Giuseppe Crestani, nato a Duisburg nel 1907 da genitori italiani e residente fin da giovane in provincia di Vicenza, nel 1936 era emigrato in Francia e da qui aveva raggiunto la Spagna per combattere il fascismo durante la guerra civile. Inquadrato nella Brigata Garibaldi, aveva ottenuto il grado di tenente dopo aver frequentato la scuola ufficiali di Pozo Rubio. Ferito sul fronte dell’Ebro, in seguito internato nei campi francesi e confinato a Ventotene; nell’autunno del 1943 era stato tra i primi organizzatori della Resistenza sulle montagne vicentine. Ma era stato ucciso il 30 dicembre 1943, assieme ad altri tre compagni, alla Malga Silvagno, in comune di Fontanelle di Conco, sull’Altopiano di Asiago. Una storia purtroppo comune ad altri reduci della guerra civile in quegli anni, sfuggiti alla morte in Spagna per trovarla poi in Italia combattendo nelle formazioni partigiane. Ma in questo caso vi è un elemento in più che rende questa vicenda tragica ed assurda: Crestani assieme a tre compagni è stato ucciso per motivi ideologici dai componenti di una banda partigiana cattolica assieme ai quali egli cercava di organizzare una lotta comune contro nazismo e fascismo. Le “colpe” dei quattro erano di aver imposto un’accelerazione sul piano militare, con azioni che rendevano difficili gli ambigui contatti tra forze partigiane moderate ed ambienti fascisti che miravano ad una transizione indolore, ed una disciplina che tenesse conto delle basilari necessità della guerriglia. In più, erano comunisti. Particolare inquietante, ad alcuni di essi era stato chiesto se fossero o meno cattolici; al loro diniego era partito il colpo mortale. Il gruppo partigiano dopo il fatto si era ricostituito, ma era stato sorpreso meno di tre settimane dopo dai tedeschi ed alcuni dei responsabili di quelle morti erano stati fucilati. In loro memoria annualmente le associazioni partigiane tengono una cerimonia, ma nessuno ricorda i “rossi” ammazzati dal loro gruppo in precedenza. Giova pertanto qui ricordare i nomi di questi dimenticati: assieme a Crestani erano stati uccisi il friulano Ferruccio Roiatti, già condannato nel 1934 a otto anni di carcere dal Tribunale Speciale per attività comunista. Inoltre Tomaso Pontarollo, lavoratore veneto emigrante che aveva trascorso diversi anni in Algeria prima di venire arrestato in Istria nel 1936 per lo stesso motivo di Roiatti e di passare quasi sette anni tra confino e campo di internamento, ed infine un certo “Zorzi” o “Maschio”, la cui identità è destinata a rimanere ignota.
I particolari di queste morti sono stati a lungo e con grande tenacia nascosti dagli ambienti anticomunisti e cattolici della provincia di Vicenza, dominata per molti anni politicamente dalla Democrazia Cristiana. La storia diffusa dai canali ufficiali non era quella reale, e sui quattro “rossi” uccisi era calata una spessa coltre di silenzio, una sorta di damnatio memoriae. Ora invece questa storia non ufficiale è stata documentata, con grande abbondanza di particolari, da Ugo de Grandis, in questo libro, arricchito anche da molte immagini dell’epoca che ritraggono sia i protagonisti che alcune delle vicende raccontate. Scrivendo, De Grandis ha tenuto presenti le tante strumentalizzazioni mediatiche contro la Resistenza garibaldina e comunista realizzate ponendo a pretesto i fatti di Porzûs (o meglio delle malghe Topli Uork, dove un battaglione di gappisti friulani aveva arrestato e poi ucciso in momenti diversi nel febbraio 1945 i componenti di un comando della Brigata Osoppo). Non a caso, i fatti descritti in questo libro sono talvolta definiti una “Porzûs alla rovescia”. Certo, le differenze tra i due episodi non mancano, la definizione non è forse esatta, ma ha il merito di riaprire un dibattito che tanta storiografia nata con la guerra fredda ed ormai dilagata, dopo la sua fine, sui media e sulla stampa, considera chiuso con la definitiva condanna della Resistenza comunista. In realtà i conflitti interni alla Resistenza ci furono, i componenti delle brigate autonome, cattoliche, badogliane, a volte furono vittime ma altre volte furono carnefici, l’unità delle varie formazioni sul piano militare e degli obiettivi politici antifascisti fu spesso un obiettivo da raggiungere più che una realtà. E perciò va dato merito a quanti si spesero allora, anche tenendo presente la “lezione della Spagna”, in favore di tale unità.
De Grandis afferma che la decisione di eliminare i quattro comunisti, due dei quali ritenuti “foresti”, stranieri, perché non erano originari della zona, era stata presa in alcuni ambienti politici di Vicenza e poi trasmessi al gruppo cattolico di Fontanelle di Conco. Certo, rimane poco chiaro il ruolo giocato da alcuni personaggi ambigui, che frequentavano le bande partigiane cattoliche e badogliane ma anche ambienti fascisti della provincia, nello spingere i giovani cattolici a procedere alle quattro sbrigative eliminazioni. L’autore ricostruisce anche con attenzione le varie inchieste promosse dal PCI, a partire dai primi mesi del 1944, per far luce sull’accaduto. All’epoca il responsabile dell’organizzazione militare in una zona molto ampia e tradizionalmente cattolica era il friulano Amerigo Clocchiatti, che si trovava di fronte a livello politico e militare un compito difficilissimo. La documentazione raccolta da Clocchiatti però era stata persa durante un bombardamento. L’inchiesta era proseguita nel dopoguerra, aveva raccolto numerose informazioni ed individuato alcune responsabilità, ma poi tutto era finito con un nulla di fatto. Nel dopoguerra la gran parte dei protagonisti di quelle uccisioni era morta, il personaggio che manteneva rapporti con ambienti fascisti ma anche con i partigiani cattolici, che alcuni consideravano un provocatore fascista nelle file partigiane, godeva fama di essere stato un valoroso partigiano e sarà decorato con due medaglie di guerra. Alcuni reduci delle formazioni cattoliche, tra cui un futuro giornalista di un certo prestigio, interrogati avevano ripetuto le accuse di furti e violenze a carico dei quattro garibaldini che a suo tempo avevano formulato i fascisti. Il membro del Comitato Militare Provinciale reo di aver probabilmente trasmesso in montagna l’ordine di eliminazione dei quattro si proclama con molta energia estraneo a quei fatti Se non si voleva colpire i responsabili, perché i vari funzionari di partito non denunciarono almeno con forza quegli avvenimenti, come avrebbero potuto comunque fare, sebbene avessero raccolto informazioni sufficienti per capire bene quanto era accaduto? De Grandis individua il motivo del silenzio su queste morti, e su altre che hanno coinvolto partigiani comunisti, nella linea dell’unità antifascista voluta da Togliatti, che aveva portato a propagandare un’immagine della Resistenza come movimento in cui le divisioni interne erano state armoniosamente composte (pp. 396 – 397). Un’immagine, aggiungo io, che non deve impedire a noi di cercare una verità anche che può risultate scomoda.
Marco Puppini
Tag: anpi mirano
Italiani mala gente (di Franco Giustolisi)
Ha condotto l’azione «con calma, implacabile energia ed intelligenza». Sono le precise parole di una proposta di encomio solenne per un tenente colonnello che durante l’ultima guerra guidò un’operazione militare nella Grecia occupata. Le parole le scrisse il comandante della divisione Pinerolo, il generale Cesare Benelli. L’ufficiale da encomiare era il tenente colonnello De Paula. Ma l’ufficiale non aveva guidato un’azione particolarmente rischiosa o impegnativa. Non aveva combattuto contro «soverchianti forze nemiche», come spesso si legge nelle motivazioni di medaglie ed encomi. Aveva “solo” messo a ferro e fuoco un paese, Domenikon, in Tessaglia, uccidendo gli uomini, bruciando le case, deportando donne e bambini. Un crimine di guerra commesso da soldati italiani sul quale sta adesso indagando la procura militare di Roma.
Tutto avviene il 16 febbraio 1943, in Tessaglia, appunto. Un’autocolonna italiana che trasporta viveri viene attaccata da quello che viene definito un “gruppo di banditi”, cioè di partigiani greci che combattono contro gli occupanti italiani. La battaglia termina con la rotta degli assalitori. Ma da dove sono arrivati i partigiani? La località abitata più vicina è Domenikon e gli italiani immaginano che da lì siano venuti i “banditi”. Gli uomini della Pinerolo agiscono immediatamente. Radunano e massacrano tutti i maschi di più di 14 anni che vi abitano. Le poche case vengono date alle fiamme. La chiesa viene risparmiata, le donne avviate in un campo di concentramento. Il generale Benelli si vanta di quell’azione, dice che è «esempio e monito per il futuro» e nelle conclusioni del rapporto scrive che «le perdite sono le seguenti, da parte nostra. Morti in combattimento:
truppa 8: morto in ospedale in seguito alle ferite, truppa 1. Feriti: 2 ufficiali, truppa 13. Da parte dei greci. Morti durante lo scontro: 8. Sbandati raggiunti e passati per le armi dalla scorta dell’autocolonna: 7. Rastrellati dalla compagnia di rinforzo e passati per le armi: 16. Passati per le armi perché cercavano di fuggire dall’accerchiamento: 4. Passati per le armi da reparto inviato da Tyrnavos: 8. Passati per le armi a Damasi: 97 (sono i cittadini di Domenikon, ndr.). In totale 140 sudditi greci deceduti».
I documenti su questa storia erano stipati in quello che può essere definito un “carrello della vergogna”. Un carrello grande, a due piani, di quelli che servono a portare faldoni da un ufficio all’altro e nascosto in un angolo della Procura militare, non molto lontano dall’“armadio della vergogna”. L’armadio aperto nel 1994 e di cui parlò per primo “l’Espresso”con l’articolo “Dieci, cento, mille Ardeatine” di Alessandro De Feo e mio. Un armadio della procura militare rimasto per decenni con le ante rivolte verso il muro e dentro, «archiviati provvisoriamente», 695 fascicoli sulle stragi commesse in Italia dai nazisti. Vi vennero chiusi nel 1960 per una sorta di patto segreto tra Italia e Germania. Nessun processo per i nazisti, nessun processo, in cambio, contro i fascisti colpevoli di crimini di guerra nei paesi aggrediti da Mussolini. Nel carrello della vergogna, infatti, insieme al fascicolo sulla strage di Domenikon ce ne sono molti altri relativi alle tante stragi commesse, durante l’ultima guerra, dai militari italiani.
Il fascicolo su Domenikon adesso è sul tavolo del procuratore militare di Roma, Marco De Paolis. E i fatti sono ricostruiti nel diario della divisione Pinerolo che, comandata dal generale Cesare Benelli, era di stanza nella Grecia occupata. A far riemergere questa storia è stato un documentario di Giovanni Donfrancesco (mai trasmesso dalla Rai), “La guerra sporca di Mussolini”. La Procura militare di Roma apre l’inchiesta, ma poi
la chiude frettolosamente con doppia motivazione: «Il generale Benelli è deceduto e manca la parità di tutela penale da parte dello Stato nemico a norma dell’art.165 del Codice militare di guerra». A parte il fatto che sarebbe stato opportuno scrivere Stato ex nemico, molti magistrati contestano l’applicabilità di quell’articolo, un articolo chiamato “salva-tutti”, perché riguarderebbe il rapporto tra militari e militari e non tra militari e civili.
Ma per fortuna il tempo non basta a soffocare l’anelito di giustizia che è una delle colonne portanti della democrazia. E così a Marzabotto, nel giorno della ricorrenza della strage, l’8 ottobre di due anni fa, un distinto signore avvicina l’attuale procuratore militare della Repubblica di Roma, Marco De Paolis. Si chiama Efstathios Psomiades, è il rappresentante delle famiglie delle vittime di Domenikon. Chiede giustizia, fa un discorso di questo tipo: qui in Italia, a gran voce, si chiede che vengano puniti i criminali nazisti responsabili di questo e di tanti altri massacri. Ma i fascisti sono ugualmente colpevoli di delitti simili. Perché non si procede anche contro di loro? Al suo ritorno a Roma De Paolis consulta quei vecchi fascicoli e riapre l’inchiesta chiusa circa cinque anni prima dal suo predecessore Antonino Intelisano, poi promosso al massimo grado di procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. Va ricordato che De Paolis ha riavviato le inchieste su Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, Fivizzano e molte
altre stragi, chiedendo ed ottenendo, sinora, sessanta ergastoli. Di nazisti colpevoli ne sono rimasti in vita una quarantina, ma Germania e Austria non vogliono “disturbarli”, vivono tranquillamente nelle loro case.
Per Domenikon De Paolis ha aperto un procedimento a carico di ignoti alla ricerca di qualcuno della divisione Pinerolo ancora in vita. A oggi, a quanto pare, i carabinieri hanno scovato solo un novantacinquenne, ex sottotenente di quella divisione, che però non si trovava allora in quel teatro di operazioni. Ma l’inchiesta continua. (di Franco Giustolisi da “L’Espresso)
La guerra sporca di Mussolini: http://youtu.be/_ttQKhut4vo
Hannah Arendt
Guerra di Liberazione, non guerra civile
Guerra di Liberazione, non guerra civile, questa la conclusione della serata di ieri, con Gianni Giannoccolo, Alessandra Kersevan, Elisa Lolli.
Dall’introduzione del libro di Gianni Giannoccolo letta da Elisa Lolli:
La memoria non può essere cancellata, anche perché la Resistenza rimane un punto di riferimento per tutti coloro che quel periodo l’hanno vissuto e hanno avuto modo di conoscere gli orrori della guerra, la spietata occupazione nazista dell’Italia e dell’Europa con la deportazione di civili nei campi di concentramento, ebrei sterminati, saccheggi, incendi di case di civili con donne e bambini, stragi di gente inerme, le requisizioni e le depredazioni. In sostanza la violenza tendeva a ridurre a terra bruciata un ambiente che si avvertiva come ostile in quanto contrastava la violazione dei fondamentali diritti umani, respingendo ogni forma di complicità.
Eventi che non debbono cadere nell’oblio, ma che debbono essere trasmessi da generazione in generazione non tanto per esorcizzarli, quanto perché servano da monito affinché non abbiano a ripetersi. Parafrasando Gioele, essi continueranno ad essere presagiti dai figli, presenti nei sogni dei vecchi e nelle visioni dei giovani nell’incessante continuazione della memoria.
C’è troppa gente che quel periodo vuole rimuovere e non mancano coloro che, con teorie elaborate a tavolino, con iniziative estemporanee sprovviste di ogni seria verifica, tentano di stravolgere i termini storici di quegli avvenimenti, capovolgendone i rapporti casuali, nascondendo la motivazione e l’origine di determinati fatti, rifacendo una storia di comodo sulla base di tesi precostituite per adattarla e renderla funzionale a orientamenti politici contingenti.
E il momento di ricostruire, sulla base di documenti e testimonianze, quei drammatici eventi nella loro verità assodata e ineccepibile, per non smarrire la memoria di un patrimonio che deve essere tramandato, un patrimonio che è ignorato volutamente da coloro che, mimetizzati sotto i paraventi di qualche partito postmoderno, persistono ancora oggi nell’esaltare gesta saloine, come si è peritato di fare più di una volta l’ex Ministro La Russa.
Dico subito che chi scrive appartiene alla schiera, per fortuna tutt’altro in via di estinzione, di coloro che non si rassegnano a dover accettare passivamente l’interpretazione corrente che si intende dare al significato della Resistenza, di quello che essa ha rappresentato nella lotta di popolo contro l’occupante nazista dell’Italia dal 1943 al 1945. E neppure ad accettare alcuni episodi e strumentalizzazioni del dopoguerra, a volte raccapriccianti e da condannare, ma pur sempre isolati e anomali, attraverso i quali avallare la tesi che in Italia in quel periodo vi sarebbe stata la guerra civile.
18 gennaio 1944: insurrezione del ghetto di Varsavia
Il 18 gennaio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia occupata dai nazisti reagirono per la prima volta alle le violenze e le deportazioni, che riuscirono a impedire resistendo ai tedeschi. Il comandante delle SS ordinò la distruzione del Ghetto, i cui abitanti organizzarono una rivolta che tenne in scacco i nazisti per un mese tra aprile e maggio, prima che il Ghetto fosse raso al suolo e la rivolta si concludesse con l’uccisione di oltre diecimila ebrei e la deportazione di circa 50 mila. Questa la storia della rivolta:
Dal settembre 1942 al gennaio 1943 i tedeschi cercarono di rassicurare i superstiti abitanti del ghetto. Non ci sarebbero state altre deportazioni verso Est, non c’era più nulla da temere. Tuttavia qualcosa nel meccanismo di autoinganno favorito dalle menzogne tedesche si era spezzato. Il ricordo dei familiari, delle mogli, dei mariti, dei genitori, dei figli trasportati verso la morte era troppo vivo negli scampati. Nessuno più si faceva illusioni o credeva nelle menzogne naziste.
Nessuno più credeva che sarebbe uscito vivo dal ghetto. Se si doveva morire questa volta si doveva però morire con onore, combattendo. Anche chi non cercò di aggregarsi alla resistenza militare aveva maturato la convinzione che occorresse combattere.
I combattenti della ZOB non elaborarono alcun piano di ritirata. A differenza del movimento di resistenza della città di Vilna, l’FPO che aveva pianificato la rivolta per fuggire dal ghetto, la ZOB voleva morire con il Ghetto di Varsavia difendendolo metro per metro.
Verso il 15 gennaio i nazisti compirono delle retate di uomini nella parte “ariana” di Varsavia. Una gigantesca caccia al polacco in età di lavoro venne scatenata dalla Gestapo. Nel Ghetto non ci si attendeva una azione nazista dopo queste operazioni di rastrellamento.
Contrariamente alle previsioni alle 6 del mattino del 18 gennaio 1943 una colonna tedesca entrò nel ghetto con il proposito di rastrellare gli abitanti. La tecnica adottata era quella consueta: accerchiamento degli stabili e intimazione ad uscirne. L’operazione colse completamente di sorpresa la ZOB: non c’era il tempo di riunire il comando e prendere delle decisioni.
Anielewicz si assunse la responsabilità dell’azione e con una dozzina di uomini armati di pistola si introdusse nella colonna di prigionieri che stavano marciando verso la Umschlagplatz dove i treni aspettavano. Ad un cenno convenuto, quando la colonna arrivò all’angolo tra via Zamenhof e via Niska, ogni combattente cominciò a scaricare la propria pistola sul tedesco più vicino. Contemporaneamente Yitzack Zuckermann attirò un gruppo di nazisti in un appartamento di via Zamenhof ferendone diversi.
L’attacco colse completamente di sorpresa i nazisti. Diversi rimasero sul terreno e gli uomini della ZOB si impossessarono delle loro armi. Quando altre SS accorsero in aiuto dei loro commilitoni gli uomini della ZOB fecero l’errore di combattere allo scoperto per le vie del Ghetto. Fu un grave errore: numerosi rimasero uccisi non potendo far fronte al numero e all’armamento dei nazisti.
Nonostante questo errore tattico l’effetto politico dell’azione fu enorme. Le centinaia di prigionieri già incolonnati si dispersero sottraendosi alla deportazione. Gli uomini della ZOB dimostrarono che non solo si poteva resistere ma che si potevano uccidere anche gli uomini della “razza superiore”.
I nazisti continuarono l’operazione sino al 22 gennaio continuamente disturbati dagli attacchi della ZOB che questa volta cambiò tattica attaccando e scomparendo.
Grazie alla resistenza armata della ZOB le SS riuscirono a deportare soltanto 650 persone e ad ucciderne sul posto 1.171 che erano state catturate. Considerando che l’operazione mirava almeno al dimezzamento degli ebrei del Ghetto il successo della resistenza appare evidente.
Quel che i difensori della ZOB non sapevano era che l’operazione cominciata il 18 gennaio non mirava al totale svuotamento del ghetto. Durante i primi giorni del gennaio 1943 l’automobile blindata di Heinrich Himmler percorse le strade del Ghetto per una visita che lo stesso Reichsführer volle compiere per rendersi conto personalmente della situazione. Dopo questa “ricognizione” Himmler domandò quanti ebrei rimanevano ancora nel Ghetto. Gli si disse che si stimavano circa quarantamila residenti.
Al suo ritorno a Berlino Himmler scrisse una lettera al capo delle SS e della polizia di sicurezza Krüger ordinando l’immediata deportazione di almeno ottomila ebrei verso i campi di sterminio e di altri sedicimila nelle fabbriche di munizioni di Lublino.
Sammern-Frankenegg con l’operazione del 18 gennaio stava obbedendo ad un ordine che proveniva direttamente da Berlino: rimuovere ventiquattromila ebrei dal Ghetto. I seicentocinquanta ebrei catturati era tutto ciò che era riuscito a fare.
La notizia dell’insuccesso venne ritrasmessa a Berlino. (http://www.olokaustos.org/geo/ghetti/varsavia/warsaw01.htm)
17 gennaio 2014: commemorazione dei 7 partigiani uccisi al cimitero di Mirano
Nell’ottobre del 1944 una pattuglia della Brigata Volga, comandata da Oreste Licori, catturò il tenente delle SS italiane Vasco Mingori e, forse per uno scambio di prigionieri andato male, l’ufficiale venne ucciso nell’accampamento della “Luneo”. Elda Gallo, sorella del segretario del fascio di S. Maria di Sala fu catturata e giustiziata come spia nell’accampamento della “Volga”.
A Mirano il comandante delle Brigate nere Mario Zagari, grazie alla segnalazione di una collaborazionista, poi giustiziata dai partigiani della “Luneo”, arrestò Oreste Licori mentre faceva visita alla madre. Il giovane venne fucilato il 1° novembre 1944. Seguirono numerosi arresti tra i partigiani della “Luneo” grazie alle rivelazioni di una spia che si era introdotta nella formazione. Sei giovani furono torturati a morte nella notte tra il 10 e l’11 dicembre. I cadaveri vennero gettati ed esposti per tutto il giorno nella piazza del paese, i loro nomi sono: Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor e Giulio Vescovo; un settimo giovane Mosè Bovo fu trucidato nell’aia di casa davanti ai genitori.
Il 5 gennaio del ’45 fu riesumato il cadavere della SS italiana in zona Luneo. I tedeschi, in relazione alla morte dell’ufficiale e all’esecuzione delle due donne, chiesero dieci condanne a morte tra la trentina di partigiani reclusi nella casa del fascio. Fu istituito un processo farsa che si concluse con la condanna a morte di dieci partigiani, di cui tre ebbero accolta la domanda di grazia. Il 17 gennaio furono fucilati presso il cimitero di Mirano Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni).
Per commemorare i partigiani uccisi, venerdì 17 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano (VE) verrà presentato il libro di Gianni Giannoccolo “Resistenza: guerra civile o guerra giusta?”. Sarà presente l’autore. Introduzione di Alessandra Kersevan, Elisa Lolli leggerà brani del libro.
Addio ad Arnoldo Foà
Addio ad Arnoldo Foà. L’attore, nato a Ferrara, avrebbe compiuto 98 anni il 24 gennaio 1916. La sua carriera ha coperto quasi un secolo di teatro, cinema e tv, ma anche di libri, poesia e pittura e di insegnamento ai giovani del Centro Sperimentale di Cinematografia. L’artista si è spento a Roma. Il direttore di Rai1, Giancarlo Leone, lo ha ricordato su Twitter: “Chi si ricorda di Arnoldo Foà nell’Isola del Tesoro?”, evocando la partecipazione dell’attore allo sceneggiato televisivo diretto da Anton Giulio Majano e trasmesso dalla Rai nel 1959.
Quando la Casa del Cinema di Roma aveva organizzato la festa per il suo 95° compleanno l’artista, accanto ad Anna non aveva rinunciato a lanciare qualche battuta volutamente ruvida, di quelle che hanno nutrito la sua leggenda di uomo intrattabile: ”Ma siete tutti venuti qui per me, davvero? Ma allora siete tutti cretini!”.
Nella sua “Autobiografia di un artista burbero” pubblicata due anni fa da Sellerio l’attore confessava candidamente di ”aver sempre desiderato di essere amato; non riverito, encomiato, rispettato; amato nel senso di vedere il sorriso sul volto di chi mi guarda, il sorriso che si accende sul volto degli amici e degli sconosciuti”.
Il decano del teatro italiano è apparso sulle tavole dei teatri e sullo schermo in tutte le età e in tutti i contesti: da quando subì le leggi razziali in quanto ebreo, a quando, in veste di annunciatore di Radio Bari annunciò la fine della guerra; dai film d’avventura degli anni Cinquanta, alla popolarità televisiva della stagione d’oro degli sceneggiati di matrice letteraria (un titolo fra cento: ‘Capitan Fracassa’) alle collaborazioni di prestigio, con Orson Welles, Toto’ o Giorgio Strehler.
Foà ha collaborato anche con Luchino Visconti, Luigi Squarzina, Luca Ronconi. È stato anche mettendo in scena spettacoli di prosa – da Aritofane a Pirandello – e di lirica. Nella sua carriera ha raccolto successi anche come doppiatore e restano indimenticabili le sue dizioni poetiche della Divina Commedia di Dante, delle opere di Lucrezio, Carducci, Leopardi, Neruda, García Lorca. (da “Il Fatto” dell’11/1/14)
Arnoldo Foà legge l’epigrafe di Calamandrei al comandante Kesserling:
Cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo”
Domenica 12 gennaio alle ore 11.00 in Campo del Ghetto Novo, Venezia ci sarà la cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo” (Stolpersteine) in memoria dei cittadini e cittadine veneziani deportati nei campi di sterminio nazisti, con l’artista tedesco Gunter Demnig autore delle Pietre.
Il percorso della posa delle dodici Pietre d’Inciampo inizierà nel Campo drio la Chiesa, adiacente Campo SS. Apostoli (Cannaregio 4470), alle ore 9.00 per poi proseguire con la posa delle altre Pietre; invitiamo tutti a partecipare fin dall’inizio alla manifestazione e seguire l’intero percorso della posa per rendere omaggio, simbolicamente, a tutti coloro che hanno sofferto prima la deportazione e poi la morte nei campi di sterminio nazisti.
http://iveser.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1076&Itemid=13
“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno
“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno: Intervista con Mario Bernardo, classe 1919, uno dei protagonisti della Resistenza, in particolare nel Bellunese ma anche a Venezie e nel Trentino orientale. La sua esperienza in proposito è narrata nel volume “Il momento buono” del 1969.
Di origini veneziane, classe 1919, Mario Bernardo è stato fra i protagonisti della Resistenza nelle vicine montagne bellunesi, come comandante delle formazioni garibaldine nelle quali erano inquadrate anche le due giovanissime martiri del Tesino, Clorinda Menguzzato «Veglia», seviziata e poi fucilata dai nazisti (nell’ottobre 1944, a Castello), e la sua amica Ancilla Marighetto «Ora», freddata con un colpo alla testa dopo essere finita nelle mani di una pattuglia del Corpo di sicurezza Trentino, Cst (nel febbraio 1945 al passo Broccon). Mario Bernardo, che dopo la guerra è diventato una figura di primo piano del mondo del cinema (direttore della fotografia per molti grandi maestri nonché regista a sua volta), era ufficiale alpino di stanza in Alto Adige quando arrivò l’8 settembre. Riuscì con alcuni commilitoni a sfuggire ai nazisti, supportati da forze locali, e riparò in una casa di montagna che la famiglia (padre veneziano, madre bellunese) aveva a Bieno, nel Tesino (dove Radiosa vive tuttora). Qui animò un primo tentativo di dar vita alla guerriglia ma non c’erano le condizioni per un successo e quindi si aggregò alle forze garibaldine del Bellunese. Ebbe ruoli di comando dapprima nella brigata Gramsci sulle Vette Feltrine, dove nacque l’operazione che condusse al varo del battaglione Gherlenda in Tesino, e poi con la divisione Belluno proprio sui monti che sovrastano il capoluogo della vicina provincia dolomitica. Radiosa Aurora si distinse in numerose azioni e, data la sua competenza specifica, diede un contributo importante alle azioni armate, specie in relazione all’utilizzo dell’artiglieria e degli esplosivi. Nel settembre 1944 riuscì con alcuni compagni a mettersi miracolosamente in salvo durante il tragico rastrellamento sul monte Grappa, quando ingenti reparti nazifascisti circondarono il massiccio e massacrarono anche civili in un’operazione che rappresentò un colpo durissimo per la Resistenza (più di 500 morti e 400 deportati). Dopo la Liberazione, Bernardo fu inviato a Trento per guidare la polizia partigiana, ma in breve tempo prese atto della impossibilità di procedere realmente nei riguardi dei numerosi e zelanti collaborazionisti. Una delusione che indusse amaramente Radiosa Aurora a lasciare l’incarico anzitempo.
Questa la registrazione audio dell’intervista di Zenone Sovilla (Bellunopop.it): http://www.bellunopop.it/bellunopodcast/?p=episode&name=2012-04-11_o_voci-10-4-2012.mp3
Roma 4 gennaio 1944: 292 “indesiderabili” vengono deportati in Germania
Questa e’ la storia di un gruppo di uomini, detenuti nel carcere di Roma, che furono prelevati la mattina del 4 gennaio 1944 ed avviati alla Stazione di Roma Tiburtina per essere deportati. Uomini che non avevano commesso alcun reato. Iniziarono un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l’Italia e la Germania, con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo di Concentramento di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.
Al KZ Mauthausen, `l’inferno dei vivi`, furono immatricolati solo 257 uomini del gruppo uscito da Regina Coeli.
Dal mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, si legge:
‘Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino e’ partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sara’ scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone ‘.
Facciamo un passo indietro. Alcuni anni fa, nel 2004, feci un viaggio con destinazione Auschwitz e Birkenau in Polonia. Passando per l’Austria mi ricordai di un fratello di mio nonno, Valrigo Mariani, nato a Roma nel 1907, di cui avevo sempre sentito parlare in famiglia. Egli fu arrestato, poi deportato da Roma nel 1944 per morire in un campo di concentramento, forse a Mauthausen, dove quindi decisi di recarmi. Giunto al Campo, consultai il data-base del Museo ed ebbi la certezza della data di arrivo e della data della sua morte. Tornato in Italia iniziai una ricerca sfibrante, ancora in corso. Passai dalla estenuante burocrazia nazista alle poche documentazioni note in Italia. Scoprii l’esistenza dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei lager nazisti) e conobbi un ex deportato, Italo Tibaldi, che aveva lavorato, dal 1945, per circa 50 anni, alla ricostruzione dei trasporti, alle liste nominative e alle matricole di circa 8.000 persone deportate dall’Italia al Campo di Concentramento di Mauthausen. Inoltre, appresi che il 4 gennaio 1944 dal Carcere Giudiziario di Regina Coeli venne composto un trasporto di detenuti che dalla Stazione Tiburtina parti’ per il Nord diretto prima a Dachau e poi a Mauthausen. Il numero dei deportati variava fra i 257 (elenchi matricolari ricostruiti da Italo Tibaldi) ed i 480 (fonte Gino Valenzano, reduce da quel trasporto).
Partii dalla sicura lista dei 257 immatricolati, fra cui compariva il nominativo del fratello di mio nonno, e la confrontai con i registri matricola di Regina Coeli. Registri salvati miracolosamente dalla Dott.ssa Assunta Borzacchiello e dai suoi collaboratori, custoditi con difficolta’ nel Museo Criminologico di Roma. Mi confrontai con un periodo della storia di Roma e della fortissima resistenza al nazi-fascismo dopo l’8 settembre 1943 . Nei registri matricola di Regina Coeli ebbi la conferma ed il riscontro di soli 239 nomi dei 257 della lista ricostruita da Tibaldi. Trovai, pero’, altri nomi di detenuti usciti e partiti la mattina del 4 gennaio 1944, ma mai immatricolati a Mauthausen e percio’ non conosciuti.
Dalla ricerca sui diciotto nominativi non trovati nelle matricole di Regina Coeli, capii che erano persone detenute al terzo braccio del carcere sotto giurisdizione germanica. Molto utili furono i due libri scritti da Gino Valenzano, nipote del Generale Badoglio, che descriveva l’arresto suo e del fratello avvenuto a Roma ad opera della polizia tedesca, la loro detenzione al terzo braccio e la loro deportazione con tutti gli altri il 4 gennaio 1944.
Controllando i 18 nomi mancanti mi imbattei in una serie di particolari interessanti. Erano quasi tutti minori di diciotto anni, il piu’ piccolo aveva quattordici anni. Il nominativo di Fausto Iannotti, in particolare, risultava coinvolto casualmente nella prima strage nazista a Roma avvenuta nell’ottobre del 1943, dopo l’assalto della popolazione affamata al Forte di Pietralata.
Dal controllo della lista matricolare di Mauthausen, ricostruita da Tibaldi, Fausto Iannotti risultava deportato e deceduto nel sottocampo di Ebensee. Qualcosa non tornava.
Bisognava ricontrollare le fonti e gli avvenimenti. Verificai le testimonianze del ritrovamento della fossa comune a Casal dei Pazzi, oggi all’interno del muro di cinta della Casa circondariale di Rebibbia `Nuovo Complesso`. Ritrovai i registri dell’ obitorio di Roma del giugno 1945 e verificai il ritrovamento delle salme. Incontrai, infine, il fratello maggiore di Fausto Iannotti. Arrivai ad una certezza, ma senza riscontri perche’ mancavano le matricole di ingresso al terzo braccio tedesco di Regina Coeli. La ricerca si trovo’ ad un punto fermo.
La polizia nazista, molto attenta nello schedare e scrivere ogni cosa, probabilmente era stata scrupolosa anche nella distruzione della sua unica documentazione di immatricolazione del braccio? Qualcuno pero’ mi disse che le forze naziste, fra il 3 ed il 4 giugno 1944, lasciarono Roma improvvisamente senza preavviso e notevolmente impreparate. A Regina Coeli il 3 giugno ’44 erano state sostituite le normali forze di polizia germanica con i componenti del battaglione `Bozen` di origine altoatesina; quando questi arrivarono trovarono il terzo braccio ed una grossa parte del carcere vuoti. L’evento, per me sconosciuto, mi fece supporre che la polizia nazista, dopo aver gestito per nove mesi il quarto braccio prima ed il terzo braccio poi, non avesse avuto il tempo di distruggere la documentazione inerente le note matricolari, di ingresso ed uscita dal carcere. Ebbi ragione e fortuna.
In seguito, altre ricerche bibliografiche mi portarono al Museo della Liberazione di via Tasso dove in un incontro con l’attuale presidente, Prof. Parisella ed il suo staff, ebbi la conferma del ritrovamento effettuato solo nell’autunno 2005, di numerose matricole, circa 2500, del braccio tedesco di Regina Coeli. Il quadro delle fonti documentali era finalmente completo e si sono potuti effettuare i riscontri necessari. Va ricordato che il ‘trasporto’ di coloro i quali uscirono nella giornata del 4 gennaio 1944 da Regina Coeli era composto da persone semplici, antifascisti di tutto l’arco della resistenza al nazi-fascismo di quei mesi a Roma. Giovani renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana, soldati sbandati dopo l’8 settembre 1943 e reduci da vari fronti di guerra. Settanta, ottanta antifascisti noti all’ Ovra ed inseriti nel Casellario Politico Centrale. Un fondatore del Partito Comunista Italiano e due nipoti del Generale Badoglio. Dodici uomini di religione ebraica ed un maestro francese in fuga dalla sua nazione ed arrestato solo il giorno prima della deportazione.
Dei 257 uomini immatricolati, sopravvissero alla liberazione dei Campi ai quali furono destinati, solo una sessantina e non tutti riuscirono a ritornare in patria. Molti di loro morirono di fame e di stenti in una Europa gia’ libera dal nazifascismo dopo 17 mesi di sofferenze.
Ad oggi, oltre a ricostruire la dignita’ dei fatti, resta solo da stabilire cosa e’ accaduto ai 70 uomini prelevati da Regina Coeli, portati alla Stazione Tiburtina, e di cui non si conosce piu’ nulla perche’ mai immatricolati ne’ al KL Dachau e ne’ al KL Mauthausen. Alcune storie cominciano a delinearsi. Di certo vi furono alcuni uomini che fuggirono durante il tragitto, ma rimane il dubbio e l’incertezza di un’eliminazione immediata e senza immatricolazione nel Campo di Mauthausen, per quelle persone ritenute inabili al lavoro coatto. (http://www.deportati4gennaio1944.it)