Hannah Arendt

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“La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”

Per comprendere meglio la personalità e le idee di Hannah Arendt vi proponiamo la visione di questa conferenza tenuta da Olivia Guaraldo,  ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Verona:

Genocidio nei balcani

JSNingrNon c’è stato soltanto l’Olocausto degli ebrei. Il primo genocidio dell’età contemporanea è stato quello degli armeni, un milione e 200 mila persone (o forse due milioni) massacrate dagli ottomani. Poi ci sono stati i crimini staliniani, molti milioni di morti, che sono soltanto una parte della tragedia sovietica. Infine, c’è stato l’Olocausto dei serbi ortodossi, ancora oggi praticamente sconosciuto, in cui sono stati eliminati 700 mila persone(o forse un milione).
I carnefici di quest’ultima mattanza – avvenuta durante gli anni del secondo conflitto mondiale e organizzata sul modello nazista, con deportazioni e campi di concentramento e di sterminio -, furono gli ustascia (letteralmente, ribelli) croati, guidati dall’ultranazionalista Ante Pavelić. Il quale si autoproclamò Poglavnik (Duce) dello Stato indipendente di Croazia (in realtà, un satellite della Germania e dell’Italia) e attuò una politica di pulizia etnica nei confronti di “tutti gli altri”, con particolare riguardo, naturalmente, verso zingari, ebrei e gli stessi croati che si opponevano agli ustascia, ma con speciale cura per i serbi. Non tanto e non solo perché costoro erano il nerbo della resistenza guidata dal comunista Tito, il maresciallo della futura Jugoslavia postbellica, ma soprattutto perché i serbi erano cristiani ortodossi e dunque, per un cattolico integralista fanatico come Pavelić, dovevano essere i primi della lista. E così, se agli ebrei toccò di essere “marchiati” con la stella gialla a sei punte, la stella di Davide, cucita sul bavero della giacca, i serbi furono contrassegnati da una fascia infilata al braccio con una lettera P di colore blu. P come pravoslavni, cioè ortodossi.
I lager degli ustascia, fatti costruire alle stesse vittime, erano disseminati per tutta la Croazia, la Bosnia e l’Erzegovina, ma poiché il loro programma era quello di “eliminare quanti più Serbi possibile nel minor tempo possibile”, vennero utilizzati anche i lager che i tedeschi avevano costruito nel resto della ex Jugoslavia.
Soltanto negli ultimi anni però, e non dappertutto, si è cominciato a ricordare le vittime con testimonianze visibili, come per esempio il piccolo monastero alla memoria costruito a Herzeg Novi, in Montenegro, oppure la scultura che dal 2007 sorge a Banja Luka, Republika Srpska di Bosnia Erzegovina, significativamente chiamata Pioppo dell’Orrore. Fino ad allora, fatta eccezione per il monumento del lager principale di Jasenovac (un enorme Fiore di Pietra dello scultore Bogdan Bogdanović, inaugurato nel 1966), il genocidio serbo aveva trovato accoglienza soltanto nell’Holocaust Memorial Museum di Washington e, alcuni anni dopo, all’Holocaust Memorial Park di New York. Al di là dell’Oceano. Mentre è da questa parte, a un centinaio di chilometri da Zagabria, che si trova Jasenovac, centro e luogo simbolo dello sterminio (vi sarebbero state eliminate circa 80 mila persone), e tuttavia un nome che non dice niente se non lo si accompagna con la stolida definizione di “Auschwitz dei Balcani”, quasi che, per essere riconosciuto, il male di casa a Jasenovac avesse bisogno di essere paragonato a quello di Auschwitz.
Jasenovac era un “complesso” di otto campi di sterminio – cinque più grandi e tre più piccoli -, con le camere di tortura e i boia, i quali impiccavano, accoltellavano, strangolavano, bruciavano vivi i deportati. O più “pietosamente” li abbattevano con un colpo alla nuca, senza far differenza tra adulti e bambini, donne e vecchi, ma facendo grande attenzione a eliminare i serbi in quanto serbi, come pure gli ebrei e i rom in quanto tali. Il tutto, spesso e volentieri, davanti a una cinepresa.
Oggi Jasenovac è un luogo silenzioso, impregnato di una tristezza che richiede solo contemplazione. Anche l’acqua dei quattro fiumi che la circondano (Sava, Trebež, Una e Struga) e le fronde degli alberi che colorano la pianura sembrano non voler fare troppo rumore qui, dove persino le SS tedesche inorridivano di fronte agli “eccessi criminali” degli ustascia, con i quali i militari italiani si scontrarono diverse volte per frenarne la furia sanguinaria. Ma c’era poco da fare, quando nel lager di Jasenovac a dispensare la morte con le proprie mani era addirittura un frate francescano, Miroslav Filipovic-Majstorovic, soprannominato Fra’ Satana (espulso dall’ordine appena vennero scoperti i suoi crimini), che guidò il campo dal 1942 e fu giustiziato nel 1945.
Ne nacque anche uno scontro fra la neonata Repubblica federale di Jugoslavia e il Vaticano. La prima accusò l’arcivescovo di Zagabria, Alojzije Stepinac, di aver coperto e favorito gli ustascia e per questo lo condannò a 16 anni di carcere. La Chiesa di Roma rispose prima con papa Pio XII, che nel 1953 nominò Stepinac cardinale, e poi con papa Giovanni Paolo II, che nel 1998 lo beatificò. Per chi lo accusa, Stepinac è stato un cinico favoreggiatore di Pavelić che non avrebbe esitato financo a praticare la conversione forzata di massa dei serbi. Per chi lo difende, tutto questo sarebbe una montatura, come dimostrerebbero le testimonianze di perseguitati serbi, rom ed ebrei che invece Stepinac avrebbe salvato anche attraverso lo stratagemma della “conversione”.
Resta il fatto che il dolore e la rabbia per Jasenovac sono poi esplosi durante la guerra degli anni Novanta, che ha sancito la dissoluzione della Jugoslavia. Un dolore e una rabbia che ancora covano sotto la cenere, se è bastata, nei mesi scorsi, una intervista di Bob Dylan al giornale Rolling Stone per scatenare una polemica feroce. “Se avete il Ku Klux Klan nel sangue, i neri possono sentirlo, anche oggi. Così come gli ebrei possono sentire il sangue nazista, e i serbi il sangue croato”, ha detto Bob Dylan. Parole che gli sono costate l’incriminazione per ingiurie e istigazione all’odio in seguito a una denuncia presentata dalla Comunità dei croati francesi. Solo che appare difficile immaginare un Bob Dylan razzista. Meravigliose canzoni a parte, il vero nome di Dylan è Robert Allen Zimmerman e i suoi nonni, ebrei ucraini, fuggirono in America per scampare alle persecuzioni antisemite della Russia zarista.
Carlo Vulpio (La Lettura, Corriere della Sera, 19 gennaio 2014)

18 gennaio 1944: insurrezione del ghetto di Varsavia

ghettoIl 18 gennaio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia occupata dai nazisti reagirono per la prima volta alle le violenze e le deportazioni, che riuscirono a impedire resistendo ai tedeschi. Il comandante delle SS ordinò la distruzione del Ghetto, i cui abitanti organizzarono una rivolta che tenne in scacco i nazisti per un mese tra aprile e maggio, prima che il Ghetto fosse raso al suolo e la rivolta si concludesse con l’uccisione di oltre diecimila ebrei e la deportazione di circa 50 mila.   Questa la storia della rivolta:

Dal settembre 1942 al gennaio 1943 i tedeschi cercarono di rassicurare i superstiti abitanti del ghetto. Non ci sarebbero state altre deportazioni verso Est, non c’era più nulla da temere. Tuttavia qualcosa nel meccanismo di autoinganno favorito dalle menzogne tedesche si era spezzato. Il ricordo dei familiari, delle mogli, dei mariti, dei genitori, dei figli trasportati verso la morte era troppo vivo negli scampati. Nessuno più si faceva illusioni o credeva nelle menzogne naziste.
Nessuno più credeva che sarebbe uscito vivo dal ghetto. Se si doveva morire questa volta si doveva però morire con onore, combattendo. Anche chi non cercò di aggregarsi alla resistenza militare aveva maturato la convinzione che occorresse combattere.
I combattenti della ZOB non elaborarono alcun piano di ritirata. A differenza del movimento di resistenza della città di Vilna, l’FPO che aveva pianificato la rivolta per fuggire dal ghetto, la ZOB voleva morire con il Ghetto di Varsavia difendendolo metro per metro.
Verso il 15 gennaio i nazisti compirono delle retate di uomini nella parte “ariana” di Varsavia. Una gigantesca caccia al polacco in età di lavoro venne scatenata dalla Gestapo. Nel Ghetto non ci si attendeva una azione nazista dopo queste operazioni di rastrellamento.
Contrariamente alle previsioni alle 6 del mattino del 18 gennaio 1943 una colonna tedesca entrò nel ghetto con il proposito di rastrellare gli abitanti. La tecnica adottata era quella consueta: accerchiamento degli stabili e intimazione ad uscirne. L’operazione colse completamente di sorpresa la ZOB: non c’era il tempo di riunire il comando e prendere delle decisioni.
Anielewicz si assunse la responsabilità dell’azione e con una dozzina di uomini armati di pistola si introdusse nella colonna di prigionieri che stavano marciando verso la Umschlagplatz dove i treni aspettavano. Ad un cenno convenuto, quando la colonna arrivò all’angolo tra via Zamenhof e via Niska, ogni combattente cominciò a scaricare la propria pistola sul tedesco più vicino. Contemporaneamente Yitzack Zuckermann attirò un gruppo di nazisti in un appartamento di via Zamenhof ferendone diversi.
L’attacco colse completamente di sorpresa i nazisti. Diversi rimasero sul terreno e gli uomini della ZOB si impossessarono delle loro armi. Quando altre SS accorsero in aiuto dei loro commilitoni gli uomini della ZOB fecero l’errore di combattere allo scoperto per le vie del Ghetto. Fu un grave errore: numerosi rimasero uccisi non potendo far fronte al numero e all’armamento dei nazisti.
Nonostante questo errore tattico l’effetto politico dell’azione fu enorme. Le centinaia di prigionieri già incolonnati si dispersero sottraendosi alla deportazione. Gli uomini della ZOB dimostrarono che non solo si poteva resistere ma che si potevano uccidere anche gli uomini della “razza superiore”.
I nazisti continuarono l’operazione sino al 22 gennaio continuamente disturbati dagli attacchi della ZOB che questa volta cambiò tattica attaccando e scomparendo.
Grazie alla resistenza armata della ZOB le SS riuscirono a deportare soltanto 650 persone e ad ucciderne sul posto 1.171 che erano state catturate. Considerando che l’operazione mirava almeno al dimezzamento degli ebrei del Ghetto il successo della resistenza appare evidente.
Quel che i difensori della ZOB non sapevano era che l’operazione cominciata il 18 gennaio non mirava al totale svuotamento del ghetto. Durante i primi giorni del gennaio 1943 l’automobile blindata di Heinrich Himmler percorse le strade del Ghetto per una visita che lo stesso Reichsführer volle compiere per rendersi conto personalmente della situazione. Dopo questa “ricognizione” Himmler domandò quanti ebrei rimanevano ancora nel Ghetto. Gli si disse che si stimavano circa quarantamila residenti.
Al suo ritorno a Berlino Himmler scrisse una lettera al capo delle SS e della polizia di sicurezza Krüger ordinando l’immediata deportazione di almeno ottomila ebrei verso i campi di sterminio e di altri sedicimila nelle fabbriche di munizioni di Lublino.
Sammern-Frankenegg con l’operazione del 18 gennaio stava obbedendo ad un ordine che proveniva direttamente da Berlino: rimuovere ventiquattromila ebrei dal Ghetto. I seicentocinquanta ebrei catturati era tutto ciò che era riuscito a fare.
La notizia dell’insuccesso venne ritrasmessa a Berlino. (http://www.olokaustos.org/geo/ghetti/varsavia/warsaw01.htm)

17 gennaio 2014: commemorazione dei 7 partigiani uccisi al cimitero di Mirano

17gennaioNell’ottobre del 1944 una pattuglia della Brigata Volga, comandata da Oreste Licori, catturò il tenente delle SS italiane Vasco Mingori e, forse per uno scambio di prigionieri andato male, l’ufficiale venne ucciso nell’accampamento della “Luneo”. Elda Gallo, sorella del segretario del fascio di S. Maria di Sala fu catturata e giustiziata come spia nell’accampamento della “Volga”.
A Mirano il comandante delle Brigate nere Mario Zagari, grazie alla segnalazione di una collaborazionista, poi giustiziata dai partigiani della “Luneo”, arrestò Oreste Licori mentre faceva visita alla madre. Il giovane venne fucilato il 1° novembre 1944. Seguirono numerosi arresti tra i partigiani della “Luneo” grazie alle rivelazioni di una spia che si era introdotta nella formazione. Sei giovani furono torturati a morte nella notte tra il 10 e l’11 dicembre. I cadaveri vennero gettati ed esposti per tutto il giorno nella piazza del paese, i loro nomi sono: Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor e Giulio Vescovo; un settimo giovane Mosè Bovo fu trucidato nell’aia di casa davanti ai genitori.
Il 5 gennaio del ’45 fu riesumato il cadavere della SS italiana in zona Luneo. I tedeschi, in relazione alla morte dell’ufficiale e all’esecuzione delle due donne, chiesero dieci condanne a morte tra la trentina di partigiani reclusi nella casa del fascio. Fu istituito un processo farsa che si concluse con la condanna a morte di dieci partigiani, di cui tre ebbero accolta la domanda di grazia. Il 17 gennaio furono fucilati presso il cimitero di Mirano Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni).

Per commemorare i partigiani uccisi, venerdì 17 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano (VE) verrà presentato il libro di Gianni Giannoccolo “Resistenza: guerra civile o guerra giusta?”. Sarà presente l’autore. Introduzione di Alessandra Kersevan, Elisa Lolli leggerà brani del libro.

GIANNOCCOLO

Addio ad Arnoldo Foà

imagesAddio ad Arnoldo Foà. L’attore, nato a Ferrara, avrebbe compiuto 98 anni il 24 gennaio 1916. La sua carriera ha coperto quasi un secolo di teatro, cinema e tv, ma anche di libri, poesia e pittura e di insegnamento ai giovani del Centro Sperimentale di Cinematografia. L’artista si è spento a Roma. Il direttore di Rai1, Giancarlo Leone, lo ha ricordato su Twitter: “Chi si ricorda di Arnoldo Foà nell’Isola del Tesoro?”, evocando la partecipazione dell’attore allo sceneggiato televisivo diretto da Anton Giulio Majano e trasmesso dalla Rai nel 1959.
Quando la Casa del Cinema di Roma aveva organizzato la festa per il suo 95° compleanno l’artista, accanto ad Anna non aveva rinunciato a lanciare qualche battuta volutamente ruvida, di quelle che hanno nutrito la sua leggenda di uomo intrattabile: ”Ma siete tutti venuti qui per me, davvero? Ma allora siete tutti cretini!”.
Nella sua “Autobiografia di un artista burbero” pubblicata due anni fa da Sellerio l’attore confessava candidamente di ”aver sempre desiderato di essere amato; non riverito, encomiato, rispettato; amato nel senso di vedere il sorriso sul volto di chi mi guarda, il sorriso che si accende sul volto degli amici e degli sconosciuti”.
Il decano del teatro italiano è apparso sulle tavole dei teatri e sullo schermo in tutte le età e in tutti i contesti: da quando subì le leggi razziali in quanto ebreo, a quando, in veste di annunciatore di Radio Bari annunciò la fine della guerra; dai film d’avventura degli anni Cinquanta, alla popolarità televisiva della stagione d’oro degli sceneggiati di matrice letteraria (un titolo fra cento: ‘Capitan Fracassa’) alle collaborazioni di prestigio, con Orson Welles, Toto’ o Giorgio Strehler.
Foà ha collaborato anche con Luchino Visconti, Luigi Squarzina, Luca Ronconi. È stato anche mettendo in scena spettacoli di prosa – da Aritofane a Pirandello – e di lirica. Nella sua carriera ha raccolto successi anche come doppiatore e restano indimenticabili le sue dizioni poetiche della Divina Commedia di Dante, delle opere di Lucrezio, Carducci, Leopardi, Neruda, García Lorca. (da “Il Fatto” dell’11/1/14)

Arnoldo Foà legge l’epigrafe di Calamandrei al comandante Kesserling:

Cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo”

pietre inciampoDomenica 12 gennaio alle ore 11.00 in Campo del Ghetto Novo, Venezia ci sarà la cerimonia per la deposizione delle “Pietre d’Inciampo” (Stolpersteine) in memoria dei cittadini e cittadine veneziani deportati nei campi di sterminio nazisti, con l’artista tedesco Gunter Demnig autore delle Pietre.
Il percorso della posa delle dodici Pietre d’Inciampo inizierà nel Campo drio la Chiesa, adiacente Campo SS. Apostoli (Cannaregio 4470), alle ore 9.00 per poi proseguire con la posa delle altre Pietre; invitiamo tutti a partecipare fin dall’inizio alla manifestazione e seguire l’intero percorso della posa per rendere omaggio, simbolicamente, a tutti coloro che hanno sofferto prima la deportazione e poi la morte nei campi di sterminio nazisti.
http://iveser.it/index.php?option=com_content&task=view&id=1076&Itemid=13

 

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno

“Radiosa Aurora” ricorda la sua Resistenza fra Venezia e Belluno: Intervista con Mario Bernardo, classe 1919, uno dei protagonisti della Resistenza, in particolare nel Bellunese ma anche a Venezie e nel Trentino orientale. La sua esperienza in proposito è narrata nel volume “Il momento buono” del 1969.

Di origini veneziane, classe 1919, Mario Bernardo è stato fra i protagonisti della Resistenza nelle vicine montagne bellunesi, come comandante delle formazioni garibaldine nelle quali erano inquadrate anche le due giovanissime martiri del Tesino, Clorinda Menguzzato «Veglia», seviziata e poi fucilata dai nazisti (nell’ottobre 1944, a Castello), e la sua amica Ancilla Marighetto «Ora», freddata con un colpo alla testa dopo essere finita nelle mani di una pattuglia del Corpo di sicurezza Trentino, Cst (nel febbraio 1945 al passo Broccon). Mario Bernardo, che dopo la guerra è diventato una figura di primo piano del mondo del cinema (direttore della fotografia per molti grandi maestri nonché regista a sua volta), era ufficiale alpino di stanza in Alto Adige quando arrivò l’8 settembre. Riuscì con alcuni commilitoni a sfuggire ai nazisti, supportati da forze locali, e riparò in una casa di montagna che la famiglia (padre veneziano, madre bellunese) aveva a Bieno, nel Tesino (dove Radiosa vive tuttora). Qui animò un primo tentativo di dar vita alla guerriglia ma non c’erano le condizioni per un successo e quindi si aggregò alle forze garibaldine del Bellunese. Ebbe ruoli di comando dapprima nella brigata Gramsci sulle Vette Feltrine, dove nacque l’operazione che condusse al varo del battaglione Gherlenda in Tesino, e poi con la divisione Belluno proprio sui monti che sovrastano il capoluogo della vicina provincia dolomitica. Radiosa Aurora si distinse in numerose azioni e, data la sua competenza specifica, diede un contributo importante alle azioni armate, specie in relazione all’utilizzo dell’artiglieria e degli esplosivi. Nel settembre 1944 riuscì con alcuni compagni a mettersi miracolosamente in salvo durante il tragico rastrellamento sul monte Grappa, quando ingenti reparti nazifascisti circondarono il massiccio e massacrarono anche civili in un’operazione che rappresentò un colpo durissimo per la Resistenza (più di 500 morti e 400 deportati).  Dopo la Liberazione, Bernardo fu inviato a Trento per guidare la polizia partigiana, ma in breve tempo prese atto della impossibilità di procedere realmente nei riguardi dei numerosi e zelanti collaborazionisti. Una delusione che indusse amaramente Radiosa Aurora a lasciare l’incarico anzitempo.

Questa la registrazione audio dell’intervista di Zenone Sovilla (Bellunopop.it): http://www.bellunopop.it/bellunopodcast/?p=episode&name=2012-04-11_o_voci-10-4-2012.mp3

Roma 4 gennaio 1944: 292 “indesiderabili” vengono deportati in Germania

Ultimo biglietto di Valrigo Mariani scritto nel viaggio fra Dachau e Mauthausen

Questa e’ la storia di un gruppo di uomini, detenuti nel carcere di Roma, che furono prelevati la mattina del 4 gennaio 1944 ed avviati alla Stazione di Roma Tiburtina per essere deportati. Uomini che non avevano commesso alcun reato. Iniziarono un lungo viaggio di nove giorni, attraverso l’Italia e la Germania, con una sosta nel Lager di Dachau, che si concluse nel Campo di Concentramento di Mauthausen, in Austria, il 13 gennaio 1944.

Al KZ Mauthausen, `l’inferno dei vivi`, furono immatricolati solo 257 uomini del gruppo uscito da Regina Coeli.
Dal mattinale del 5 Gennaio 1944, inviato dalla Questura di Roma al Comando di Forze di Polizia e alla Direzione Generale Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno, si legge:
‘Alle ore 20,40 di ieri dallo Scalo Tiburtino e’ partito treno numero 64155 diretto a Innsbruck con a bordo n. 292 individui, rastrellati tra elementi indesiderabili, i quali, ripartiti in dieci vetture, sono stati muniti di viveri per sette giorni. Il treno sara’ scortato fino al Brennero da 20 Agenti di Pubblica Sicurezza ed a destinazione da un Maresciallo e 4 militari della Polizia Germanica. Durante le ultime 24 ore sono stati rastrellati dalla locale Questura, a scopo preventivo, n. 162 persone ‘.
Facciamo un passo indietro. Alcuni anni fa, nel 2004, feci un viaggio con destinazione Auschwitz e Birkenau in Polonia. Passando per l’Austria mi ricordai di un fratello di mio nonno, Valrigo Mariani, nato a Roma nel 1907, di cui avevo sempre sentito parlare in famiglia. Egli fu arrestato, poi deportato da Roma nel 1944 per morire in un campo di concentramento, forse a Mauthausen, dove quindi decisi di recarmi. Giunto al Campo, consultai il data-base del Museo ed ebbi la certezza della data di arrivo e della data della sua morte. Tornato in Italia iniziai una ricerca sfibrante, ancora in corso. Passai dalla estenuante burocrazia nazista alle poche documentazioni note in Italia. Scoprii l’esistenza dell’ANED (Associazione Nazionale Ex Deportati nei lager nazisti) e conobbi un ex deportato, Italo Tibaldi, che aveva lavorato, dal 1945, per circa 50 anni, alla ricostruzione dei trasporti, alle liste nominative e alle matricole di circa 8.000 persone deportate dall’Italia al Campo di Concentramento di Mauthausen. Inoltre, appresi che il 4 gennaio 1944 dal Carcere Giudiziario di Regina Coeli venne composto un trasporto di detenuti che dalla Stazione Tiburtina parti’ per il Nord diretto prima a Dachau e poi a Mauthausen. Il numero dei deportati variava fra i 257 (elenchi matricolari ricostruiti da Italo Tibaldi) ed i 480 (fonte Gino Valenzano, reduce da quel trasporto).
Partii dalla sicura lista dei 257 immatricolati, fra cui compariva il nominativo del fratello di mio nonno, e la confrontai con i registri matricola di Regina Coeli. Registri salvati miracolosamente dalla Dott.ssa Assunta Borzacchiello e dai suoi collaboratori, custoditi con difficolta’ nel Museo Criminologico di Roma. Mi confrontai con un periodo della storia di Roma e della fortissima resistenza al nazi-fascismo dopo l’8 settembre 1943 . Nei registri matricola di Regina Coeli ebbi la conferma ed il riscontro di soli 239 nomi dei 257 della lista ricostruita da Tibaldi. Trovai, pero’, altri nomi di detenuti usciti e partiti la mattina del 4 gennaio 1944, ma mai immatricolati a Mauthausen e percio’ non conosciuti.
Dalla ricerca sui diciotto nominativi non trovati nelle matricole di Regina Coeli, capii che erano persone detenute al terzo braccio del carcere sotto giurisdizione germanica. Molto utili furono i due libri scritti da Gino Valenzano, nipote del Generale Badoglio, che descriveva l’arresto suo e del fratello avvenuto a Roma ad opera della polizia tedesca, la loro detenzione al terzo braccio e la loro deportazione con tutti gli altri il 4 gennaio 1944.
Controllando i 18 nomi mancanti mi imbattei in una serie di particolari interessanti. Erano quasi tutti minori di diciotto anni, il piu’ piccolo aveva quattordici anni. Il nominativo di Fausto Iannotti, in particolare, risultava coinvolto casualmente nella prima strage nazista a Roma avvenuta nell’ottobre del 1943, dopo l’assalto della popolazione affamata al Forte di Pietralata.
Dal controllo della lista matricolare di Mauthausen, ricostruita da Tibaldi, Fausto Iannotti risultava deportato e deceduto nel sottocampo di Ebensee. Qualcosa non tornava.
Bisognava ricontrollare le fonti e gli avvenimenti. Verificai le testimonianze del ritrovamento della fossa comune a Casal dei Pazzi, oggi all’interno del muro di cinta della Casa circondariale di Rebibbia `Nuovo Complesso`. Ritrovai i registri dell’ obitorio di Roma del giugno 1945 e verificai il ritrovamento delle salme. Incontrai, infine, il fratello maggiore di Fausto Iannotti. Arrivai ad una certezza, ma senza riscontri perche’ mancavano le matricole di ingresso al terzo braccio tedesco di Regina Coeli. La ricerca si trovo’ ad un punto fermo.
La polizia nazista, molto attenta nello schedare e scrivere ogni cosa, probabilmente era stata scrupolosa anche nella distruzione della sua unica documentazione di immatricolazione del braccio? Qualcuno pero’ mi disse che le forze naziste, fra il 3 ed il 4 giugno 1944, lasciarono Roma improvvisamente senza preavviso e notevolmente impreparate. A Regina Coeli il 3 giugno ’44 erano state sostituite le normali forze di polizia germanica con i componenti del battaglione `Bozen` di origine altoatesina; quando questi arrivarono trovarono il terzo braccio ed una grossa parte del carcere vuoti. L’evento, per me sconosciuto, mi fece supporre che la polizia nazista, dopo aver gestito per nove mesi il quarto braccio prima ed il terzo braccio poi, non avesse avuto il tempo di distruggere la documentazione inerente le note matricolari, di ingresso ed uscita dal carcere. Ebbi ragione e fortuna.
In seguito, altre ricerche bibliografiche mi portarono al Museo della Liberazione di via Tasso dove in un incontro con l’attuale presidente, Prof. Parisella ed il suo staff, ebbi la conferma del ritrovamento effettuato solo nell’autunno 2005, di numerose matricole, circa 2500, del braccio tedesco di Regina Coeli. Il quadro delle fonti documentali era finalmente completo e si sono potuti effettuare i riscontri necessari. Va ricordato che il ‘trasporto’ di coloro i quali uscirono nella giornata del 4 gennaio 1944 da Regina Coeli era composto da persone semplici, antifascisti di tutto l’arco della resistenza al nazi-fascismo di quei mesi a Roma. Giovani renitenti alla chiamata alle armi della Repubblica Sociale Italiana, soldati sbandati dopo l’8 settembre 1943 e reduci da vari fronti di guerra. Settanta, ottanta antifascisti noti all’ Ovra ed inseriti nel Casellario Politico Centrale. Un fondatore del Partito Comunista Italiano e due nipoti del Generale Badoglio. Dodici uomini di religione ebraica ed un maestro francese in fuga dalla sua nazione ed arrestato solo il giorno prima della deportazione.
Dei 257 uomini immatricolati, sopravvissero alla liberazione dei Campi ai quali furono destinati, solo una sessantina e non tutti riuscirono a ritornare in patria. Molti di loro morirono di fame e di stenti in una Europa gia’ libera dal nazifascismo dopo 17 mesi di sofferenze.
Ad oggi, oltre a ricostruire la dignita’ dei fatti, resta solo da stabilire cosa e’ accaduto ai 70 uomini prelevati da Regina Coeli, portati alla Stazione Tiburtina, e di cui non si conosce piu’ nulla perche’ mai immatricolati ne’ al KL Dachau e ne’ al KL Mauthausen. Alcune storie cominciano a delinearsi. Di certo vi furono alcuni uomini che fuggirono durante il tragitto, ma rimane il dubbio e l’incertezza di un’eliminazione immediata e senza immatricolazione nel Campo di Mauthausen, per quelle persone ritenute inabili al lavoro coatto. (http://www.deportati4gennaio1944.it)

Il dizionario del partigiano anonimo

porro banda tom“Un uomo ordinato. Il dizionario del Partigiano” di Angelo Del Boca (da “Storie della Resistenza”, Sellerio Editore)

In marzo iniziò lo sgelo e poco dopo cominciarono ad affiorare i corpi dei morti. Quasi ogni giorno c’era un contadino che scendeva al comando per segnalare un ritrovamento.
Erano i ragazzi morti negli scontri durante il ripiegamento invernale e che non avevamo fatto in tempo a seppellire; oppure quelli che si erano persi nella tormenta e che il freddo aveva ucciso. La montagna continuava a restituirne e fu necessario costituire una squadra che si occupasse di questa opera di pietà.
Gli oggetti che venivano trovati indosso ai morti finivano al comando, dentro buste o sacchetti: alla fine della guerra avremmo provveduto a spedirli alle famiglie.
In genere erano orologi, catenine d’oro con la medaglia del Cristo o della Vergine, anelli, amuleti, pipe, rasoi, coltelli a serramanico, qualche libro, molte fotografie di mamme e di ragazze.
Trovammo anche un diario, testi di canzoni partigiane, lettere mai spedite, testamenti. Erano documenti, questi, che eravamo costretti a leggere per cercare di identificare i morti. Ma lo facevamo con molta reticenza e con pena, perché spesso, fra le cose private della loro vita, affioravano considerazioni sulla nostralotta, e queste erano spesso ingenue, qualche volta sbagliate, a volte straordinariamente acute, e ciò ci obbligava mentalmente a dividere i morti in buoni e in meno buoni, in consapevoli e in opportunisti ed era proprio ciò che non avremmo voluto fare.
Il documento che più ci sorprese fu una sorta di dizionario, una cinquantina di voci scritte a matita su altrettanti piccoli fogli d’agenda. I fogli, per l’umidità, si erano incollati e se non fossero stati scritti a matita non si sarebbe salvato nulla. Pazientemente asciugammo foglio per foglio e alla fine cominciammo a leggere ciò che segue:

Alba – Quando spunta, può essere troppo tardi.
Alexander (Maresciallo) – Avrebbe voluto, all’inizio del secondo inverno, che fossimo spariti come talpe sottoterra. Non se l’abbia a male se gli abbiamo disobbedito: non c’erano buche a sufficienza.
Auto – Uno ci monta sopra e va finché ha fuso. La montagna è un cimitero di macchine.
Badoglio e Bonomi – Due personaggi, scialbi, che stanno al Sud, con gli americani.
Barba – Molti se la lasciano crescere, ma non sempre perché mancano di lamette. Chi la porta, automaticamente viene chiamato “Barba”. E poiché in un distaccamento sono in parecchi ad averla, uno si chiamerà “Barba I”, l’altro “Barba II”, e così via. Ad alcuni sta bene, gli fa una faccia decisa. Ad altri addolcisce gli occhi. Altri ancora, e sono i più ostinati a tenerla, fanno pensare alle capre.
Cani – Sono un vero guaio, di notte, durante le marce di trasferimento. Il primo a sentirvi dà la sveglia al vicino, e in pochi istanti la valle è tutta un abbaio. I cani dei tedeschi invece non abbaiano. Sono alti, snelli, col pelo corto. Ti inseguono per giornate, come se ti conoscessero, ti odiassero. Cani sono anche chiamati i tedeschi, per quanto si preferisca chiamarli maiali.
Cartucce – Ce ne sono poche e non bisogna sprecarle. In media, un uomo ne porta con sé 40-50, se possiede un fucile, e 120-150, se è dotato di un mitra. Quelli che ne fanno incetta, c’è da giurare che non spareranno mai un colpo.
Casa – Meglio non pensarci. Col tempo, non è poi tanto difficile.
Castagne – Dapprincipio ci sembrava impossibile, poi ci convincemmo: si può vivere soltanto di castagne. Castagne secche per ingannare l’appetito. Castagne bollite per riempire la gola. Castagnaccio per addormentare lo stomaco. Brodo di castagne per riscaldarlo.
Città – Ci stanno “gli altri”. L’hanno fortificata, seminata di cavalli di frisia, tappezzata di proclami e di manifesti insensati. Qualcuno dei nostri c’è entrato, di notte, e gli è parso di essere finito in un labirinto, in una trappola. Eppure buona parte delle persone che l’abitano è con noi.
Comandante – Lo si diventa per meriti, non per titoli di studio. Conosco un mungitore che ha ai suoi ordini un colonnello di Stato Maggiore. Di solito si affermano quando scoprono per la guerriglia un’autentica vocazione. Fanno sempre di testa loro, e raramente sbagliano. Quando sbagliano pagano di persona.
Commissario – È quello che sa tutto, anche se non possiamo sempre giurare che sia il depositario  della verità. Quelli che hanno dubbi vanno da lui. E lui che ci ha detto chi sono Matteotti e  Gramsci i fratelli Rosselli, e perché sono morti.  Perché il fascismo è condannato. Perché noi siamo nel giusto. Perché dobbiamo combatterei.
Comunisti – Sono i più numerosi, e sono inquadrati, nelle Brigate “Garibaldi”.  Gelosi delle loro zone, pretendono il rispetto dei confini e non rispondono agli appelli di aiuto, se non ne intravedono un tornaconto.
Quando ci riescono, disarmano altri reparti con il pretesto che questi non sanno battersi. A volte sono nella ragione, a volte nel torto. Politicamente i loro quadri sono i più preparati. Gli uomini si battono bene e non lo nascondono: domani, finita la guerra, continueranno a battersi per sconvolgere la vecchia struttura dello Stato prefascista e per mutare radicalmente la nostra società. Magari con una rivoluzione.
Divisa  – Non ne esiste una di rigore, perciò sono tutte buone. La più corrente tuttavia è quella composta da un giubbotto, calzoni da sciatore e un berretto a visiera, come quello degli alpini tedeschi; forse perché si è rivelata la più pratica. Ma la fantasia e la vanità suggeriscono le divise più stravaganti. C’è un tizio – appare sempre a cavallo – che indossa un lungo mantello di pelle rossa foderato all’interno di pelliccia bianca; sotto ha un abito attillatissimo. Quelli che portano un fazzoletto rosso attorno al capo, alla pirata, sono migliaia. Altri portano cappelli da cow-boy, passamontagna, caschi coloniali, colbacchi, bustine, baschi,fez. Alcuni indossano la divisa della Wehrmacht, elmettoe croci di ferro comprese, e debbono farsi riconoscereper non essere presi a fucilate.
Domani – Si spera sempre che sia migliore. Che non ci siano da fare cinquanta chilometri per spostarsi da una valle all’altra. Che i tedeschi non sguinzaglino i loro cani. Che il freddo non sia troppo rigido. Che non manchi da mangiare. Che gli aerei degli alleati non ci scambino per gli “altri” (come è già avvenuto). Che non ci capiti di pensare a casa. Che sia finalmente l’ultimo giorno di questa storia.
Fossi – Non avremmo mai sospettato, qualche anno fa, che avremmo trascorso parte della nostra giornata nei fossi. Ci si nasconde prima di attaccare i convogli che transitano sulle strade; si balza dall’uno all’altro mentre ci si ritira in pianura; in mancanza di almi ripari, lo si sceglie per passarci la notte. Nelle ore di attesa si fa conoscenza coi topi, le serpi e ogni sorta di vermi; si scoprono fiori e arbusti che non si sapeva che esistessero; ci si avvede che la natura continua a fiorire, nonostante l’odio che ci circonda. Poi, per fortuna, si torna in montagna, dove viviamo nel cielo. Soltanto ora possiamo capire (e compiangere) i nostri padri che hanno fatto tutta loro guerra nelle trincee.
Fucile – Tutti preferiscono il mitra al fucile. Poi, però, finiscono per portare l’uno e l’altro. Un buon fucile colpisce a cinquecento metri, il mitra è inutile a cento. Quelli che abbiamo sono molto vecchi; l’Enfield inglese ha fatto la guera contro i boeri; il nostro ’91 ha sparato ad Adua e a Tripoli. Il più moderno è il Mauser, ma ne possediamo pochi.
Fuga – La nostra non è una guerra classica, non è una guerra di posizione e neppure di prestigio. Perciò la fuga vi è ammessa, ne è anzi la prima regola. Se si vuole, la nostra è una continua fuga, ma nello stesso tempo è un continuo attacco. La fuga perciò si spoglia del suo significato vile. Spesso la fuga  più immediata permette di aggirare l’attaccante e di colpirlo alle spalle mentre crede ancora di tendere un agguato. Perciò non la chiamiamo fuga questa manovre, né ritirata, ma sganciamento o ripiegamento. Il comandante rotto alla guerriglia lo si riconosce nell’attimo in cui deve decidere se accettare il combattimento o ordinare lo sganciamento. In pochi attimi egli deve valutare un’infinità di cose. Queste nuove regole, ovviamente non piacciono ai militari di carriera. Un colonnello suggeriva qualche tempo fa di costruire su alcune colline bunker e camminamenti. Gli hanno riso in faccia.
Grano (campo di) – Non è altrettanto sicuro, per starvi nascosti, del campo di granturco, ma c’è stato un giorno, indimenticabile, in cui ci siamo rivoltati sulla schiena e abbiamo  osservato le spighe, i fiordalisi, i papaveri che tremavano alla brezza estiva e ci siamo accorti che continuavamo a vivere. Di rimando, che spettacolo triste il tappeto di cenere che ne resta dopo un incendio!
Graziani (Maresciello) – Un uomo che sta al Nord, coi tedeschi e del quale si racconta  che abbia perso i coglioni in Libia. Così impara a  molestare gli arabi!
Inglesi – Da un anno aspettiamo che sferrino l’offensiva, ma non si decidono mai. A differenza degli americani, lanciano armi vecchissime e nessun genere di conforto. Gli inglesi che sono stati paracadutati nelle nostre zone sono però uomini di coraggio, anche se molto diversi da noi. Essi ci rimproverano soprattutto la passionalità e il dilettantismo. Coi loro “Commandos”, sostengono, possono compiere le stesse azioni spericolate delle nostre “volanti”, ma essi calcolano il rischio, noi no.
Lanci – Avvengono quasi sempre di notte, nel punto concordato per radio con gli Alleati e che viene delimitato da grandi falò. Dopo ogni lancio, si portano in giro le armi piovute dal cielo come abiti nuovi, mentre con la seta dei paracadute si confezionano camicie e fazzoletti dai colori più vistosi. Il più grande lancio l’abbiamo avuto la notte dell’Epifania, ma era troppo tardi, eravamo in rotta e circondati da tutte le parti. Con le lacrime agli occhi abbiamo scavato fosse per nascondere le armi che ormai non ci servivano più.
Letto – La stessa cosa che per le donne; se ne parlamolto: «quando tutto sarà finito mi metto a letto e ci resto per un anno», ma poi non si muore a stare senza. L’importante è trovare il tempo e la calma per buttarsi giù; il posto sufficiente per allungare le gambe; e sopra un tetto che non faccia acqua . Nelle foglie si dorme bene., ma al mattino ci si ritrova sudati e fiacchi; la paglia, dal canto suo, non tiene caldo; è sempre preferibile il fieno. Qualcuno è riuscito ad andare a letto con una donna, questa estate: ma, se ne parla, è per rimpiangere il letto più che la donna.
Matteotti – Uno che è morto mentre noi aprivamo gli occhi sul mondo. Se ne dice un gran bene. Nelle foto che abbiamo visto ha gli occhi dei santi- I più anziani fra noi spesso dicono: «Ai tempi di Marreotti», «l’affare Matteotti». Quante poche cose sappiamo intorno a quel periodo, ma ci resta poco tempo per far domande, per discutere, e poi – ora  che abbiamo aperto gli occhi sugli errori e i crimini del fascismo – diffidiamo un poco di tutte le altre dottrine- Adesso eliminiamo il fascismo, diciamo, poi si vedrà.
Mitra – Abbreviazione di pistola-mitragliatrice. È  una delle parole che identificherà la nostra epoca e la nostra guerriglia in particolare. La più grande ambizionedi una recluta è di buttare via il fucile per un mitra. Ce ne sono di vari tipi, ma il più pratico è lo Sten. Il Beretta è forse più preciso, ma è molto delicato. Quanto al Thompson, è troppo pesante, poi è raro. Serve ai comandanti (come il parabellum russo) quale segno di distinzione. Ha il calibro dodici e un fuoco preciso fino a 4-500 metri. Lo Sten, d contrario, è efficace dentro un raggio di 50-80 metri. E fatto per il corpo a corpo, per l’imboscata- A guardarlo è un catenaccio. Ma non si inceppa mai, anche dopo averlo tenuto sottoterra o nell’acqua. Dicono costi in America meno di un dollaro. Avere un mitra fra le mani non ci si sente più soli; è come se, a sparare, si fosse in dieci. E in fondo è così.
Mongoli – Così la gente chiama i russi che combattono a fianco dei tedeschi, anche se poi non sono affatto mongoli, ma sono soldati sovietici originari dell’Ucraina, del Caucaso, dell’Armenia, del Turkestan.
Forse il primo ad indicarli con questo nome non è stato tanto colpito dai tratti del loro viso, quanto dalla crudeltà delle loro azioni. Più che soldati, infatti, sono predatori, ladri, stupratori, proprio come si dice siano stati i mongoli di Gengis Khan. La loro sorte, d’altronde, è già decisa: essi cadranno sotto i nostri colpi o sotto quelli dei tedeschi, se tenteranno di fuggire, oppure sotto quelli dei russi, se vivranno tanto da tornare in patria. La loro violenza senza limiti è fatta anche dalla consapevolezza di avere i giorni contati.
Montagna – Prima l’identificavamo con l’estate e la villeggiatura, l’inverno e i campi di sci. Era quasi un giocattolo, come il mare. Poi, un giorno, è diventata una scelta. Ed ora è la nostra casa, il nostro letto, il nostro precario rifugio; qualche volta la nostra prigione, la nostra tomba. Altre volte, la più dolce e imprevedibile delle evasioni. Molti giurano che quando tutto sarà finito torneranno per viverci: perché qui hanno ammirato spettacoli e vissuto istanti intraducibili in parole.
Morte – Non se ne parla mai, ma è sempre con noi. Ciascuno si è immaginato la propria, lavorandovi intorno fin dal giorno in cui ha scelto questa parte della barricata. E indispensabile possedere una morte, così come è indispensabile possedere un fucile, un paio di buone scarpe e qualche idea chiara in testa. Sarebbe una sorpresa troppo spiacevole trovarsela dinanzi, all’improvviso, senza essere preparati a riceverla. In ogni caso la si preferisce alle torture e la si augura improvvisa.
Molti portano alla cintura una Sipe (bomba a mano N.d.R.)  per essere certi di poter sfuggire alla prigionia. Ogni mattina riattaccandola alla cintura, uno pensa al ferro che gli dilanierà il ventre, e si abitua a questa fine. A poco a poco, tutti si abituano alla propria morte.
Mussolini – Non se parla che raramente. Lui non viene a sparare perciò non conta. È troppo lontano quasi astratto, perché si possa provare il desiderio di ucciderlo. A parlarne di continuo invece sono i più anziani, quelli che  per un senso o per l’altro, hanno conti aperti con lui. Perché alcuni  lo hanno conosciuto di persona, ed uno gli è stato anche amico quando Mussolini diceva di essere socialista. Essi sono gli unici a figurarsi le possibili morti di Mussolini e se ne hanno a male se noi avanziamo l’ipotesi che egli sfuggirà al castigo e che sarà trasferito in America dentro una gabbia di vetro, come un animale raro. Ai giovani, la sorte di Mussolini non interessa più di quella di Farinacci o di Graziani. Per essi, è come se fosse già morto. Il loro problema è quello di buttar fuori i tedeschi e i loro servitori, e di ripulire il Paese.
Neve – Com’è diversa da quella della nostra infanzia. Nessuno, allora, fabbricando palle di neve, avrebbe sospettato che può portare alla disperazione. Mentre scrivo siamo bloccati in cinque dentro una carbonaia: fuori c’è un metro e mezzo di neve, le piste sono sparite e il più vicino villaggio è a una decina di chilometri. Da due giorni non tocchiamo cibo. Domani dovremo deciderci ad uscire, anche se non avrà cessato di nevicare.
Nome di battaglia – Serve a mascherare la nostra identità e di rimando a tradire il nostro carattere. Esso rivela infatti le nostre ambizioni, o le nostre letture,oppure i limiti della nostra fantasia.
Notte – Ci sono notti brevissime e notti eterne. Quelle passate nei fossi della via Emilia, in attesa di una colonna, con le mani saldate allo Sten non finiscono mai. Le rare in cui puoi dormire durano un amen. «Una notte… ». Ciascuno di noi conserva il ricordo di una notte terribile.
Paga – Una volta, e fu l’ultima, al principio della estate, distribuirono trecento lire a ciascuno di noi. «Chi li manda questi soldi?» uno domandò. Il furiere rispose: «Non so, credo gli americani». Quegli allora ribatté: «Non siamo al servizio degli americani», e restituì i soldi. Alcuni lo imitarono.
Partigiani – Ce ne sono di tutti i tipi: comunisti e cattolici, socialisti e liberali, anarchici e trotzkisti, giellisti e monarchici, leali e opportunisti, coraggiosi e vigliacchi, decisi e attendisti, generosi e scaltri, onesti e ladri, giovani e vecchi, eroi e doppiogiochisti, consapevoli e no, con scarpe e senza scarpe, vestiti come soldati e come pagliacci. Combattono una delle diecimila guerre che l’uomo ha scatenato su questa terra e pensano di essere dalla parte della ragione.
Paura – Chi dice di non averne è un bugiardo. Nessuno di noi può giurare che sarà vivo domani. O anche stasera.
Pianura – Ci andiamo spesso, ma come ladri, di notte. E ormai, abituati come siamo a vedere le cose dall’alto dei monti, abbiamo paura del suo orizzonte limitato e piatto- Un giorno l’attraverseremo con la luce del sole e sarà l’ultimo giorno di guerra.
Pippo – Con questo nome indichiamo l’aereo che vaga tutte le notti e lancia bombe a casaccio, su noi e sugli altri. Il suo non sembra un rumore di motori, ma l’ansito di un mostruoso animale. E fin che il battito delle sue ali non si si affievolisce tratteniamo il respiro.
Politica – I giovani non amano e non sanno farne. I più anziani la preferiscono alle azioni di guerra.
Ponti – In qualche valle non ne è rimasto uno. Li abbiamo fatti saltare tutti: quegli antichi in mattoni, quelli in pietra, quelli in ferro, quelli in cemento armato. Ma a che è servito? I tedeschi gettano un ponte in dieci ore. Quella che avremmo dovuto far saltare è la kommandantur.
Prete – Quello che sta con noi è l’umile e povero parroco di campagna. Gli alti prelati, in città, benedicono i gagliardetti delle “Brigate Nere”.
Raffica – Una parola, come mitra, in cui si concentrano l’odio e la violenza. Una parola di questa guerra. La raffica, per eccellenza, è del mitra ed è breve, esce dalla canna corta senza strappi e qualche volta l’uomo che spara riesce a vedere negli occhi l’altro che insacca i colpi.
Rappresaglia – Un’invenzione degli “altri” che qualche volta siamo costretti ad adottare. Il mongolo Elia, sfuggito ai tedeschi e da noi graziato, ci suggerisce: «Se volete spaventare i tedeschi, decapitate i prigionieri e andate portate le loro teste davanti alle caserme della città » E ride quando nota il nostro imbarazzo, «Voiitaliani  – soggiunge, – siete capaci di uccidere soltantoper gelosia».
Repubblica – Una parola che può significare la parte avversa. Esempio: «Arriva la repubblica». Oppure una straordinaria confusione: «Che repubblica!». Chissà quanti anni occorreranno, da noi, perché riacquisti il suo vero significato.
Repubblichini – Se ne stanno in città, preferibilmente al sicuro, con le scarpe lustre, il ciuffo fuori del berretto. Quando vengono in rastrellamento, si fanno precedere dai tedeschi. Quando le buscano, i tedeschi li tolgono dai guai. Ci sono vari tipi di repubblichini. I vecchi fascisti delle squadracce. Quelli che si ritengono disonorati dall’armistizio. I filotedeschi. Quelli che spasimano per le cause perse. Quelli che vanno sempre controcorrente. Quelli che desiderano semplicemente un’arma per sparare (ce ne sono molti anche dalla nostra parte). Quelli che sperano di arricchire. Quelli che hanno risposto ai bandi e che ora non trovano il coraggio di scappare . I razzisti. Gli spavaldi. Gli isterici. Gli stupidi. Quelli della “Muti” e delle “Brigate Nere” sono i più arrabbiati (e anche i più vigliacchi); quelli della “Decima” credono di appartenere ad un corpo scelto e amano dare spettacolo (aiutati dalle loro divise da operetta); agli alpini della “Monterosa” e ai bersaglieri dell’”Italia” hanno insegnato a combattere in Germania, in modo perfetto, ma la loro idea fissa è quella di scappare. Chi li ha battezzati “repubblichini” meriterebbe una statua.
Non c’è espressione, infatti, che meglio dipinga la loro pochezza  e viltà e goffaggine
Scarpe – E il nostro dramma; si consumano in un amen. Chiediamo scusai ai morti se li spogliamo ma noi dobbiamo continuare a camminare e loro hanno finito.
Silenzio – C’è il silenzio della notte, che fa pensare all’inganno. C’è il silenzio dell’alba, che intristisce. Ma il più crudele è il silenzio che precede la raffica nell’imboscata.
Sipe – Quando scoppia, lancia intorno ottantaquattro schegge tutte uguali ottantaquattro cubetti di ghisa. Un maggiore della missione inglese, per non cadere prigioniero, si è buttato sopra una Sipe dopo aver tolto la sicurezza. Quasi tutti, adesso, appesa alla cinghia portano una Sipe.
Spia –  Nel Paese in cui viviamo, diviso dalla guerra civile, tutti lo possono essere. Un tale che veniva da noi a mendicare pane, ha venduto per duecento lire la vita di quindici nostri compagni. Per questo siamo spietati con le spie, anche a rischio di cadere in errori.
Tedeschi – Adesso, noi che ce li siamo trovati di fronte più volte, sappiamo che non sono invincibili.  Ma le reclute si lasciano ancora impressionare da quella corta giacchetta, dalla forma dell’elmo, dagli stivaletti, dal modo di correre all’assalto. È consigliabile catturarne alcuni e tenerli all’accampamento, impiegandoli nei lavori più umili. Le reclute finiscono così per accorgersi che sono esseri umani, coraggiosi e vili come gli uomini di tutto il mondo.
Vittorio Emanuele – Era piccolo col fascismo. Senza fascismo non è cresciuto di un pollice.
Volante – Non si sa chi abbia dato questo nome al piccolo gruppo di uomini che, agendo di sorpresa, attacca gli automezzi sulle grandi vie di comunicazione, fa saltare depositi e binari e, se occorre per uno scambio di prigionieri, preleva anche un generale tedesco dal suo stesso ufficio. Non è improbabile che a coniare questo termine sia stato uno che ha partecipato alla guerra di Spagna. È impressionante il bagaglio di esperienze, di nomi, di immagini, di tradizioni che ci viene da quella sfortunata guerra per la libertà.

Con questa voce terminava il dizionario, scritto con la stessa calligrafia rotonda, educata; si sarebbe detto di un insegnante elementare. Lo esaminammo in tutti gli angoli, ma non portava firma. Mancavano anche, nel testo, riferimenti personali che potessero aiutarci ad identificarne l’autore. L’unico era contenuto nella voce “Never”, che faceva cenno, in termini asciutti ma sufficientemente drammatici, alla sosta forzata nella carbonaia. Ma era un’indicazione troppo vaga. Fra il dicembre e il febbraio a moltissimi era accaduto di rimanere bloccati dalla neve per uno o più giorni; e c’erano parecchie centinaia di carbonaie scavate nella montagna.
Constatammo, oltretutto, che questo riferimento doveva essere considerato come un’indicazione involontaria, con ogni probabilità l’effetto di un momentaneo turbamento. Soltanto nell’avvertire che si stava avvicinando la fine l’anonimo partigiano si era abbandonato a narrare i prima persona. Ma a questa debolezza aveva subito rimediato con un gesto che può essere soltanto suggerito dalla serenità e da una certa abitudine all’ordine. Trovammo infatti il foglietto con la voce “Neve” rimesso diligentemente al suo posto, fra la voce “Mussolini” e quella che riguarda la “Notte”.

Forza nuova a Venezia …. Gli antifascisti dell’ANPI cantano Bella Ciao!

Care amiche e amici,

oggi FN è approdata a Venezia per una manifestazione che l’ANPI 7 MARTIRI non poteva ammettere.
Il prefetto ne ha circoscritto la presenza caricandoli subito su un battello che li ha portati al Tronchetto. Bene.
Noi antifascisti dell’Anpi, nel breve tratto che hanno percorso sul piazzale della Stazione Ferroviaria, li abbiamo accolti con Bella Ciao, abbiamo urlato loro il nostro disappunto sulla loro presenza nella nostra città.
Mario Bonifacio “Bill”, dal Tronchetto è arrivato a piedi fino alla Stazione e poi, nonostante le richieste della Polizia, è rimasto lì davanti, mentre sfilavano dietro il cordone della Polizia. Mario si è mosso da casa a Mestre, ha preso l’autobus e, nonostante il freddo, è rimasto lì con noi a sostenere il nostro rifiuto ad essere indifferenti, perché questo ci hanno insegnato lui e i suoi compagni partigiani.
Perché fu l’indifferenza della gente ad alimentare l’arroganza di Mussolini e dei fascisti 70anni fa.
Perché fu l’indifferenza ad essere complice dei nazifascisti.
E noi non dimentichiamo ma facciamo tesoro della memoria perchè non si ripetano gli errori del passato.
Il momento è pesante e noi dobbiamo far sentire la nostra voce.
Questo è un breve filmato su quanto è accaduto:

http://youtu.be/41HrcnZk3Ls

Dal video noterete che i fascisti sono scesi proprio al binario 8, dove c’è la colonna commemorativa, e urlano la loro cattiveria proprio vicino ai nomi dei nostri martiri per la libertà: quasi fossero lì ancora a vigilare sulla nostra libertà che però siamo noi a dover proteggere, loro fecero già la loro parte col sacrificio della vita 70anni fa!
Ecco, tutto ciò per una riflessione che volevo condividere con tutti voi ….
grazie dell’attenzione

Viva la Costituzione nata dalla Resistenza!

Enrica Berti Anpi 7 Martiri Venezia