Venerdì 13 dicembre 2013 ore 20.45 presso la Sala conferenze di Villa Errera si terrà l’incontro:
Tag: ANPI
All’Università di Padova rivive il discorso di Concetto Marchesi
Quando Concetto Marchesi morì, nel 1957, e il parlamento italiano si fermò per commemorarlo, tutti gli intervenuti, da Togliatti a Bettiol, centrarono il loro intervento su due episodi: straordinari, pur all’interno di una vita straordinaria. Domani questi due episodi rivivranno concretamente, a settanta anni di distanza, negli stessi luoghi in cui si svolsero. Tutto comincia il 9 novembre del 1943 e finisce il 5 dicembre dello stesso anno. Padova è appena entrata a far parte della Repubblica di Salò. Concetto Marchesi, grande latinista, è il nuovo rettore dell’Università, nominato da Badoglio e lasciato in carica dal nuovo governo mussoliniano. È l’inaugurazione dell’anno accademico, Marchesi tiene un discorso che, pur non esplicitamente, suona all’orecchio di chi ascolta come un alto richiamo a valori di libertà, di giustizia che sono contrapposti a quelli dello stato nazifascista.
Marchesi parla dopo aver fatto cacciare dall’aula studenti in divisa della milizia fascista e parla davanti al nuovo ministro dell’Educazione Nazionale nominato da Mussolini, Carlo Alberto Biggini. Un caso unico, una sfida intollerabile per fascisti come Alessandro Pavolini, che ne vuole a tutti i costi la testa, non solo metaforicamente. Ma mentre il fascismo prende le sue decisioni Marchesi rimane al suo posto, quasi per un mese, anche contro l’opinione del Partito Comunista di cui era membro, perché vuole difendere gli studenti e i professori dell’Università. Il 1 dicembre però le cose precipitano, Marchesi è costretto alla clandestinità, ma fa ancora in tempo a lanciare un appello agli studenti, che viene distribuito di mano in mano il 5 dicembre: “Una generazione di uomini ha distrutto la vostra giovinezza e la vostra Patria…, non lasciate che l’oppressore disponga ancora della vostra vita, fate risorgere i vostri battaglioni, liberate l’Italia dalla servitù e dalla ignominia”. È la prima esplicita chiamata alle armi per la Resistenza italiana. Per i settantanni di questi avvenimenti, l’Università di Padova ha pensato a qualcosa di nuovo e di diverso. Non la commemorazione, non il ricordo, ma la riproposta teatralizzata di quegli eventi. Alle 10.30 di giovedì 5 dicembre, nell’Aula Magna del Bo rivivranno il discorso inaugurale del 9 novembre e l’appello agli studenti, riproposti non da attori ma da professori dell’Università patavina. A chiudere un intervento di Carlo Fumian – docente di Storia Contemporanea – e del Rettore attuale, Giuseppe Zaccaria. «Non volevamo», racconta Carlo Fumian, «proporre agli studenti i soliti interventi sulla figura di Marchesi. Abbiamo pensato che fosse giusto porre l’accento su quello che stava avvenendo in quei giorni. Sulle decisioni irrevocabili che gli studenti erano costretti a prendere . Oggi può sembrarci facile, ma in quei giorni del ’43 chi sceglieva non sapeva cosa sarebbe successo, non poteva prevedere come sarebbe finita. L’appello di Marchesi è ancora oggi un testo emozionante, di una grande forza, che è giusto far ascoltare ai giovani».
Non per nulla Togliatti sottolineava – nel ricordo – la voce di Marchesi “che dava alle parole una potenza nuova e incideva negli animi”, una voce “precisa, dura, spietata perfino”. Una voce che apre una guerra. «È un caso unico», dice Fumian, «in nessun altro posto l’Università si è posta alla guida della lotta contro il nazismo e il fascismo. Lo raccontiamo attraverso le testimonianze di Bruno Trentin e Maria Carazzolo, che erano nell’Aula Magna il 9 novembre e poi aderirono all’appello. Trentin aveva diciassette anni e teneva un diario. Dopo aver ascoltato Marchesi scrive due sole ultime righe: tempo scaduto. Adesso all’opra».
Bruno Trentin, poi grande sindacalista, non fu l’unico a raccogliere l’appello. Furono molti ad ascoltare Marchesi che li invitava a prendere le armi per aggiungere “al labaro della vostra Università la gloria di una nuova e più grande decorazione in questa battaglia suprema per la giustizia e per la pace del mondo”. (di Nicolò Menniti-Ippolito da “La Nuova Venezia” del 4-12-13)
I particolari della giornata del 5 dicembre all’Università di Padova: http://unipd-centrodirittiumani.it
Il discorso di Concetto Marchesi (e una sua biografia):
3 dicembre 1944: strage di Vo’
Finché avvengono cerimonie come quella di stamattina a Vo’, i conti con la seconda guerra mondiale non saranno mai chiusi. Ma i paesi che (come Vo’, suppongo) pensano che prima o poi avranno giustizia, devono rassegnarsi: giustizia non c’è stata e non ci sarà mai. L’Europa Unita non nasce sull’espiazione delle colpe, ma sul loro oblio. Oggi a Vo’ si ricorda l’ultima strage commessa dai tedeschi prima della ritirata, l’impiccagione di tre abitanti del luogo. Da quel che scrive Claudio Ghiotto, le impiccagioni erano la rappresaglia per il ferimento di un soldato tedesco. Ma il soldato tedesco si era ferito da solo, sparandosi a un piede per non andare al fronte. I Superuomini ariani avevano capito che i Sottouomini russi stavano vincendo e sarebbero arrivati a Berlino. Era la fine. Il presentimento della fine produce nell’uomo uno di questi due effetti: o aumenta la paura e lo rabbonisce, o aumenta la furia e lo imbestialisce. I tedeschi erano imbestialiti. Uno storico di Este ha studiato queste vicende, Francesco Selmin: è partito con l’ipotesi che le vittime di questa guarnigione tedesca fossero una trentina, e ha concluso che furono un centinaio e mezzo. I condannati all’impiccagione venivano appesi a un albero, o alla spalletta di un ponte. Oppure venivano impiccati con la tecnica dello strappo: in piedi su un camion, col laccio al collo, il camion avanzava, un tedesco lanciava la corda ad avvinghiarsi a un ramo, e l’uomo era morto. Qui a Vo’ usarono ambedue i metodi. Che utilità politica o militare aveva questa crudeltà? Nessuna. Il comandante tedesco era un capitano, si chiamava Willy Lembcke, uomo di una stupidità totale. Mirava alla carriera. Era della Wehrmacht, ma quando ottenne da Berlino il compito di svolgere servizi di polizia, come se fosse delle SS, gongolò. Aveva piantato la sede del comando a Este, nel Collegio Vescovile, e riservava alcune stanze del palazzo alle torture. Conosco abitanti di Este, Montagnana, Castelbaldo, Merlara, Urbana e dintorni a cui ha fatto cavare le unghie, o li ha folgorati con le scosse elettriche. Un quarto di secolo fa è tornato a Este un suo soldato, a dire: «Io ero buono, vi avvisavo quando partivano le retate, sono vostro amico». L’incontro si svolgeva nel Collegio Vescovile, e uno degli ascoltatori si alzò in piedi: «Voi mi avete cavato le unghie, nella stanza di là». Io avevo scritto un articolo, proprio quel giorno, su questo giornale, rievocando le vicende. E il tedesco mi puntò contro il dito: «Questo scrittore senza onore non sa che Hitler diceva: o morite colpiti al petto dal nemico, o morite colpiti alla schiena da me come traditori». No, io sapevo benissimo queste cose, ma se hai fatto quel che hai fatto, stai nascosto in Germania, non venire nel Veneto per essere festeggiato. Poco dopo questa feroce e stupida strage di Vo’, i tedeschi scapparono. Nel mio primo romanzo, “Il quinto stato”, racconto quelle vicende, mitizzandole come meritano. Il libro vien tradotto anche in Germania (“Der fünfte Stand”), insieme con i primi capitoli del secondo, “La vita . eterna” (“Das ewige Leben”). Nei libri, al comandante tedesco mantengo il suo nome vero, Lembcke. Era ancora vivo. Un pool di magistrati tedeschi aveva delle prove dei suoi crimini, allegano anche i due romanzi, e cominciano il processo. Il comandante è nel suo salotto, con la pila delle prove su un tavolo, ha un infarto, lo portano in clinica, e muore. Potenza della scrittura? Gli ho spaccato il cuore? Al quotidiano francese “Libération” confessavo di sentire il mio primo libro «come un colpo di fucile, sparato dall’Italia alla Germania, per colpire al cuore un nemico della mia gente». Patetica illusione. La letteratura non ha alcun potere. Anni dopo, una docente dell’università di Potsdam adotta come testo per le sue lezioni “Das ewige Leben”, i suoi studenti leggono le stragi sui Colli Euganei, e vogliono saperne di più, girano per le biblioteche dell’esercito e dei tribunali, ma non trovano niente. Perché, mi spiega la docente Isabella Von Tretskow (von Tretskow era il nome di un generale congiurato contro Hitler e perciò impiccato, Isabella è una sua nipote? Continua la guerra contro il Führer, usando gli impiccati del Veneto Euganeo?), una legge tedesca stabilisce che se un cittadino tedesco è accusato di crimini che possono infangare la sua memoria, ma muore prima della condanna, ha diritto che tutte le prove vengano distrutte. Amici di Vo’, non avrete mai giustizia per i crimini che avete patito. Perché in Germania non ne esiste traccia. Tra le altre fregature, l’Europa ci infligge anche questa. E non è la più piccola. (Ferdinando Camon da “La Nuova Venezia” del 4-12-12)
Una ricerca di Claudio Ghiotto sulla strage di Vo’
Raimondo Ricci, morto l’ex partigiano che testimoniò contro il “boia di Genova”
E’ morto a Genova Raimondo Ricci, ex senatore del Pci ed ex presidente nazionale dell’Associazione partigiani d’Italia. Aveva 93 anni ed era da tempo malato. Nel settembre del 1943 scelse di fare il partigiano: venne arrestato dopo pochi mesi e dopo essere stato recluso in vari carceri liguri venne deportato a Mauthausen, da dove venne poi liberato il 5 maggio del 1945; aveva 24 anni. Da avvocato, difese i sindacalisti e i militanti comunisti. Presidente provinciale dell’Anpi nel 1969, è stato parlamentare per tre legislature dal 1976 ed ha fatto parte della Commissione d’inchiesta sulla P2. E’ stato anche membro del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti e presidente dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza.
Nel giugno del 2002 è stato testimone ad Amburgo contro Sigfried Engel, comandante della polizia tedesca a Genova e responsabile delle stragi naziste in Liguria: per questo il comandante nazista fu condannato all’ergastolo in contumacia per la strage della Benedicta (147 vittime ), per la strage del Turchino (59), per la strage di Portofino (22) nel 1944 e per la Strage di Cravasco, vicino Campomorone (20 morti) nel 1945.
Messaggi di cordoglio sono arrivati da molti esponenti della sinistra genovese e ligure. “Con lui scompare un altro dei simboli di ciò che fu la drammatica lotta per la conquista della libertà e della democrazia” ha dichiarato il ministro dell’Ambiente (spezzino) Andrea Orlando. “Per costruire il futuro bisogna saper partire dal pilastro della Resistenza – ha aggiunto il sottosegretario alla Difesa Roberta Pinotti – E sino agli ultimi anni della sua vita, Raimondo Ricci non ha mai smesso di farsi pilastro della memoria, di testimoniare, anche tra i giovani, il significato prezioso dell’antifascismo, della democrazia e della libertà conquistati dai nostri partigiani”. Per Gianni Cuperlo, candidato alla segreteria del Pd, ”Raimondo è stata una grande personalità della Resistenza, dell’antifascismo, della sinistra e della nostra Repubblica. Appassionato difensore della nostra Costituzione ha dedicato la sua vita, con passione, a far vivere i valori della libertà e della democrazia. Per questo lo voglio salutare con un grande abbraccio e trasmettere il mio cordoglio alla sua famiglia”. ”‘Il fascismo non è stata un’opinione, ma una drammatica realtà da non dimenticare’”. Un forte abbraccio a Raimondo Ricci”: così Nichi Vendola su twitter, citando le sue parole, rende l’omaggio di Sinistra Ecologia Libertà al comandante partigiano, ricordando “il suo impegno di allora per ridare dignità e libertà agli italiani e il suo più recente impegno a difesa della Costituzione”. (da “Il Fatto”)
24 novembre: Giornata nazionale del tesseramento
DIFENDIAMO LA COSTITUZIONE
Nella Giornata del Tesseramento per aderire all’Anpi in nome dell’Antifascismo e della Resistenza:
Anpi Mirano Anpi Spinea Anpi Noale Anpi S.Maria di Sala “Rete per La Costituzione”
Ti invitano
DOMENICA 24 NOVEMBRE 2013
in Piazza Martiri di Mirano ore 10.30
a sottoscrivere la petizione
da inviare ai deputati del Parlamento
per dire no
agli attuali tentativi di riforma costituzionale
Appuntamento con la Costituzione: No alla modifica dell’art. 138.
“Riguardo alle riforme costituzionali si vuole togliere l’ultima parola ai cittadini su una norma di garanzia costituzionale (art. 138 della Costituzione).” Mobilitiamoci insieme per impedirlo. L’ANPI invita tutti il 24 novembre, nelle piazze d’Italia, per un appuntamento con la Costituzione e propone a tutte le altre Associazioni un presidio da tenere nei pressi della Camera dei Deputati nei giorni immediatamente precedenti al voto (attorno al 10-11 dicembre). La Democrazia è anche vera informazione.
Appello per la democrazia della nostra Costituzione
Nel Paese è sempre più forte e vasta la preoccupazione per il lavoro; le condizioni di vita sempre più precarie per masse di cittadini; l’erosione dei diritti fondamentali come il diritto alla salute, all’istruzione, all’ambiente, è in continua progressione.
Nonostante ciò, la maggioranza di Governo ha deciso di impegnarsi per cambiare la Costituzione, addirittura nel suo impianto istituzionale e senza alcun dibattito nel Paese. La Costituzione, nata dalla resistenza e dallo spirito antifascista, si può modificare, ma senza stravolgere gli equilibri della democrazia parlamentare, già parzialmente rappresentativa a causa di una legge elettorale, ora sottoposta al giudizio della Corte Costituzionale.
Di più ci preoccupa l’introduzione di un presidenzialismo o semi-presidenzialismo diretto, più volte reclamato dalla destra, che toglierebbe al Presidente della Repubblica il suo ruolo di super partes esercitato nel Consiglio Superiore della Magistratura o come Capo delle Forze Armate. Questa concentrazione di poteri l’abbiamo già vissuta in passato, con tragiche conseguenze. Non è con un presidente votato “a maggioranza” che si esce dalla crisi ma con una nuova visione morale della cosa pubblica, e una più equa politica dei redditi e del lavoro.
Per questo si chiede che l’attuale maggioranza, piuttosto che impegnarsi per stravolgere la Costituzione, approvi subito i provvedimenti necessari a garantire una svolta per l’occupazione, le politiche del lavoro e una nuova legge elettorale coerente con i principi costituzionali.
Per questo abbiamo deciso di impegnarci per la difesa della nostra Costituzione fonte dei diritti di eguaglianza, di solidarietà e di pace.
Diego Collovini Presidente Comitato Prov.Anpi di Venezia
Tullio Cacco Segretario Comitato Prov. Anpi di Venezia
Bruno Fanciullacci (13 novembre 1919 – 17 luglio 1944)
Bruno Fanciullacci è forse il partigiano più odiato dai fascisti di ieri e di oggi, nonché dai revisionisti d’accatto. Odiato, ingiuriato, diffamato. Quello di Fanciullacci è un nome rovente, scomodo, quando appare semina discordia. Pochi personaggi sono lontani quanto lui dall’idea posticcia e fetente di una “concordia nazionale”. Fanciullacci divide e dividerà sempre. Perché?
Perché Fanciullacci è… “l’assassino di Giovanni Gentile”. O almeno, è il più famoso componente del commando gappista che attese il filosofo sotto casa e lo uccise a colpi d’arma da fuoco. Questa è la sua storia raccontata dal collettivo Wu Ming in un articolo apparso il 6/5/2010 sul sito http://www.wumingfoundation.com:
A Firenze è un “largo”, a Pontassieve una “via”. Largo e Via Bruno Fanciullacci. Due targhe inaugurate di recente (2002 e 2003), tra polemiche politiche e querele incrociate. Fanciullacci fu un partigiano gappista, medaglia d’oro della Resistenza. Alcuni lo ritengono un killer (“l’assassino di Giovanni Gentile”), altri – noi compresi – un eroe. Pochi sinora lo hanno considerato un filosofo. E’ tempo di omaggiarlo in quella veste.
Sì, filosofo. Una nomea da riscattare, dopo anni di utilizzi arrischiati tipo “il filosofo Rocco Buttiglione”, di torpore accademico e convegni trascorsi a spaccare in sedici il pelo trovato nell’uovo. La filosofia, la prassi del filosofare, deve tornare nelle strade, le strade dove stanziava Socrate, dove viveva come un clochard Diogene detto “il Cane”. Non c’è bisogno di imitare quest’ultimo e dormire in una botte: è sufficiente abbattere gli steccati tra quel che si dice e quel che si fa. Vivere eticamente.
Bruno studia da autodidatta, nel fatiscente carcere di Castelfranco Emilia. Mentre sopporta angherie e privazioni e si rovina per sempre la salute, discute di economia, storia e ingiustizie secolari. Tra i detenuti circolano, ben occultati o mandati a memoria, testi di Marx, Engels, Labriola. Sono gli anni dal 1938 al 1942, Bruno è appena un ragazzo, arrestato ancora minorenne per aver distribuito stampa clandestina antifascista. Aveva un buon lavoro in un hotel di Firenze, poteva farsi i cazzi suoi nel comfort della “zona grigia”, e invece ha scelto l’opposizione al regime. Da bambino, nel pistoiese, ha visto le camicie nere angariare suo padre e costringerlo a trasferirsi con tutta la famiglia. L’antifascismo è una scelta di vita.
Gli hanno dato sette anni. Mentre è in prigione scoppia la guerra. Sulla scia di Hitler, il Duce dichiara guerra a mezzo mondo. La catastrofe incombe, le SS dilagano in tutta Europa finché non trovano uno scoglio insuperabile: la resistenza di Stalingrado. Il corpo d’armata tedesco s’impantana e viene annichilito. L’esercito italiano è allo sbando. Parte la controffensiva sovietica e “dentro le prigioni l’aria brucia come se / cantasse il coro dell’Armata Rossa”. Anche a Castelfranco.
Gli scontano la condanna, Bruno torna libero alla fine del ’42, elettrizzato dal vento dell’Est. Sconfiggere tedeschi e fascisti è possibile. Diventa operaio alla FIAT di Firenze, giusto in tempo per i grandi scioperi contro la guerra del marzo 1943.
A luglio cade il fascismo e il Re fa arrestare Mussolini. Ne prende il posto Badoglio, che però annuncia: “La guerra continua”. Velleità stroncata poco dopo: l’8 settembre c’è l’Armistizio. L’Italia si spacca: a sud il governo ufficiale, al centro-nord l’occupazione tedesca e lo stato-fantoccio di Salò. I partigiani si organizzano, comincia la guerriglia.
Tra gli intellettuali che scelgono Salò, il più importante è Giovanni Gentile, fondatore della dottrina filosofica detta “Attualismo”, colonna portante dell’edificio culturale fascista. Super-barone accademico, presidente di tutto il presiedibile, in vent’anni di dittatura Gentile è divenuto potente e ricchissimo. Hitler in persona gli ha conferito l’Ordine dell’Aquila Germanica.
Dopo l’8 Settembre, il filosofo getta il suo peso nella propaganda repubblichina e filo-nazi. Nel dicembre 1943, dietro la cortina fumogena di strumentali appelli alla “concordia possibile” (sotto l’egida di Hitler, ça va sans dire), esorta senza mezzi termini alla lotta contro “sobillatori e traditori, venduti o in buona fede”, chiarendo che bisogna stroncare le “forme delittuose di antifascismo e di irriducibile e di pericolosa opposizione al movimento nazionale”. Aggiunge: “sulla necessità della lotta giusta e necessaria io sono d’accordo con chi non vuole compromessi”.
Il 19 marzo 1944 Gentile incensa il Führer in un discorso all’Accademia d’Italia, dichiara che la Patria è stata “ritrovata attraverso Mussolini e aiutata a rialzarsi dal Condottiero della grande Germania, che quest’Italia aspettava al suo fianco, dove era il suo posto per il suo onore e per il suo destino, accomunata nella battaglia formidabile per la salvezza dell’Europa e della civiltà occidentale” etc. etc.
In questi giorni non si parla a vanvera, la realtà morde il culo e ogni frase è una chiamata alle armi. Gentile fa il naïf, si raccomanda che nella repressione non si commettano “arbitrii” o “sciocchezze”, ma intanto fornisce la giustificazione di un “grande uomo di cultura” a rastrellamenti e deportazioni, alla fucilazione di giovani renitenti alla leva, alla logica che porta all’eccidio delle Ardeatine e a stragi come quelle di Sant’Anna di Stazzema, Padule di Fucecchio, Marzabotto. Dal ’39, del resto, Gentile non ha detto nulla contro leggi razziali e persecuzione degli ebrei.
“Non sono questi i filosofi di cui abbiamo bisogno”, pensa più di un osservatore. Citiamo da una trasmissione di Radio Londra:
“Gentile ha difeso il liberalismo in nome della dialettica; poi ha difeso il terrore fascista in nome della dialettica, e ora difende la tolleranza sempre in nome della dialettica. E’ noto il filosofema del manganello a cui Gentile legò il suo nome [*] quando i manganelli spaccavano il cranio degli operai disarmati e che ha avuto il suo epilogo nelle esecuzioni di Verona. [Ora Gentile] ricorda ai fascisti che non bisogna ricorrere alla violenza e che c’è una solidarietà umana superiore ai conflitti […] la dialettica in mano a Gentile è diventata una ciabatta per qualunque piede, o, come disse Croce, un grimaldello da ladro che apre tutte le porte. Per questo il popolo italiano e in particolare la classe lavoratrice non accettano niente dalla bocca del signor Gentile… Qualunque cosa dicano, questi Pulcinella della filosofia hanno sempre torto”.
Intanto Bruno sta riflettendo: vuole combattere, ma dal carcere è uscito debole e malaticcio, non può salire in montagna, marciare in mezzo a neve e fango, dormire all’addiaccio… Decisione fatidica: resta a Firenze. Diviene uno dei membri più attivi e coraggiosi dei GAP, temuti guerriglieri urbani, specializzati in imboscate e sabotaggi.
Da quel momento, corre a cavallo di un razzo: con altri gappisti travestiti da guardie, fa evadere 17 partigiane dal carcere di Santa Verdiana; penetra nella sede del sindacato fascista e brucia le schede sugli scioperanti dell’anno prima, impedendone la deportazione in Germania; arrestato e torturato dalla famigerata “Banda Carità”, riesce a scappare e torna in azione.
In carcere, anni prima, Antonio Gramsci ha commentato una frase di Gentile: “Filosofia che non si pensa, ma che si fa, e perciò si enuncia ed afferma non con le formule ma con l’azione”. Per Gramsci, è solo “mascheratura” di un opportunismo: l’azione che per Gentile afferma la filosofia è quella del regime fascista, a cui il filosofo delega il “fare”.
Su chi abbia deciso l’agguato esistono varie teorie, delle quali ci frega poco. E’ ancora controverso se sia stato Fanciullacci ad attendere Gentile sotto casa. Ha davvero importanza? Bruno per noi è un filosofo a prescindere. Quella che comunque lo oppone a Gentile è una disputa filosofica, ed è lui a vincerla, perché non delega il “fare” ad altri, non agisce da “governato” bensì da uomo libero, e non in un singolo atto, ma in tutta la sua vita. E’ lui, non il barone che l’ha scritta, a trovare la verità della frase commentata da Gramsci: la filosofia si afferma con l’azione.
I due ragazzi tengono dei libri sottobraccio. Sembrano studenti e, a modo loro, lo sono. L’autore del “Manifesto degli intellettuali fascisti” arriva in auto, scarrozzato dal suo chauffeur. Bruno gli fa un cenno, Gentile abbassa il finestrino… E’ il 15 aprile 1944.
Nel fronte antifascista vi sono polemiche, qualcuno prende le distanze (ma dal modus operandi, non dalla condanna morale) e la controversia proseguirà fino ai giorni nostri.
Bruno, però, non potrà prendervi parte. Il 15 luglio lo arrestano ancora. Di nuovo torturato, per non tradire i suoi compagni tenta una fuga che è anche suicidio: si getta ammanettato da una finestra al primo piano, i suoi aguzzini gli sparano, un colpo alla testa lo uccide. E’ il 17 luglio. A novembre avrebbe compiuto venticinque anni.
Un libro sui gappisti fiorentini
Con i soldi sottratti all’Anpi finanziate le missioni di “pace” all’estero
I soldi destinati all’Anpi serviranno a finanziare le missioni militari dell’Italia all’estero. E chissà se i partigiani saranno d’accordo. A deciderlo è stata ieri la commissione Bilancio della Camera durante l’esame del decreto sulle missioni in cui sono impegnati i soldati italiani fuori dai confini. A conti fatti i membri della commissione si sono accorti che mancavano circa 300 mila euro per garantire la copertura del decreto ma soprattutto l’operatività dei militari fino al 31 dicembre, data di scadenza del provvedimento. Nessun problema. Nello testo, infatti, sono inseriti anche i finanziamenti destinati a 17 associazioni combattentistiche, tra le quali l’Anpi per la quale era stato previsto 1 milione di euro. Anziché tagliare i costi riducendo l’impegno militare, la maggioranza delle larghe intese ha pensato bene di attingere a piene mani proprio lì, tra i fondi destinati all’associazione dei partigiani per trovare i soldi necessari a coprire il buco. Detto fatto. Giusto il tempo di di rifare i conti e il contributo destinato all’Anpi è stato ridotto a 634 mila euro, mentre 366 mila euro sono passati dalle casse (virtuali) dell’associazione partigiani a quelle delle missioni, con il consenso di tutti i partiti – Pd in testa – e con l’unico voto contrario del M5S.
Il provvedimento prevede un finanziamento complessivo di 730 milioni fino alla fine dell’anno, dei quali 260 solo per la missione in Afghanistan. Nonostante le promesse fatte dal ministro degli Esteri Emma Bonino, che aveva garantito un maggior impegno finanziario italiano per i profughi della Siria, alla cooperazione internazionale restano solo le briciole: appena il 2% del totale, pari a soli 23 milioni di euro.
Una volta messi in ordine i conti, il decreto è dunque arrivato in aula, dove però adesso rischia di rimanere impantanato a lungo. Sel e M5S hanno infatti annunciato di volersi opporre al testo con l’ostruzionismo, cominciato già ieri sera durante la discussione. Il movimento di Grillo ha presentato 12 emendamenti che chiede al governo di fare propri. Tra le richieste più importanti c’è il ritiro di almeno il 10% del personale militare attualmente impegnato in Afghanistan (250 soldati su un totale di 2.900). «Non si tratta di una richiesta assurda», spiega il deputato 5 Stelle Manlio Di Stefano. «Nell’emendamento si chiede di concordare con la Nato una riduzione degli incarichi operativi degli italiani in Afghanistan in modo da permettere il parziale ritiro. Messa in questi termini la proposta è stata giudicata fattibile anche dal relatore, il generale Rossi. Senza contare che , oltre a dare un forte segnale politico, si risparmierebbero anche molti soldi in un momento di crisi». Il M5S chiede anche l’approvazione di un ordine del giorno che metta fine all’impiego di soldati italiani in missioni antipirateria a bordo delle navi mercantili.
Più radicale la scelta di Sel, che al governo chiede invece di spacchettare il decreto in modo da poter votare contro la sola missione in Afghanistan, decretandone così la fine nel caso il voto passasse, e a parte tutto il resto.«Non accettiamo mediazioni come quella proposta dal M5S di ritirare solo il 10% dei soldati – spiega Giulio Marcon -. Quella missione è sbagliata e va ritirata completamente».
Carlo Lania (da Il Manifesto del 7 novembre 2013)
10 novembre 1943: bombardamento di Recco
Recco è l’unica città del Levante dove non è più possibile individuare il centro storico. Le sue strade, i suoi “caruggi”, le sue piazzette, furono distrutte dai ventisette bombardamenti aerei degli Alleati effettuati tra il 10 novembre 1943 e il 28 agosto 1944. Essi provocarono oltre 127 vittime civili e altrettanti feriti e la distruzione di oltre il 90 per cento dell’abitato urbano. Obiettivo di tali bombardamenti era il viadotto ferroviario, la cui distruzione (assieme a quello della vicina Zoagli) avrebbe dovuto isolare la riviera di Levante dal capoluogo regionale. La sera del primo bombardamento, ricordano i sopravvissuti, tutto era tranquillo nella cittadina: nelle abitazioni, nei locali pubblici, nel “cinematografo”, dove si proiettava “La primula rossa”. Dal rapporto della squadriglia della Raf britannica che operò quella notte apprendiamo inoltre che la notte era serena, la luna piena era alta nel cielo e illuminava il mare, la costa, il paese, le colline. La luminosità aumentò allorquando, iniziando l’attacco, gli aerei liberarono grappoli di bengala dalla luce intensissima. Sorvolando Recco da levante a ponente, uno dopo l’altro gli aerei, in un carosello che si prolungò per quaranta minuti, sganciarono il loro carico di bombe, cercando di centrare il viadotto ferroviario (che subì pochi danni), ma colpendo a morte il paese. La strage del 10 novembre consigliò buona parte della popolazione a cercare scampo nelle case e nelle ville dell’estrema periferia, nei centri vicini. Quanti non ebbero il tempo di abbandonare la propria casa e la propria città, ebbero l’amara sorpresa di subire una seconda incursione il successivo 26 novembre. Tre grosse formazioni di bombardieri sganciarono oltre 300 bombe dirompenti. Altre 34 vittime si aggiunsero a quelle del primo bombardamento. I feriti furono una settantina. Andarono distrutte circa 300 case, colpiti il palazzo comunale e la chiesa parrocchiale vennero colpiti. Quello del 1943 fu il vero e primo Natale di guerra dei recchesi, sparsi ormai fuori dal loro paese. Seguirono poi altri 25 incursioni, talvolta “a tappeto” con la partecipazione di decine di bombardieri, talvolta portate da squadriglie più piccole. Ogni volta il viadotto subiva danni più o meno pesanti, ma, grazie all’intervento delle truppe del genio, il traffico ferroviario veniva ogni volta riattivato. Il 29 giugno e il 10 luglio ulteriori bombardamenti sganciarono le bombe su una Recco già irriconoscibile e colpirono il viadotto tanto gravemente da non potersi più considerare riparabile. Era la diciottesima incursione. Ne seguirono altre che martoriarono ancora la città già ridotta a un cumulo di macerie. L’ultima il 28 agosto 1944. Proprio a riconoscimento della forza dimostrata dagli abitanti nella ricostruzione della città, il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nel 1993 insignì il Comune di Medaglia d’oro al Merito Civile. Sette anni dopo, il presidente Carlo Azeglio Ciampi concesse a Recco il titolo di Città. (da http://www.terrediportofino.eu/)
7 novembre 1943: a Casera Spasema nasce il distaccamento garibaldino “Tino Ferdiani”
Il Distaccamento Garibaldi “Tino Ferdiani” (già “Luigi Boscarin”) fu il primo nucleo partigiano nato nell’area bellunese e fu intitolato inizialmente a Luigi Boscarin (o Buscarin) e successivamente a Tino Ferdiani, uno dei primi volontari morti durante un’azione del distaccamento.
Esso venne creato il 7 novembre 1943 presso la casera “Spàsema” di Lentiai per iniziativa del Comando Veneto delle Brigate Garibaldi ed alla presenza di uno dei suoi responsabili, Amerigo Clocchiatti “Ugo”. A partire da questo nucleo si sviluppò gran parte dell’organizzazione partigiana che nei mesi successivi si articolò nelle principali divisioni partigiane del Veneto: la “Divisione Belluno“, che operò nel territorio dell’omonima provincia, e la Divisione Nino Nannetti, che operò nella Sinistra Piave, nell’altipiano del Cansiglio, nell’area di Vittorio Veneto e nelle valli del Vajont.
Domenica 10 novembre festeggieremo il 70° anniversario, appuntamento a Lentiai alle ore 9. https://www.facebook.com/events/185439054981425/
6 novembre 1943: inizio della deportazione degli ebrei fiorentini
Un’irruzione nei locali della comunità ebraica di via Farini segnò, settanta anni fa, il destino di molti ebrei fiorentini. Era l’alba del 6 novembre 1943 quando i nazisti-fascisti decisero di colpire la comunità ebraica, circa trecento persone catturate e ammassate nella stazione di Santa Maria Novella, destinate a non tornare. A catturarle erano state le SS tedesche ma anche i militi italiani della Repubblica di Salò. Tre giorni dopo, il 9 novembre, i vagoni piombati partirono meta il campo di sterminio di Auschwitz, dove gli ebrei giunsero il 14 novembre: 193 prigionieri furono immediatamente uccisi nelle camere a gas. Nell’elenco dei deportati figuravano anche otto bambini nati dopo il 1930 e 30 anziani, nati prima del 1884. La più giovane era Lia Vitale, nata nel 1942, la più anziana Fanny Tedesco ed aveva 93 anni.
Come altrove, gli esecutori della soluzione finale furono molti. Innanzitutto gli occupanti tedeschi in azione fin da subito. Poi il Reparto Servizi Speciali della 92° legione della GNR, meglio noto come la “Banda Carità”, che alla guerra contro la Resistenza organizzata affiancò un notevole impegno anche nella caccia agli ebrei, se pur meno conosciuto.
Ma il protagonista più significativo e caratteristico delle persecuzioni antiebraiche fiorentine fu senza dubbio l’Ufficio Affari Ebraici, un organo della prefettura repubblicana. Le persecuzioni antiebraiche ebbero notevole importanza nel territorio del capoluogo toscano e l’impegno delle istituzioni della RSI in questa direzione fu intenso e continuativo in quegli undici mesi di governo. Dalla fine di dicembre 1943, l’Ufficio affari ebraici ebbe sede al numero 26 della centralissima via Cavour. Oggi c’è il Consiglio regionale toscano, allora era una proprietà requisita all’avvocato ebreo Bettino Errera. Di quell’antico proprietario sopravvive una minuscola targa sul campanello del primo piano. L’Ufficio affari ebraici operò a Firenze su larga scala e con poteri assai ampi: si occupò di razzie patrimoniali ma anche di arresti, realizzando un efficace controllo capillare sul territorio. Seppe “lavorare” ai fini di un’efficace sinergia tanto con la “Banda Carità” quanto con la questura di Firenze, fino ad essere in grado di coordinare tutta l’attività persecutoria coniugando la violenza di carnefici senza scrupoli, incaricati della parte sporca del lavoro, torture comprese, e un gran lavorio burocratico, necessario alle diverse fasi della persecuzione. L’Ufficio redigeva liste di ebrei ricercati, verbali di confisca e di arresto. Gestiva inoltre una rete piccola ma micidiale di delatori per condurre proprie indagini sui latitanti e i loro beni.
Inoltre era l’Ufficio a tenere la contabilità dei beni incassati e i rapporti con le banche e con gli altri uffici interessati ai sequestri patrimoniali, non senza appropriazioni indebite di denaro e di beni. A capo dell’Ufficio affari ebraici era Giovanni Martelloni, un avventuriero trentottenne, volontario reduce dall’Albania, amico di Carità e di Manganiello, il capo della Provincia della RSI. Proprio attraverso l’antisemitismo Martelloni divenne una figura di spicco della RSI fiorentina, distinguendosi sia per le sue disquisizioni estremistiche che per le pratiche persecutorie. Nel dopoguerra ci fu un processo contro le malversazioni di Martelloni e della sua “banda” ma si concluse in un nulla di fatto: i principali imputati di arresti, malversazioni e violenze, furono tutti amnistiati. Finì amnistiato anche Martelloni, che essendo stato sempre latitante, riuscì a non fare neppure un giorno di galera.