Il dizionario del partigiano anonimo

porro banda tom“Un uomo ordinato. Il dizionario del Partigiano” di Angelo Del Boca (da “Storie della Resistenza”, Sellerio Editore)

In marzo iniziò lo sgelo e poco dopo cominciarono ad affiorare i corpi dei morti. Quasi ogni giorno c’era un contadino che scendeva al comando per segnalare un ritrovamento.
Erano i ragazzi morti negli scontri durante il ripiegamento invernale e che non avevamo fatto in tempo a seppellire; oppure quelli che si erano persi nella tormenta e che il freddo aveva ucciso. La montagna continuava a restituirne e fu necessario costituire una squadra che si occupasse di questa opera di pietà.
Gli oggetti che venivano trovati indosso ai morti finivano al comando, dentro buste o sacchetti: alla fine della guerra avremmo provveduto a spedirli alle famiglie.
In genere erano orologi, catenine d’oro con la medaglia del Cristo o della Vergine, anelli, amuleti, pipe, rasoi, coltelli a serramanico, qualche libro, molte fotografie di mamme e di ragazze.
Trovammo anche un diario, testi di canzoni partigiane, lettere mai spedite, testamenti. Erano documenti, questi, che eravamo costretti a leggere per cercare di identificare i morti. Ma lo facevamo con molta reticenza e con pena, perché spesso, fra le cose private della loro vita, affioravano considerazioni sulla nostralotta, e queste erano spesso ingenue, qualche volta sbagliate, a volte straordinariamente acute, e ciò ci obbligava mentalmente a dividere i morti in buoni e in meno buoni, in consapevoli e in opportunisti ed era proprio ciò che non avremmo voluto fare.
Il documento che più ci sorprese fu una sorta di dizionario, una cinquantina di voci scritte a matita su altrettanti piccoli fogli d’agenda. I fogli, per l’umidità, si erano incollati e se non fossero stati scritti a matita non si sarebbe salvato nulla. Pazientemente asciugammo foglio per foglio e alla fine cominciammo a leggere ciò che segue:

Alba – Quando spunta, può essere troppo tardi.
Alexander (Maresciallo) – Avrebbe voluto, all’inizio del secondo inverno, che fossimo spariti come talpe sottoterra. Non se l’abbia a male se gli abbiamo disobbedito: non c’erano buche a sufficienza.
Auto – Uno ci monta sopra e va finché ha fuso. La montagna è un cimitero di macchine.
Badoglio e Bonomi – Due personaggi, scialbi, che stanno al Sud, con gli americani.
Barba – Molti se la lasciano crescere, ma non sempre perché mancano di lamette. Chi la porta, automaticamente viene chiamato “Barba”. E poiché in un distaccamento sono in parecchi ad averla, uno si chiamerà “Barba I”, l’altro “Barba II”, e così via. Ad alcuni sta bene, gli fa una faccia decisa. Ad altri addolcisce gli occhi. Altri ancora, e sono i più ostinati a tenerla, fanno pensare alle capre.
Cani – Sono un vero guaio, di notte, durante le marce di trasferimento. Il primo a sentirvi dà la sveglia al vicino, e in pochi istanti la valle è tutta un abbaio. I cani dei tedeschi invece non abbaiano. Sono alti, snelli, col pelo corto. Ti inseguono per giornate, come se ti conoscessero, ti odiassero. Cani sono anche chiamati i tedeschi, per quanto si preferisca chiamarli maiali.
Cartucce – Ce ne sono poche e non bisogna sprecarle. In media, un uomo ne porta con sé 40-50, se possiede un fucile, e 120-150, se è dotato di un mitra. Quelli che ne fanno incetta, c’è da giurare che non spareranno mai un colpo.
Casa – Meglio non pensarci. Col tempo, non è poi tanto difficile.
Castagne – Dapprincipio ci sembrava impossibile, poi ci convincemmo: si può vivere soltanto di castagne. Castagne secche per ingannare l’appetito. Castagne bollite per riempire la gola. Castagnaccio per addormentare lo stomaco. Brodo di castagne per riscaldarlo.
Città – Ci stanno “gli altri”. L’hanno fortificata, seminata di cavalli di frisia, tappezzata di proclami e di manifesti insensati. Qualcuno dei nostri c’è entrato, di notte, e gli è parso di essere finito in un labirinto, in una trappola. Eppure buona parte delle persone che l’abitano è con noi.
Comandante – Lo si diventa per meriti, non per titoli di studio. Conosco un mungitore che ha ai suoi ordini un colonnello di Stato Maggiore. Di solito si affermano quando scoprono per la guerriglia un’autentica vocazione. Fanno sempre di testa loro, e raramente sbagliano. Quando sbagliano pagano di persona.
Commissario – È quello che sa tutto, anche se non possiamo sempre giurare che sia il depositario  della verità. Quelli che hanno dubbi vanno da lui. E lui che ci ha detto chi sono Matteotti e  Gramsci i fratelli Rosselli, e perché sono morti.  Perché il fascismo è condannato. Perché noi siamo nel giusto. Perché dobbiamo combatterei.
Comunisti – Sono i più numerosi, e sono inquadrati, nelle Brigate “Garibaldi”.  Gelosi delle loro zone, pretendono il rispetto dei confini e non rispondono agli appelli di aiuto, se non ne intravedono un tornaconto.
Quando ci riescono, disarmano altri reparti con il pretesto che questi non sanno battersi. A volte sono nella ragione, a volte nel torto. Politicamente i loro quadri sono i più preparati. Gli uomini si battono bene e non lo nascondono: domani, finita la guerra, continueranno a battersi per sconvolgere la vecchia struttura dello Stato prefascista e per mutare radicalmente la nostra società. Magari con una rivoluzione.
Divisa  – Non ne esiste una di rigore, perciò sono tutte buone. La più corrente tuttavia è quella composta da un giubbotto, calzoni da sciatore e un berretto a visiera, come quello degli alpini tedeschi; forse perché si è rivelata la più pratica. Ma la fantasia e la vanità suggeriscono le divise più stravaganti. C’è un tizio – appare sempre a cavallo – che indossa un lungo mantello di pelle rossa foderato all’interno di pelliccia bianca; sotto ha un abito attillatissimo. Quelli che portano un fazzoletto rosso attorno al capo, alla pirata, sono migliaia. Altri portano cappelli da cow-boy, passamontagna, caschi coloniali, colbacchi, bustine, baschi,fez. Alcuni indossano la divisa della Wehrmacht, elmettoe croci di ferro comprese, e debbono farsi riconoscereper non essere presi a fucilate.
Domani – Si spera sempre che sia migliore. Che non ci siano da fare cinquanta chilometri per spostarsi da una valle all’altra. Che i tedeschi non sguinzaglino i loro cani. Che il freddo non sia troppo rigido. Che non manchi da mangiare. Che gli aerei degli alleati non ci scambino per gli “altri” (come è già avvenuto). Che non ci capiti di pensare a casa. Che sia finalmente l’ultimo giorno di questa storia.
Fossi – Non avremmo mai sospettato, qualche anno fa, che avremmo trascorso parte della nostra giornata nei fossi. Ci si nasconde prima di attaccare i convogli che transitano sulle strade; si balza dall’uno all’altro mentre ci si ritira in pianura; in mancanza di almi ripari, lo si sceglie per passarci la notte. Nelle ore di attesa si fa conoscenza coi topi, le serpi e ogni sorta di vermi; si scoprono fiori e arbusti che non si sapeva che esistessero; ci si avvede che la natura continua a fiorire, nonostante l’odio che ci circonda. Poi, per fortuna, si torna in montagna, dove viviamo nel cielo. Soltanto ora possiamo capire (e compiangere) i nostri padri che hanno fatto tutta loro guerra nelle trincee.
Fucile – Tutti preferiscono il mitra al fucile. Poi, però, finiscono per portare l’uno e l’altro. Un buon fucile colpisce a cinquecento metri, il mitra è inutile a cento. Quelli che abbiamo sono molto vecchi; l’Enfield inglese ha fatto la guera contro i boeri; il nostro ’91 ha sparato ad Adua e a Tripoli. Il più moderno è il Mauser, ma ne possediamo pochi.
Fuga – La nostra non è una guerra classica, non è una guerra di posizione e neppure di prestigio. Perciò la fuga vi è ammessa, ne è anzi la prima regola. Se si vuole, la nostra è una continua fuga, ma nello stesso tempo è un continuo attacco. La fuga perciò si spoglia del suo significato vile. Spesso la fuga  più immediata permette di aggirare l’attaccante e di colpirlo alle spalle mentre crede ancora di tendere un agguato. Perciò non la chiamiamo fuga questa manovre, né ritirata, ma sganciamento o ripiegamento. Il comandante rotto alla guerriglia lo si riconosce nell’attimo in cui deve decidere se accettare il combattimento o ordinare lo sganciamento. In pochi attimi egli deve valutare un’infinità di cose. Queste nuove regole, ovviamente non piacciono ai militari di carriera. Un colonnello suggeriva qualche tempo fa di costruire su alcune colline bunker e camminamenti. Gli hanno riso in faccia.
Grano (campo di) – Non è altrettanto sicuro, per starvi nascosti, del campo di granturco, ma c’è stato un giorno, indimenticabile, in cui ci siamo rivoltati sulla schiena e abbiamo  osservato le spighe, i fiordalisi, i papaveri che tremavano alla brezza estiva e ci siamo accorti che continuavamo a vivere. Di rimando, che spettacolo triste il tappeto di cenere che ne resta dopo un incendio!
Graziani (Maresciello) – Un uomo che sta al Nord, coi tedeschi e del quale si racconta  che abbia perso i coglioni in Libia. Così impara a  molestare gli arabi!
Inglesi – Da un anno aspettiamo che sferrino l’offensiva, ma non si decidono mai. A differenza degli americani, lanciano armi vecchissime e nessun genere di conforto. Gli inglesi che sono stati paracadutati nelle nostre zone sono però uomini di coraggio, anche se molto diversi da noi. Essi ci rimproverano soprattutto la passionalità e il dilettantismo. Coi loro “Commandos”, sostengono, possono compiere le stesse azioni spericolate delle nostre “volanti”, ma essi calcolano il rischio, noi no.
Lanci – Avvengono quasi sempre di notte, nel punto concordato per radio con gli Alleati e che viene delimitato da grandi falò. Dopo ogni lancio, si portano in giro le armi piovute dal cielo come abiti nuovi, mentre con la seta dei paracadute si confezionano camicie e fazzoletti dai colori più vistosi. Il più grande lancio l’abbiamo avuto la notte dell’Epifania, ma era troppo tardi, eravamo in rotta e circondati da tutte le parti. Con le lacrime agli occhi abbiamo scavato fosse per nascondere le armi che ormai non ci servivano più.
Letto – La stessa cosa che per le donne; se ne parlamolto: «quando tutto sarà finito mi metto a letto e ci resto per un anno», ma poi non si muore a stare senza. L’importante è trovare il tempo e la calma per buttarsi giù; il posto sufficiente per allungare le gambe; e sopra un tetto che non faccia acqua . Nelle foglie si dorme bene., ma al mattino ci si ritrova sudati e fiacchi; la paglia, dal canto suo, non tiene caldo; è sempre preferibile il fieno. Qualcuno è riuscito ad andare a letto con una donna, questa estate: ma, se ne parla, è per rimpiangere il letto più che la donna.
Matteotti – Uno che è morto mentre noi aprivamo gli occhi sul mondo. Se ne dice un gran bene. Nelle foto che abbiamo visto ha gli occhi dei santi- I più anziani fra noi spesso dicono: «Ai tempi di Marreotti», «l’affare Matteotti». Quante poche cose sappiamo intorno a quel periodo, ma ci resta poco tempo per far domande, per discutere, e poi – ora  che abbiamo aperto gli occhi sugli errori e i crimini del fascismo – diffidiamo un poco di tutte le altre dottrine- Adesso eliminiamo il fascismo, diciamo, poi si vedrà.
Mitra – Abbreviazione di pistola-mitragliatrice. È  una delle parole che identificherà la nostra epoca e la nostra guerriglia in particolare. La più grande ambizionedi una recluta è di buttare via il fucile per un mitra. Ce ne sono di vari tipi, ma il più pratico è lo Sten. Il Beretta è forse più preciso, ma è molto delicato. Quanto al Thompson, è troppo pesante, poi è raro. Serve ai comandanti (come il parabellum russo) quale segno di distinzione. Ha il calibro dodici e un fuoco preciso fino a 4-500 metri. Lo Sten, d contrario, è efficace dentro un raggio di 50-80 metri. E fatto per il corpo a corpo, per l’imboscata- A guardarlo è un catenaccio. Ma non si inceppa mai, anche dopo averlo tenuto sottoterra o nell’acqua. Dicono costi in America meno di un dollaro. Avere un mitra fra le mani non ci si sente più soli; è come se, a sparare, si fosse in dieci. E in fondo è così.
Mongoli – Così la gente chiama i russi che combattono a fianco dei tedeschi, anche se poi non sono affatto mongoli, ma sono soldati sovietici originari dell’Ucraina, del Caucaso, dell’Armenia, del Turkestan.
Forse il primo ad indicarli con questo nome non è stato tanto colpito dai tratti del loro viso, quanto dalla crudeltà delle loro azioni. Più che soldati, infatti, sono predatori, ladri, stupratori, proprio come si dice siano stati i mongoli di Gengis Khan. La loro sorte, d’altronde, è già decisa: essi cadranno sotto i nostri colpi o sotto quelli dei tedeschi, se tenteranno di fuggire, oppure sotto quelli dei russi, se vivranno tanto da tornare in patria. La loro violenza senza limiti è fatta anche dalla consapevolezza di avere i giorni contati.
Montagna – Prima l’identificavamo con l’estate e la villeggiatura, l’inverno e i campi di sci. Era quasi un giocattolo, come il mare. Poi, un giorno, è diventata una scelta. Ed ora è la nostra casa, il nostro letto, il nostro precario rifugio; qualche volta la nostra prigione, la nostra tomba. Altre volte, la più dolce e imprevedibile delle evasioni. Molti giurano che quando tutto sarà finito torneranno per viverci: perché qui hanno ammirato spettacoli e vissuto istanti intraducibili in parole.
Morte – Non se ne parla mai, ma è sempre con noi. Ciascuno si è immaginato la propria, lavorandovi intorno fin dal giorno in cui ha scelto questa parte della barricata. E indispensabile possedere una morte, così come è indispensabile possedere un fucile, un paio di buone scarpe e qualche idea chiara in testa. Sarebbe una sorpresa troppo spiacevole trovarsela dinanzi, all’improvviso, senza essere preparati a riceverla. In ogni caso la si preferisce alle torture e la si augura improvvisa.
Molti portano alla cintura una Sipe (bomba a mano N.d.R.)  per essere certi di poter sfuggire alla prigionia. Ogni mattina riattaccandola alla cintura, uno pensa al ferro che gli dilanierà il ventre, e si abitua a questa fine. A poco a poco, tutti si abituano alla propria morte.
Mussolini – Non se parla che raramente. Lui non viene a sparare perciò non conta. È troppo lontano quasi astratto, perché si possa provare il desiderio di ucciderlo. A parlarne di continuo invece sono i più anziani, quelli che  per un senso o per l’altro, hanno conti aperti con lui. Perché alcuni  lo hanno conosciuto di persona, ed uno gli è stato anche amico quando Mussolini diceva di essere socialista. Essi sono gli unici a figurarsi le possibili morti di Mussolini e se ne hanno a male se noi avanziamo l’ipotesi che egli sfuggirà al castigo e che sarà trasferito in America dentro una gabbia di vetro, come un animale raro. Ai giovani, la sorte di Mussolini non interessa più di quella di Farinacci o di Graziani. Per essi, è come se fosse già morto. Il loro problema è quello di buttar fuori i tedeschi e i loro servitori, e di ripulire il Paese.
Neve – Com’è diversa da quella della nostra infanzia. Nessuno, allora, fabbricando palle di neve, avrebbe sospettato che può portare alla disperazione. Mentre scrivo siamo bloccati in cinque dentro una carbonaia: fuori c’è un metro e mezzo di neve, le piste sono sparite e il più vicino villaggio è a una decina di chilometri. Da due giorni non tocchiamo cibo. Domani dovremo deciderci ad uscire, anche se non avrà cessato di nevicare.
Nome di battaglia – Serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere. Esso rivela infatti le nostre ambizioni, o le nostre letture,oppure i limiti della nostra fantasia.
Notte – Ci sono notti brevissime e notti eterne. Quelle passate nei fossi della via Emilia, in attesa di una colonna, con le mani saldate allo Sten non finiscono mai. Le rare in cui puoi dormire durano un amen. «Una notte… ». Ciascuno di noi conserva il ricordo di una notte terribile.
Paga – Una volta, e fu l’ultima, al principio della estate, distribuirono trecento lire a ciascuno di noi. «Chi li manda questi soldi?» uno domandò. Il furiere rispose: «Non so, credo gli americani». Quegli allora ribatté: «Non siamo al servizio degli americani», e restituì i soldi. Alcuni lo imitarono.
Partigiani – Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trotzkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l’uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione.
Paura – Chi dice di non averne è un bugiardo. Nessuno di noi può giurare che sarà vivo domani. O anche stasera.
Pianura – Ci andiamo spesso, ma come ladri, di notte. E ormai, abituati come siamo a vedere le cose dall’alto dei monti, abbiamo paura del suo orizzonte limitato e piatto- Un giorno l’attraverseremo con la luce del sole e sarà l’ultimo giorno di guerra.
Pippo – Con questo nome indichiamo l’aereo che vaga tutte le notti e lancia bombe a casaccio, su noi e sugli altri. Il suo non sembra un rumore di motori, ma l’ansito di un mostruoso animale. E fin che il battito delle sue ali non si si affievolisce tratteniamo il respiro.
Politica – I giovani non amano e non sanno farne. I più anziani la preferiscono alle azioni di guerra.
Ponti – In qualche valle non ne è rimasto uno. Li abbiamo fatti saltare tutti: quegli antichi in mattoni, quelli in pietra, quelli in ferro, quelli in cemento armato. Ma a che è servito? I tedeschi gettano un ponte in dieci ore. Quella che avremmo dovuto far saltare è la kommandantur.
Prete – Quello che sta con noi è l’umile e povero parroco di campagna. Gli alti prelati, in città, benedicono i gagliardetti delle “Brigate Nere”.
Raffica – Una parola, come mitra, in cui si concentrano l’odio e la violenza. Una parola di questa guerra. La raffica, per eccellenza, è del mitra ed è breve, esce dalla canna corta senza strappi e qualche volta l’uomo che spara riesce a vedere negli occhi l’altro che insacca i colpi.
Rappresaglia – Un’invenzione degli “altri” che qualche volta siamo costretti ad adottare. Il mongolo Elia, sfuggito ai tedeschi e da noi graziato, ci suggerisce: «Se volete spaventare i tedeschi, decapitate i prigionieri e andate portate le loro teste davanti alle caserme della città » E ride quando nota il nostro imbarazzo, «Voiitaliani  – soggiunge, – siete capaci di uccidere soltantoper gelosia».
Repubblica – Una parola che può significare la parte avversa. Esempio: «Arriva la repubblica». Oppure una straordinaria confusione: «Che repubblica!». Chissà quanti anni occorreranno, da noi, perché riacquisti il suo vero significato.
Repubblichini – Se ne stanno in città, preferibilmente al sicuro, con le scarpe lustre, il ciuffo fuori del berretto. Quando vengono in rastrellamento, si fanno precedere dai tedeschi. Quando le buscano, i tedeschi li tolgono dai guai. Ci sono vari tipi di repubblichini. I vecchi fascisti delle squadracce. Quelli che si ritengono disonorati dall’armistizio. I filotedeschi. Quelli che spasimano per le cause perse. Quelli che vanno sempre controcorrente. Quelli che desiderano semplicemente un’arma per sparare (ce ne sono molti anche dalla nostra parte). Quelli che sperano di arricchire. Quelli che hanno risposto ai bandi e che ora non trovano il coraggio di scappare . I razzisti. Gli spavaldi. Gli isterici. Gli stupidi. Quelli della “Muti” e delle “Brigate Nere” sono i più arrabbiati (e anche i più vigliacchi); quelli della “Decima” credono di appartenere ad un corpo scelto e amano dare spettacolo (aiutati dalle loro divise da operetta); agli alpini della “Monterosa” e ai bersaglieri dell’”Italia” hanno insegnato a combattere in Germania, in modo perfetto, ma la loro idea fissa è quella di scappare. Chi li ha battezzati “repubblichini” meriterebbe una statua.
Non c’è espressione, infatti, che meglio dipinga la loro pochezza  e viltà e goffaggine
Scarpe – E il nostro dramma; si consumano in un amen. Chiediamo scusai ai morti se li spogliamo ma noi dobbiamo continuare a camminare e loro hanno finito.
Silenzio – C’è il silenzio della notte, che fa pensare all’inganno. C’è il silenzio dell’alba, che intristisce. Ma il più crudele è il silenzio che precede la raffica nell’imboscata.
Sipe – Quando scoppia, lancia intorno ottantaquattro schegge tutte uguali ottantaquattro cubetti di ghisa. Un maggiore della missione inglese, per non cadere prigioniero, si è buttato sopra una Sipe dopo aver tolto la sicurezza. Quasi tutti, adesso, appesa alla cinghia portano una Sipe.
Spia –  Nel Paese in cui viviamo, diviso dalla guerra civile, tutti lo possono essere. Un tale che veniva da noi a mendicare pane, ha venduto per duecento lire la vita di quindici nostri compagni. Per questo siamo spietati con le spie, anche a rischio di cadere in errori.
Tedeschi – Adesso, noi che ce li siamo trovati di fronte più volte, sappiamo che non sono invincibili.  Ma le reclute si lasciano ancora impressionare da quella corta giacchetta, dalla forma dell’elmo, dagli stivaletti, dal modo di correre all’assalto. È consigliabile catturarne alcuni e tenerli all’accampamento, impiegandoli nei lavori più umili. Le reclute finiscono così per accorgersi che sono esseri umani, coraggiosi e vili come gli uomini di tutto il mondo.
Vittorio Emanuele – Era piccolo col fascismo. Senza fascismo non è cresciuto di un pollice.
Volante – Non si sa chi abbia dato questo nome al piccolo gruppo di uomini che, agendo di sorpresa, attacca gli automezzi sulle grandi vie di comunicazione, fa saltare depositi e binari e, se occorre per uno scambio di prigionieri, preleva anche un generale tedesco dal suo stesso ufficio. Non è improbabile che a coniare questo termine sia stato uno che ha partecipato alla guerra di Spagna. È impressionante il bagaglio di esperienze, di nomi, di immagini, di tradizioni che ci viene da quella sfortunata guerra per la libertà.

Con questa voce terminava il dizionario, scritto con la stessa calligrafia rotonda, educata; si sarebbe detto di un insegnante elementare. Lo esaminammo in tutti gli angoli, ma non portava firma. Mancavano anche, nel testo, riferimenti personali che potessero aiutarci ad identificarne l’autore. L’unico era contenuto nella voce “Never”, che faceva cenno, in termini asciutti ma sufficientemente drammatici, alla sosta forzata nella carbonaia. Ma era un’indicazione troppo vaga. Fra il dicembre e il febbraio a moltissimi era accaduto di rimanere bloccati dalla neve per uno o più giorni; e c’erano parecchie centinaia di carbonaie scavate nella montagna.
Constatammo, oltretutto, che questo riferimento doveva essere considerato come un’indicazione involontaria, con ogni probabilità l’effetto di un momentaneo turbamento. Soltanto nell’avvertire che si stava avvicinando la fine l’anonimo partigiano si era abbandonato a narrare i prima persona. Ma a questa debolezza aveva subito rimediato con un gesto che può essere soltanto suggerito dalla serenità e da una certa abitudine all’ordine. Trovammo infatti il foglietto con la voce “Neve” rimesso diligentemente al suo posto, fra la voce “Mussolini” e quella che riguarda la “Notte”.

Forza nuova a Venezia …. Gli antifascisti dell’ANPI cantano Bella Ciao!

Care amiche e amici,

oggi FN è approdata a Venezia per una manifestazione che l’ANPI 7 MARTIRI non poteva ammettere.
Il prefetto ne ha circoscritto la presenza caricandoli subito su un battello che li ha portati al Tronchetto. Bene.
Noi antifascisti dell’Anpi, nel breve tratto che hanno percorso sul piazzale della Stazione Ferroviaria, li abbiamo accolti con Bella Ciao, abbiamo urlato loro il nostro disappunto sulla loro presenza nella nostra città.
Mario Bonifacio “Bill”, dal Tronchetto è arrivato a piedi fino alla Stazione e poi, nonostante le richieste della Polizia, è rimasto lì davanti, mentre sfilavano dietro il cordone della Polizia. Mario si è mosso da casa a Mestre, ha preso l’autobus e, nonostante il freddo, è rimasto lì con noi a sostenere il nostro rifiuto ad essere indifferenti, perché questo ci hanno insegnato lui e i suoi compagni partigiani.
Perché fu l’indifferenza della gente ad alimentare l’arroganza di Mussolini e dei fascisti 70anni fa.
Perché fu l’indifferenza ad essere complice dei nazifascisti.
E noi non dimentichiamo ma facciamo tesoro della memoria perchè non si ripetano gli errori del passato.
Il momento è pesante e noi dobbiamo far sentire la nostra voce.
Questo è un breve filmato su quanto è accaduto:

http://youtu.be/41HrcnZk3Ls

Dal video noterete che i fascisti sono scesi proprio al binario 8, dove c’è la colonna commemorativa, e urlano la loro cattiveria proprio vicino ai nomi dei nostri martiri per la libertà: quasi fossero lì ancora a vigilare sulla nostra libertà che però siamo noi a dover proteggere, loro fecero già la loro parte col sacrificio della vita 70anni fa!
Ecco, tutto ciò per una riflessione che volevo condividere con tutti voi ….
grazie dell’attenzione

Viva la Costituzione nata dalla Resistenza!

Enrica Berti Anpi 7 Martiri Venezia

Resistenza e Costituzione

Venerdì 13 dicembre 2013 ore 20.45 presso la  Sala conferenze di Villa Errera si terrà l’incontro:

“Resistenza e Costituzione”
con la partecipazione di:
Felice Casson senatore della Repubblica
Silvia Manderino “Rete per la Costituzione”
Diego Collovini presidente ANPI provinciale di Venezia
Rappresentanti del Comune di Mirano

Giornata della memoria: 11 dicembre 2013

Giovanni Garbin, Severino Spolaor, Bruno Garbin, Cesare Spolaor, Giulio Vescovo, Cesare Chinellato

Si ripeterà anche quest’anno il percorso commemorativo che le classi terze delle scuole medie“L. Da Vinci” e “G. Mazzini” seguiranno in piazza Martiri a Mirano nella mattina di mercoledì 11 dicembre 2013, a partire dalle ore 8.30, per la “Giornata della Memoria e dei Martiri della città di Mirano”.
Ai trecento alunni di 11 classi delle medie quest’anno si uniranno gli studenti del liceo “Majorana – Corner” per ricordare i tragici eventi accaduti nella notte tra il 10 e l’11 dicembre 1944, quando sei giovani partigiani del gruppo di Luneo vennero catturati in conseguenza della delazione di una spia e, dopo un sommario interrogatorio, furono seviziati e trucidati dalla barbarie fascista. Si chiamavano Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor, Giulio Vescovo.
Gli alunni delle medie percorreranno i sei luoghi della tortura e della fucilazione in piazza Martiri (casa del Fascio – caserma della Finanza, via Barche, farmacia Sansoni, via Castellantico, Municipio, ovale) e sosteranno nei diversi punti e in ognuno ascolteranno una testimonianza portata da testimoni diretti, che hanno vissuto quell’eccidio o da persone che hanno approfondito questo episodio. I testimoni saranno affiancati dagli studenti dei licei.
Si riuniranno poi al centro della piazza, vicino al monumento al Partigiano, per la commemorazione ufficiale cui interverranno la Sindaca Maria Rosa Pavanello e la Presidente del Consiglio comunale Renata Cibin.
L’iniziativa è promossa dagli istituti comprensivi di Mirano e dal liceo “Majorana – Corner” in collaborazione con il Comune, l’ANPI del Miranese, l’AUSER quale momento di approfondimento della storia miranese e dell’episodio storico dal quale deriva il nome della piazza. Una piazza vissuta di solito diversamente, come luogo di svago, che diviene luogo di riflessione per conoscere le vicende di giovani concittadini che un tempo hanno dato la loro vita per ideali di libertà.
La Giornata della memoria è stata istituita dal Consiglio Comunale nel 2003 e celebrata l’11 dicembre di ogni anno perché la più violenta rappresaglia che ha coinvolto il paese si era svolta in piazza Martiri l’11 dicembre 1944. Questa giornata è dedicata comunque a tutte le vittime del nazifascismo che caddero a Mirano nell’inverno 1944/45, a partire da Oreste Licori che fu fucilato l’1 novembre 1944 fino alla fucilazione il 17 gennaio 1945 di Luigi Bassi, Ivone Boschin, Dario Camilot, Michele Cosmai, Primo Garbin, Aldo Vescovo, Gianmatteo Zamatteo e alla morte in combattimento il 27 aprile 1945 di Luigi Tomaello e Mario Marcato e alla deportazione in Germania, da cui non fecero più ritorno, nel febbraio 1944 di Nella Grassini Errera e Paolo Errera.

In questa occasione verrà intitolata la sezione Anpi come “Martiri di Mirano”, questa la motivazione:

Il  Presidente Franceso  De Gasperi, il  Vice Presidente Renzo Tonolo, il Segretario Bruno Tonolo e i membri del Consiglio  Direttivo della sez. ANPI di Mirano, all’unanimità approvano l’intitolazione della sezione ANPI ai “MARTIRI di MIRANO”.
Pertanto, da oggi 11.12.2013, giorno della memoria dei sei giovani martiri barbaramente torturati dalle brigate nere ed esposti in Piazza e qui lasciati morire a monito per le genti di  questi territori,  la sezione sarà  denominata:  Sezione ANPI “Martiri di Mirano”.
Con questo atto solenne si intende dare imperitura memoria ai Partigiani di Mirano e del miranese, ai soldati che dissero no alla R.S.I. morti nei campi di concentramento, agli ebrei, zingari, omosessuali, deportati e sterminati, a quanti, nel silenzio dell’anonimato, vissero quelle tragiche giornate a fianco dei combattenti fornendo loro aiuto e protezione.
Di tutti i Martiri, uniti nel dono della loro vita per la Libertà e la Democrazia, oggi, con il ricordo, vogliamo assumere l’impegno come ex partigiani e antifascisti, nella quotidiana azione politica e nella testimonianza personale.

All’Università di Padova rivive il discorso di Concetto Marchesi

Concetto Marchesi pronuncia il suo discorso

Quando Concetto Marchesi morì, nel 1957, e il parlamento italiano si fermò per commemorarlo, tutti gli intervenuti, da Togliatti a Bettiol, centrarono il loro intervento su due episodi: straordinari, pur all’interno di una vita straordinaria. Domani questi due episodi rivivranno concretamente, a set­tanta anni di distanza, negli stessi luoghi in cui si svolsero. Tutto comincia il 9 novembre del 1943 e finisce il 5 dicembre dello stesso anno. Padova è appena entrata a far parte della Repubblica di Salò. Concetto Marchesi, grande latinista, è il nuovo rettore dell’Università, nominato da Badoglio e lasciato in carica dal nuovo governo mussoliniano. È l’inaugurazione dell’anno accademico, Marchesi tiene un discorso che, pur non esplicitamente, suona all’orecchio di chi ascolta come un alto richiamo a valori di libertà, di giustizia che sono contrapposti a quelli dello stato nazifascista.
Marchesi parla dopo aver fatto cacciare dall’aula studenti in divisa della milizia fascista e parla davanti al nuovo ministro dell’Educazione Nazionale nominato da Mussolini, Carlo Alberto Biggini. Un caso unico, una sfida intollerabile per fascisti come Alessandro Pavolini, che ne vuole a tutti i costi la testa, non solo metaforicamente. Ma mentre il fascismo prende le sue decisioni Marchesi rimane al suo posto, quasi per un mese, anche contro l’opinione del Partito Comunista di cui era membro, perché vuole difendere gli studenti e i professori dell’Università. Il 1 dicembre però le cose precipitano, Marchesi è costretto alla clandestinità, ma fa ancora in tempo a lanciare un appello agli studenti, che viene distribuito di mano in mano il 5 dicembre: “Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria…, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia”. È la prima esplicita chiamata alle armi per la Resi­stenza italiana. Per i settantanni di questi avvenimenti, l’Università di Padova ha pensato a qualcosa di nuovo e di diverso. Non la commemorazione, non il ricordo, ma la riproposta teatralizzata di quegli eventi. Alle 10.30 di giovedì 5 dicembre, nell’Aula Magna del Bo rivivranno il discorso inaugurale del 9 novembre e l’appello agli studenti, riproposti non da attori ma da professori dell’Università patavina. A chiudere un intervento di Carlo Fumian – docente di Storia Contemporanea – e del Rettore attuale, Giuseppe Zaccaria. «Non volevamo», racconta Carlo Fumian, «proporre agli studenti i soliti interventi sulla figura di Marchesi. Abbiamo pensato che fosse giusto porre l’accento su quello che stava avvenendo in quei giorni. Sulle decisioni irrevocabili che gli studenti erano costretti a prendere . Oggi può sembrarci facile, ma in quei giorni del ’43 chi sceglieva non sapeva cosa sarebbe successo, non poteva prevedere come sarebbe finita. L’appello di Marchesi è ancora oggi un testo emozionante, di una grande forza, che è giusto far ascoltare ai giovani».
Non per nulla Togliatti sottolineava – nel ricordo – la voce di Marchesi “che dava alle parole una potenza nuova e incideva negli animi”, una voce “precisa, dura, spietata perfino”. Una voce che apre una guerra. «È un caso unico», dice Fumian, «in nessun altro posto l’Università si è posta alla guida della lotta contro il nazismo e il fascismo. Lo raccontiamo attraverso le testimonianze di Bruno Trentin e Maria Carazzolo, che erano nell’Aula Magna il 9 novembre e poi aderirono all’appello. Trentin aveva diciassette anni e teneva un diario. Dopo aver ascoltato Marchesi scrive due sole ultime righe: tempo scaduto. Adesso all’opra».
Bruno Trentin, poi grande sindacalista, non fu l’unico a raccogliere l’appello. Furono molti ad ascoltare Marchesi che li invitava a prendere le armi per aggiungere “al labaro della vostra Università la gloria di una nuova e più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace  del mondo”. (di Nicolò Menniti-Ippolito da “La Nuova Venezia” del 4-12-13)

I particolari della giornata del 5 dicembre all’Università di Padova: http://unipd-centrodirittiumani.it

Il discorso di Concetto Marchesi (e una sua biografia):

3 dicembre 1944: strage di Vo’

Willy Lembcke (al centro)

Finché avvengono cerimonie come quella di stamattina a Vo’, i conti con la seconda guerra mondiale non saranno mai chiusi. Ma i paesi che (come Vo’, suppongo) pensano che prima o poi avranno giustizia, devono rassegnarsi: giustizia non c’è stata e non ci sarà mai. L’Europa Unita non nasce sull’espiazione delle colpe, ma sul loro oblio. Oggi a Vo’ si ricorda l’ultima strage commessa dai tedeschi prima della ritirata, l’impiccagione di tre abitanti del luogo. Da quel che scrive Claudio Ghiotto, le impiccagioni erano la rappresaglia per il ferimento di un soldato tedesco. Ma il soldato tedesco si era ferito da solo, sparandosi a un piede per non andare al fronte. I Superuomini ariani avevano capito che i Sottouomini russi stavano vincendo e sarebbero arrivati a Berlino. Era la fine. Il presentimento della fine produce nell’uomo uno di questi due effetti: o aumenta la paura e lo rabbonisce, o aumenta la furia e lo imbestialisce. I tedeschi erano imbestialiti. Uno storico di Este ha studiato queste vicende, Francesco Selmin: è partito con l’ipotesi che le vittime di questa guarnigione tedesca fossero una trentina, e ha concluso che furono un centinaio e mezzo. I condannati all’impiccagione venivano appesi a un albero, o alla spalletta di un ponte. Oppure venivano impiccati con la tecnica dello strappo: in piedi su un camion, col laccio al collo, il camion avanzava, un tedesco lanciava la corda ad avvinghiarsi a un ramo, e l’uomo era morto. Qui a Vo’ usarono ambedue i metodi. Che utilità politica o militare aveva questa crudeltà? Nessuna. Il comandante tedesco era un capitano, si chiamava Willy Lembcke, uomo di una stupidità totale. Mirava alla carriera. Era della Wehrmacht, ma quando ottenne da Berlino il compito di svolgere servizi di polizia, come se fosse delle SS, gongolò. Aveva piantato la sede del comando a Este, nel Collegio Vescovile, e riservava alcune stanze del palazzo alle torture. Conosco abitanti di Este, Montagnana, Castelbaldo, Merlara, Urbana e dintorni a cui ha fatto cavare le unghie, o li ha folgorati con le scosse elettriche. Un quarto di secolo fa è tornato a Este un suo soldato, a dire: «Io ero buono, vi avvisavo quando partivano le retate, sono vostro amico». L’incontro si svolgeva nel Collegio Vescovile, e uno degli ascoltatori si alzò in piedi: «Voi mi avete cavato le unghie, nella stanza di là». Io avevo scritto un articolo, proprio quel giorno, su questo giornale, rievocando le vicende. E il tedesco mi puntò contro il dito: «Questo scrittore senza onore non sa che Hitler diceva: o morite colpiti al petto dal nemico, o morite colpiti alla schiena da me come traditori». No, io sapevo benissimo queste cose, ma se hai fatto quel che hai fatto, stai nascosto in Germania, non venire nel Veneto per essere festeggiato. Poco dopo questa feroce e stupida strage di Vo’, i tedeschi scapparono. Nel mio primo romanzo, “Il quinto stato”, racconto quelle vicende, mitizzandole come meritano. Il libro vien tradotto anche in Germania (“Der fünfte Stand”), insieme con i primi capitoli del secondo, “La vita . eterna” (“Das ewige Leben”). Nei libri, al comandante tedesco mantengo il suo nome vero, Lembcke. Era ancora vivo. Un pool di magistrati tedeschi aveva delle prove dei suoi crimini, allegano anche i due romanzi, e cominciano il processo. Il comandante è nel suo salotto, con la pila delle prove su un tavolo, ha un infarto, lo portano in clinica, e muore. Potenza della scrittura? Gli ho spaccato il cuore? Al quotidiano francese “Libération” confessavo di sentire il mio primo libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della mia gente». Patetica illusione. La letteratura non ha alcun potere. Anni dopo, una docente dell’università di Potsdam adotta come testo per le sue lezioni “Das ewige Leben”, i suoi studenti leggono le stragi sui Colli Euganei, e vogliono saperne di più, girano per le biblioteche dell’esercito e dei tribunali, ma non trovano niente. Perché, mi spiega la docente Isabella Von Tretskow (von Tretskow era il nome di un generale congiurato contro Hitler e perciò impiccato, Isabella è una sua nipote? Continua la guerra contro il Führer, usando gli impiccati del Veneto Euganeo?), una legge tedesca stabilisce che se un cittadino tedesco è accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima della condanna, ha diritto che tutte le prove vengano distrutte. Amici di Vo’, non avrete mai giustizia per i crimini che avete patito. Perché in Germania non ne esiste traccia. Tra le altre fregature, l’Europa ci infligge anche questa. E non è la più piccola. (Ferdinando Camon da “La Nuova Venezia” del 4-12-12)

Una ricerca di Claudio Ghiotto sulla strage di Vo’

Raimondo Ricci, morto l’ex partigiano che testimoniò contro il “boia di Genova”

E’ morto a Genova Raimondo Ricci, ex senatore del Pci ed ex presidente nazionale dell’Associazione partigiani d’Italia. Aveva 93 anni ed era da tempo malato. Nel settembre del 1943 scelse di fare il partigiano: venne arrestato dopo pochi mesi e dopo essere stato recluso in vari carceri liguri venne deportato a Mauthausen, da dove venne poi liberato il 5 maggio del 1945; aveva 24 anni. Da avvocato, difese i sindacalisti e i militanti comunisti. Presidente provinciale dell’Anpi nel 1969, è stato parlamentare per tre legislature dal 1976 ed ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sulla P2. E’ stato anche membro del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti e presidente dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza.
Nel giugno del 2002 è stato testimone ad Amburgo contro Sigfried Engel, comandante della polizia tedesca a Genova e responsabile delle stragi naziste in Liguria: per questo il comandante nazista fu condannato all’ergastolo in contumacia per la strage della Benedicta (147 vittime ), per la strage del Turchino (59), per la strage di Portofino (22) nel 1944 e per la Strage di Cravasco, vicino Campomorone (20 morti) nel 1945.
Messaggi di cordoglio sono arrivati da molti esponenti della sinistra genovese e ligure. “Con lui scompare un altro dei simboli di ciò che fu la drammatica lotta per la conquista della libertà e della democrazia” ha dichiarato il ministro dell’Ambiente (spezzino) Andrea Orlando. “Per costruire il futuro bisogna saper partire dal pilastro della Resistenza – ha aggiunto il sottosegretario alla Difesa Roberta Pinotti – E sino agli ultimi anni della sua vita, Raimondo Ricci non ha mai smesso di farsi pilastro della memoria, di testimoniare, anche tra i giovani, il significato prezioso dell’antifascismo, della democrazia e della libertà conquistati dai nostri partigiani”. Per Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd, ”Raimondo è stata una grande personalità della Resistenza, dell’antifascismo, della sinistra e della nostra Repubblica. Appassionato difensore della nostra Costituzione ha dedicato la sua vita, con passione, a far vivere i valori della libertà e della democrazia. Per questo lo voglio salutare con un grande abbraccio e trasmettere il mio cordoglio alla sua famiglia”. ”‘Il fascismo non è stata un’opinione, ma una drammatica realtà da non dimenticare’”. Un forte abbraccio a Raimondo Ricci”: così Nichi Vendola su twitter, citando le sue parole, rende l’omaggio di Sinistra Ecologia Libertà al comandante partigiano, ricordando “il suo impegno di allora per ridare dignità e libertà agli italiani e il suo più recente impegno a difesa della Costituzione”. (da “Il Fatto”)

24 novembre: Giornata nazionale del tesseramento

DIFENDIAMO LA COSTITUZIONE

 

 Nella Giornata del Tesseramento per  aderire all’Anpi in nome dell’Antifascismo e della Resistenza:

Anpi Mirano    Anpi Spinea     Anpi Noale    Anpi S.Maria di Sala     “Rete per La Costituzione”

Ti invitano

DOMENICA 24 NOVEMBRE 2013

in Piazza Martiri di Mirano ore 10.30

a sottoscrivere la petizione

da inviare ai deputati del Parlamento

per dire no

agli attuali tentativi di riforma costituzionale

Appuntamento con la Costituzione: No alla modifica dell’art. 138.

“Riguardo alle riforme costituzionali si vuole togliere l’ultima parola ai cittadini su una norma di garanzia costituzionale (art. 138 della Costituzione).” Mobilitiamoci insieme per impedirlo. L’ANPI invita tutti il 24 novembre, nelle piazze d’Italia, per un appuntamento con la Costituzione e propone a tutte le altre Associazioni un presidio da tenere nei pressi della Camera dei Deputati nei giorni immediatamente precedenti al voto (attorno al 10-11 dicembre). La Democrazia è anche vera informazione.

Appello per la democrazia della nostra Costituzione

Nel Paese è sempre più forte e vasta la preoccupazione per il lavoro; le condizioni di vita sempre più precarie per masse di cittadini; l’erosione dei diritti fondamentali come il diritto alla salute, all’istruzione, all’ambiente, è in continua progressione.
Nonostante ciò, la maggioranza di Governo ha deciso di impegnarsi per cambiare la Costituzione, addirittura nel suo impianto istituzionale e senza alcun dibattito nel Paese. La Costituzione, nata dalla resistenza e dallo spirito antifascista, si può modificare, ma senza stravolgere gli equilibri della democrazia parlamentare, già parzialmente rappresentativa a causa di una legge elettorale, ora sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale.
Di più ci preoccupa l’introduzione di un presidenzialismo o semi-presidenzialismo diretto, più volte reclamato dalla destra, che toglierebbe al Presidente della Repubblica il suo ruolo di super partes esercitato nel Consiglio Superiore della Magistratura o come Capo delle Forze Armate. Questa concentrazione di poteri l’abbiamo già vissuta in passato, con tragiche conseguenze. Non è con un presidente votato “a maggioranza” che si esce dalla crisi ma con una nuova visione morale della cosa pubblica, e una più equa politica dei redditi e del lavoro.
Per questo si chiede che l’attuale maggioranza, piuttosto che impegnarsi per stravolgere la Costituzione, approvi subito i provvedimenti necessari a garantire una svolta per l’occupazione, le politiche del lavoro e una nuova legge elettorale coerente con i principi costituzionali.
Per questo abbiamo deciso di impegnarci per la difesa della nostra Costituzione fonte dei diritti di eguaglianza, di solidarietà e di pace.

Diego Collovini  Presidente Comitato Prov.Anpi di Venezia
Tullio Cacco        Segretario Comitato Prov. Anpi di Venezia

Bruno Fanciullacci (13 novembre 1919 – 17 luglio 1944)

Bruno Fanciullacci

Bruno Fanciullacci è forse il partigiano più odiato dai fascisti di ieri e di oggi, nonché dai revisionisti d’accatto. Odiato, ingiuriato, diffamato. Quello di Fanciullacci è un nome rovente, scomodo, quando appare semina discordia. Pochi personaggi sono lontani quanto lui dall’idea posticcia e fetente di una “concordia nazionale”. Fanciullacci divide e dividerà sempre. Perché?
Perché Fanciullacci è… “l’assassino di Giovanni Gentile”. O almeno, è il più famoso componente del commando gappista che attese il filosofo sotto casa e lo uccise a colpi d’arma da fuoco. Questa è la sua storia raccontata dal collettivo Wu Ming in un articolo apparso il 6/5/2010 sul sito http://www.wumingfoundation.com:

A Firenze è un “largo”, a Pontassieve una “via”. Largo e Via Bruno Fanciullacci. Due targhe inaugurate di recente (2002 e 2003), tra polemiche politiche e querele incrociate. Fanciullacci fu un partigiano gappista, medaglia d’oro della Resistenza. Alcuni lo ritengono un killer (“l’assassino di Giovanni Gentile”), altri – noi compresi – un eroe. Pochi sinora lo hanno considerato un filosofo. E’ tempo di omaggiarlo in quella veste.
Sì, filosofo. Una nomea da riscattare, dopo anni di utilizzi arrischiati tipo “il filosofo Rocco Buttiglione”, di torpore accademico e convegni trascorsi a spaccare in sedici il pelo trovato nell’uovo. La filosofia, la prassi del filosofare, deve tornare nelle strade, le strade dove stanziava Socrate, dove viveva come un clochard Diogene detto “il Cane”. Non c’è bisogno di imitare quest’ultimo e dormire in una botte: è sufficiente abbattere gli steccati tra quel che si dice e quel che si fa. Vivere eticamente.
Bruno studia da autodidatta, nel fatiscente carcere di Castelfranco Emilia. Mentre sopporta angherie e privazioni e si rovina per sempre la salute, discute di economia, storia e ingiustizie secolari. Tra i detenuti circolano, ben occultati o mandati a memoria, testi di Marx, Engels, Labriola. Sono gli anni dal 1938 al 1942, Bruno è appena un ragazzo, arrestato ancora minorenne per aver distribuito stampa clandestina antifascista. Aveva un buon lavoro in un hotel di Firenze, poteva farsi i cazzi suoi nel comfort della “zona grigia”, e invece ha scelto l’opposizione al regime. Da bambino, nel pistoiese, ha visto le camicie nere angariare suo padre e costringerlo a trasferirsi con tutta la famiglia. L’antifascismo è una scelta di vita.
Gli hanno dato sette anni. Mentre è in prigione scoppia la guerra. Sulla scia di Hitler, il Duce dichiara guerra a mezzo mondo. La catastrofe incombe, le SS dilagano in tutta Europa finché non trovano uno scoglio insuperabile: la resistenza di Stalingrado. Il corpo d’armata tedesco s’impantana e viene annichilito. L’esercito italiano è allo sbando. Parte la controffensiva sovietica e “dentro le prigioni l’aria brucia come se / cantasse il coro dell’Armata Rossa”. Anche a Castelfranco.
Gli scontano la condanna, Bruno torna libero alla fine del ’42, elettrizzato dal vento dell’Est. Sconfiggere tedeschi e fascisti è possibile. Diventa operaio alla FIAT di Firenze, giusto in tempo per i grandi scioperi contro la guerra del marzo 1943.
A luglio cade il fascismo e il Re fa arrestare Mussolini. Ne prende il posto Badoglio, che però annuncia: “La guerra continua”. Velleità stroncata poco dopo: l’8 settembre c’è l’Armistizio. L’Italia si spacca: a sud il governo ufficiale, al centro-nord l’occupazione tedesca e lo stato-fantoccio di Salò. I partigiani si organizzano, comincia la guerriglia.
Tra gli intellettuali che scelgono Salò, il più importante è Giovanni Gentile, fondatore della dottrina filosofica detta “Attualismo”, colonna portante dell’edificio culturale fascista. Super-barone accademico, presidente di tutto il presiedibile, in vent’anni di dittatura Gentile è divenuto potente e ricchissimo. Hitler in persona gli ha conferito l’Ordine dell’Aquila Germanica.
Dopo l’8 Settembre, il filosofo getta il suo peso nella propaganda repubblichina e filo-nazi. Nel dicembre 1943, dietro la cortina fumogena di strumentali appelli alla “concordia possibile” (sotto l’egida di Hitler, ça va sans dire), esorta senza mezzi termini alla lotta contro “sobillatori e traditori, venduti o in buona fede”, chiarendo che bisogna stroncare le “forme delittuose di antifascismo e di irriducibile e di pericolosa opposizione al movimento nazionale”. Aggiunge: “sulla necessità della lotta giusta e necessaria io sono d’accordo con chi non vuole compromessi”.
Il 19 marzo 1944 Gentile incensa il Führer in un discorso all’Accademia d’Italia, dichiara che la Patria è stata “ritrovata attraverso Mussolini e aiutata a rialzarsi dal Condottiero della grande Germania, che quest’Italia aspettava al suo fianco, dove era il suo posto per il suo onore e per il suo destino, accomunata nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale” etc. etc.
In questi giorni non si parla a vanvera, la realtà morde il culo e ogni frase è una chiamata alle armi. Gentile fa il naïf, si raccomanda che nella repressione non si commettano “arbitrii” o “sciocchezze”, ma intanto fornisce la giustificazione di un “grande uomo di cultura” a rastrellamenti e deportazioni, alla fucilazione di giovani renitenti alla leva, alla logica che porta all’eccidio delle Ardeatine e a stragi come quelle di Sant’Anna di Stazzema, Padule di Fucecchio, Marzabotto. Dal ’39, del resto, Gentile non ha detto nulla contro leggi razziali e persecuzione degli ebrei.
“Non sono questi i filosofi di cui abbiamo bisogno”, pensa più di un osservatore. Citiamo da una trasmissione di Radio Londra:

“Gentile ha difeso il liberalismo in nome della dialettica; poi ha difeso il terrore fascista in nome della dialettica, e ora difende la tolleranza sempre in nome della dialettica. E’ noto il filosofema del manganello a cui Gentile legò il suo nome [*] quando i manganelli spaccavano il cranio degli operai disarmati e che ha avuto il suo epilogo nelle esecuzioni di Verona. [Ora Gentile] ricorda ai fascisti che non bisogna ricorrere alla violenza e che c’è una solidarietà umana superiore ai conflitti […] la dialettica in mano a Gentile è diventata una ciabatta per qualunque piede, o, come disse Croce, un grimaldello da ladro che apre tutte le porte. Per questo il popolo italiano e in particolare la classe lavoratrice non accettano niente dalla bocca del signor Gentile… Qualunque cosa dicano, questi Pulcinella della filosofia hanno sempre torto”.

Intanto Bruno sta riflettendo: vuole combattere, ma dal carcere è uscito debole e malaticcio, non può salire in montagna, marciare in mezzo a neve e fango, dormire all’addiaccio… Decisione fatidica: resta a Firenze. Diviene uno dei membri più attivi e coraggiosi dei GAP, temuti guerriglieri urbani, specializzati in imboscate e sabotaggi.
Da quel momento, corre a cavallo di un razzo: con altri gappisti travestiti da guardie, fa evadere 17 partigiane dal carcere di Santa Verdiana; penetra nella sede del sindacato fascista e brucia le schede sugli scioperanti dell’anno prima, impedendone la deportazione in Germania; arrestato e torturato dalla famigerata “Banda Carità”, riesce a scappare e torna in azione.
In carcere, anni prima, Antonio Gramsci ha commentato una frase di Gentile: “Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l’azione”. Per Gramsci, è solo “mascheratura” di un opportunismo: l’azione che per Gentile afferma la filosofia è quella del regime fascista, a cui il filosofo delega il “fare”.
Su chi abbia deciso l’agguato esistono varie teorie, delle quali ci frega poco. E’ ancora controverso se sia stato Fanciullacci ad attendere Gentile sotto casa. Ha davvero importanza? Bruno per noi è un filosofo a prescindere. Quella che comunque lo oppone a Gentile è una disputa filosofica, ed è lui a vincerla, perché non delega il “fare” ad altri, non agisce da “governato” bensì da uomo libero, e non in un singolo atto, ma in tutta la sua vita. E’ lui, non il barone che l’ha scritta, a trovare la verità della frase commentata da Gramsci: la filosofia si afferma con l’azione.
I due ragazzi tengono dei libri sottobraccio. Sembrano studenti e, a modo loro, lo sono. L’autore del “Manifesto degli intellettuali fascisti” arriva in auto, scarrozzato dal suo chauffeur. Bruno gli fa un cenno, Gentile abbassa il finestrino… E’ il 15 aprile 1944.
Nel fronte antifascista vi sono polemiche, qualcuno prende le distanze (ma dal modus operandi, non dalla condanna morale) e la controversia proseguirà fino ai giorni nostri.
Bruno, però, non potrà prendervi parte. Il 15 luglio lo arrestano ancora. Di nuovo torturato, per non tradire i suoi compagni tenta una fuga che è anche suicidio: si getta ammanettato da una finestra al primo piano, i suoi aguzzini gli sparano, un colpo alla testa lo uccide. E’ il 17 luglio. A novembre avrebbe compiuto venticinque anni.

Un libro sui gappisti fiorentini

Con i soldi sottratti all’Anpi finanziate le missioni di “pace” all’estero

I soldi destinati all’Anpi serviranno a finanziare le missioni militari dell’Italia all’estero. E chissà se i partigiani saranno d’accordo. A deciderlo è stata ieri la commissione Bilancio della Camera durante l’esame del decreto sulle missioni in cui sono impegnati i soldati italiani fuori dai confini. A conti fatti i membri della commissione si sono accorti che mancavano circa 300 mila euro per garantire la copertura del decreto ma soprattutto l’operatività dei militari fino al 31 dicembre, data di scadenza del provvedimento. Nessun problema. Nello testo, infatti, sono inseriti anche i finanziamenti destinati a 17 associazioni combattentistiche, tra le quali l’Anpi per la quale era stato previsto 1 milione di euro. Anziché tagliare i costi riducendo l’impegno militare, la maggioranza delle larghe intese ha pensato bene di attingere a piene mani proprio lì, tra i fondi destinati all’associazione dei partigiani per trovare i soldi necessari a coprire il buco. Detto fatto. Giusto il tempo di di rifare i conti e il contributo destinato all’Anpi è stato ridotto a 634 mila euro, mentre 366 mila euro sono passati dalle casse (virtuali) dell’associazione partigiani a quelle delle missioni, con il consenso di tutti i partiti – Pd in testa – e con l’unico voto contrario del M5S.
Il provvedimento prevede un finanziamento complessivo di 730 milioni fino alla fine dell’anno, dei quali 260 solo per la missione in Afghanistan. Nonostante le promesse fatte dal ministro degli Esteri Emma Bonino, che aveva garantito un maggior impegno finanziario italiano per i profughi della Siria, alla cooperazione internazionale restano solo le briciole: appena il 2% del totale, pari a soli 23 milioni di euro.
Una volta messi in ordine i conti, il decreto è dunque arrivato in aula, dove però adesso rischia di rimanere impantanato a lungo. Sel e M5S hanno infatti annunciato di volersi opporre al testo con l’ostruzionismo, cominciato già ieri sera durante la discussione. Il movimento di Grillo ha presentato 12 emendamenti che chiede al governo di fare propri. Tra le richieste più importanti c’è il ritiro di almeno il 10% del personale militare attualmente impegnato in Afghanistan (250 soldati su un totale di 2.900). «Non si tratta di una richiesta assurda», spiega il deputato 5 Stelle Manlio Di Stefano. «Nell’emendamento si chiede di concordare con la Nato una riduzione degli incarichi operativi degli italiani in Afghanistan in modo da permettere il parziale ritiro. Messa in questi termini la proposta è stata giudicata fattibile anche dal relatore, il generale Rossi. Senza contare che , oltre a dare un forte segnale politico, si risparmierebbero anche molti soldi in un momento di crisi». Il M5S chiede anche l’approvazione di un ordine del giorno che metta fine all’impiego di soldati italiani in missioni antipirateria a bordo delle navi mercantili.
Più radicale la scelta di Sel, che al governo chiede invece di spacchettare il decreto in modo da poter votare contro la sola missione in Afghanistan, decretandone così la fine nel caso il voto passasse, e a parte tutto il resto.«Non accettiamo mediazioni come quella proposta dal M5S di ritirare solo il 10% dei soldati – spiega Giulio Marcon -. Quella missione è sbagliata e va ritirata completamente».

Carlo Lania (da Il Manifesto del 7 novembre 2013)