biblioteche dell’esercito e dei tribunali, ma non trovano niente. Perché, mi spiega la docente Isabella Von Tretskow (von Tretskow era il nome di un generale congiurato contro Hitler e perciò impiccato, Isabella è una sua nipote? Continua la guerra contro il Führer, usando gli impiccati del Veneto Euganeo?), una legge tedesca stabilisce che se un cittadino tedesco è accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima della condanna, ha diritto che tutte le prove vengano distrutte. Amici di Vo’, non avrete mai giustizia per i crimini che avete patito. Perché in Germania non ne esiste traccia. Tra le altre fregature, l’Europa ci infligge anche questa. E non è la più piccola. (Ferdinando Camon da “La Nuova Venezia” del 4-12-12)

Una ricerca di Claudio Ghiotto sulla strage di Vo’