Se la politica ascoltasse quei ragazzi…

10321601_10152143019127903_775660903705055456_oDa Articolo 21 un bel resoconto della manifestazione ANPI del 29 aprile:

Come sarebbe stato bello se Renzi e la Boschi, anziché prendersela con i “professoroni” che da trent’anni, non si sa come, non si sa perché, bloccherebbero le mitiche riforme, fossero stati con noi ieri pomeriggio al Teatro Eliseo! Come sarebbe stato bello se avessero partecipato all’iniziativa promossa dall’ANPI e dedicata a “una questione costituzionale”, ossia la tutela dei princìpi, dei valori e dello spirito originario della Costituzione dagli assalti di riformatori le cui proposte sembrano essere dettate più da esigenze elettorali che da un reale disegno di buona manutenzione della Carta!
Se fossero venuti con noi, ad esempio, si sarebbero accorti che nel Paese non c’è nessun gufo, nessun rosicone e nessun disfattista, tanto meno a sinistra, e che i nostri allarmi, i nostri appelli, le nostre richieste di chiarimento non derivano dalla volontà di favorire l’ascesa grillina a Palazzo Chigi bensì dal fermo desiderio di ricostruire una coalizione di centrosinistra degna di questo nome, in grado di garantire al Paese un governo all’altezza e di restituire credibilità alle istituzioni.
Se fossero venuti, inoltre, si sarebbero accorti che alla manifestazione promossa dall’ANPI non c’erano solo i “parrucconi” dal capello canuto che loro tanto avversano ma anche decine e decine di giovani che alle riunioni del PD non si vedono più. Giovani “partigiani”, giovani animati dall’amore per la politica e da un fortissimo impegno civile, giovani coraggiosi, ricchi di passione, desiderosi di raccogliere il testimone e prepararsi a combattere le resistenze moderne: per il lavoro, per i diritti, per la dignità della persona e anche per il ritorno della politica perché quella cui stiamo assistendo in questi mesi, oggettivamente, non lo è.
Non è politica quest’indegna e costante gazzarra priva di contenuti e di proposte; non è politica la religione dell’insulto e della delegittimazione dell’avversario; non è politica l’offesa gratuita, la sopraffazione delle minoranze e il tentativo di imporre il pensiero unico, da qualunque parte esso provenga; non è politica quest’arroccarsi in difesa di posizioni indifendibili mentre una moltitudine di cittadini ricchi di idee bussa alle porte e vorrebbe portare aria fresca nei palazzi del potere; non è politica, infine, questo scontro feroce, senza esclusione di colpi, all’insegna di un populismo e di una demagogia dilaganti che contribuiscono unicamente ad accentuare la sfiducia e il distacco delle persone da un sistema che viene considerato, spesso a ragione, dannoso e autoreferenziale.
È politica eccome, invece, il bel confronto fra una ragazza che avrà avuto la mia età o poco più e figure eccezionali come Rodotà, il professor Gianni Ferrara e il presidente dell’ANPI Carlo Smuraglia; è politica quella ragazza che ha imboccato il percorso della vita seduta a fianco di chi ha combattuto per rendere possibile la libertà del suo pensiero e delle sue parole; è politica vedere dei giovani col fazzoletto tricolore dell’ANPI  al collo e l’idea di essere i “partigiani del Terzo Millennio” o, meglio ancora, i “partigiani della Costituzione”; è politica il ricordo del meraviglioso discorso di Calamandrei ai giovani, quando li esortò a tener sempre vivo il ricordo del sangue e delle vite che era costata la nostra Costituzione. È la politica di cui avrebbe bisogno un Paese come il nostro, dalla memoria sempre più labile, in cui tutto sembra oramai consentito, persino dichiarazioni ignobili, persino le offese barbare ai sindacati e ai corpi intermedi, persino il vilipendio sistematico al Capo dello Stato, persino la logica dello sfascio nei confronti del sistema democratico.
È una politica onesta, genuina, pulita, in cui le generazioni si prendono per mano e camminano insieme, in cui chi è stato sui monti della Resistenza trasmette ai nipoti quei valori e quelle sensazioni, affidando alla nostra generazione il compito immane di custodirli e farli giungere alle prossime generazioni che, a differenza nostra, non avranno la fortuna di ascoltare la testimonianza diretta di chi ha vissuto quei giorni drammatici.
È, in poche parole, un’altra idea d’Italia, un’altra idea di confronto, un’altra idea di dialogo e di apertura mentale; è un’idea per cui vale la pena battersi perché, come abbiamo ricordato altre volte, è proprio nel momento dell’abisso che nacque il sogno dell’Europa unita ed è inaccettabile che oggi qualcuno si aggrappi persino a riforme complesse e ineludibili per utilizzarle in campagna elettorale, strumentalizzando la richiesta di cambiamento che si leva dal Paese.
Sì, c’è bisogno di cambiare, c’è bisogno di guardare al futuro, c’è bisogno di uscire da questo maledetto ventennio di declino e di degrado ma perché ciò accada è necessario, innanzitutto, appropriarsi di un nuovo linguaggio, poi tornare a guardarsi negli occhi, infine tornare a concepire la politica e la società nel suo complesso come una comunità solidale in cammino, riscattando con una nuova resistenza, morale e culturale, il senso stesso della dignità umana, calpestata dal liberismo, dall’egoismo, dall’idea che la società non esista e non abbia senso e, più che mai, dall’idea che non esistano più valori che non possono essere ridotti a merce.

Questa è la Resistenza cui sono chiamati i ventenni di oggi. Speriamo, per il bene della collettività, che ne siano all’altezza.

di Roberto Bertoni da articolo21.org

Manifestazione ANPI del 29 aprile sulle riforme Costituzionali

anpi Care amiche e cari amici, care Associazioni,

  come ormai saprete, l’ANPI ha indetto un manifestazione nazionale, al Teatro Eliseo di Roma, per martedì 29 aprile, alle ore 16,30, sui temi e con le posizioni che rileverete agevolmente dall’allegato, che esprime quanto deliberato, dopo ampia e proficua discussione, dal Comitato Nazionale dell’ANPI, nella riunione del 1 aprile scorso.

  Non chiediamo adesioni, né facciamo raccolta di firme, perché pensiamo che – oltre ad indirizzi che a buon diritto possiamo considerare comuni – ci possono essere molte variazioni, essenziali o sfumature, ben comprensibili data la delicatezza dei temi affrontati. Riteniamo, peraltro, che su alcuni punti di carattere generale (la necessità di cambiamento, ma nella coerenza costituzionale e nel rispetto dei princìpi di rappresentanza e di democrazia) ci possa essere, come auspichiamo, un sentire comune. Ed è per questo che Vi rivolgo, a nome della mia Associazione, un caldo invito a partecipare alla manifestazione, sia pure nella libertà di ciascuno di mantenere posizioni diverse sugli aspetti particolari.

  Noi crediamo che sarebbe interesse di tutti che la manifestazione fosse partecipata anche da  forze e persone diverse, oltre ai nostri iscritti, perché c’è una necessità reale di impedire che – troppo  in fretta e senza opportune riflessioni – si metta mano sia alla legge elettorale che alla riforma del Senato, proponendo invece una riflessione  serena e costruttiva, nei tempi necessari, per cambiare, con coerenza e con rispetto dei diritti dei cittadini e dei princìpi Costituzionali.

  Spero, quindi, di vedervi con noi il 29 aprile. Se poi riterrete di inviarci anche il vostro saluto e la vostra adesione di fondo alle tematiche in discussione, ne saremo particolarmente felici e ne daremo pubblicamente atto.

  La battaglia sarà lunga, con ogni probabilità e richiederà un serio impegno da parte di tutti. Se riusciremo a condurla unitariamente, almeno negli aspetti fondamentali e fatte salve le opinioni di ciascuno sulle specifiche soluzioni, ne trarrà vantaggio l’intera collettività, oggi forse un po’ distratta rispetto a questi temi, ma che cercheremo di informare adeguatamente perché ognuno conosca e possa poi esprimere consapevolmente la propria volontà.

  Con i più cordiali saluti e nella sincera speranza di ritrovare il terreno per un cammino comune.

                                                                                                 Carlo Smuraglia

Milano 15 aprile 2014

Davide Conti: “L’anima nera della Repubblica. Storia del MSI”

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Venerdì 18 aprile alle ore 20.45 presso la sala conferenze di Villa Errera, Davide Conti presenterà il suo ultimo lavoro “L’anima nera della Repubblica. Storia del MSI”. Introdurrà Bruno Maran.

«Il Movimento sociale italiano non rappresentò solo un’esperienza testimoniale, un approdo unicamente reducistico, ininfluente rispetto alle vicende politiche. Un «polo escluso», come definito da qualcuno. Condizionò, invece, a più riprese il quadro politico e istituzionale, consentendo, fra il 1953 e il 1960, la nascita di ben quattro governi a guida democristiana (Pella, Zoli, Segni e Tambroni), nonché l’elezione di due presidenti della Repubblica, Giovanni Gronchi nel 1955 e Giovanni Leone nel 1972, quest’ultimo grazie proprio ai voti missini. Non solo, tra i primi anni Sessanta e la metà dei Settanta, nel pieno dispiegarsi della strategia della tensione, entrò in stretta relazione con i vertici militari italiani, con gli ambienti Nato e dell’Alleanza atlantica, con settori industriali, ma anche, in campo internazionale, con la destra repubblicana di Richard Nixon. Fece parte integrante di quell’ampio schieramento anticomunista che si costituì nel nostro paese e che operò dietro tutti i piani eversivi e di messa in discussione delle istituzioni democratiche, tentando addirittura di assumerne un ruolo guida. Di questo tratta in particolare “L’anima nera della Repubblica” di Davide Conti (pp. 226, euro 20 euro, Laterza), un libro che ricostruisce la storia dell’Msi in stretta connessione con l’evolversi delle più generali vicende politiche, economiche e internazionali. Una storia non solo partitica, si potrebbe dire, ma dell’estrema destra nel suo complesso, con uno sguardo sul passato recente e il presente. Qualcuno, forse, ha già dimenticato come l’MSI, nel 1994, con il suo top elettorale di sempre (il 13.5%), ancor prima di trasformarsi in Alleanza Nazionale, riuscì, nel quadro della fine della prima Repubblica, a diventare forza di governo insieme a Forza Italia e Lega.
Indipendentemente dal carattere nostalgico, l’Msi cercò subito, nell’immediato dopoguerra (nacque il 26 dicembre 1946), di ritagliarsi uno spazio politico nell’alveo anticomunista. Dirimenti in questo senso furono le vicende internazionali. Prima la guerra di Corea del 1950, poi la rivolta antisovietica di Budapest nel 1956, portarono l’Msi a un sostegnopieno dell’Alleanza atlantica, accettata come “sistema militare anticomunista”, a favore del quale già nel 1951 il suo gruppo dirigente si era espresso, nonostante le organizzazioni giovanili missine inscenassero manifestazioni antiamericane in opposizione alla ratifica del patto. D’altro canto l’ambivalenza e la doppiezza furono tra le costanti di tutta la sua storia, sempre in bilico fra inserimento e sovversione. “Inserimento”, da un lato, negli anni Cinquanta e nei primissimi Sessanta, nell’area governativa, a destra della Democrazia cristiana, come contrappeso alle aperture nei confronti dei governi di centrosinistra, “sovversione”, dall’altro, nei termini della riproposizione di sé come “forza alternativa al sistema”, che lo spinse a coltivare un violento e sistematico squadrismo, a costituire gruppi paramilitari, ma soprattutto ad assecondare le pulsioni golpiste che in quegli anni attraversavano le forze armate, o parte di esse, progetto attorno al quale negli anni Settanta disegnò le prospettive.
I fatti del luglio Sessanta con la sconfitta del governo Tambroni, nato con il sostegno determinante dei parlamentari missini, costretto alle dimissioni dalla protesta di piazza, portò all’irreversibile crisi di ogni opzione strategica di inserimento. Da qui anche una svolta con la decisione dell’Msi di costruire strutture parallele armate con la convergenza dell’ala guidata da Giorgio Almirante con tutta la galassia della destra extraparlamentare, da Ordine Nuovo ad Avanguardia Nazionale, nella prospettiva di uno scardinamento violento delle istituzioni repubblicane.
L’idea di un colpo di stato attraverso gli stessi vertici dell’Arma dei carabinieri, si pensi al “Piano Solo” che coinvolse nell’estate del 1964 l’allora Presidente della Repubblica Antonio Segni e il generale Giovanni De Lortenzo, ma anche ampi settori dell’esercito. Gli atti finali del famoso convegno all’Hôtel Parco dei principi di Roma, agli inizi di maggio del 1965, promosso proprio dallo Stato maggiore, sono ancora lì a dimostrarlo.
I rapporti con gli ambienti militari furono strettissimi, collocando l’Msi all’interno di quell’ “atlantismo radicale”, volto al contrasto del Pci nei termini della cosiddetta “controinsorgenza” e della “guerra rivoluzionaria”, con la collaborazione prevista tra militari e civili lungo crinali eversivi. I colonnelli che avevano, nell’aprile del 1967, assunto il potere in Grecia, indicavano la strada. Da qui lo svilupparsi della strategia della tensione come “strategia politico-militare di origine atlantica”.
Giorgio Almirante fu il primo segretario dell’Msi, nell’immediato dopoguerra, ma soprattutto, dopo un lungo intervallo, al suo comando dal 1969 fino quasi alla fine degli anni Ottanta. Rispetto ai suoi predecessori rideclinò la politica di inserimento in modo assai più aggressivo, puntando alla frattura fra i partiti antifascisti con settori della Dc, Pli e Psdi. Una sorta di schieramento nazionale “anticomunista”. Sotto la sua guida cercò di coniugare la carica “antisistema” delle origini con il richiamo alla “piazza di destra”, il ribellismo dei moti di Reggio Calabria (1970), ampiamente sostenuti, con una politica di “legge” e “ordine”. “Doppiopetto e manganello”, come si disse allora. A tale scopo riaggregò anche tutto l’estremismo extraparlamentare. I “bombaroli” di Ordine nuovo furono riaccolti nei ranghi del partito già nel novembre 1969, poche settimane prima della strage di Piazza Fontana.
L’internità dell’Msi alla strategia della tensione, con un carico notevolissimo di episodi violenti e squadristici, fu indiscutibile, come il suo proposito di concretizzare una svolta autoritaria sotto gli auspici delle forze armate. Molte le fonti utilizzate a questo proposito dall’autore, non solo istituzionali, ma anche di provenienza democristiana, tra gli altri l’archivio dell’Istituto Luigi Sturzo. Da questa stessa documentazione una fotografia degli innumerevoli finanziamenti di cui godeva l’Msi: dalla Fiat di Giovanni Agnelli (che incontrò Giorgio Almirante nel settembre 1969) alla Confindustria, all’Assaolombarda, per passare da Eni, Snia e Montecatini. Aziende private e parastatali. Un flusso impressionante di denaro, anche straniero, come i milioni di dollari, registrati nelle informative del Ministero degli interni, affluiti da Washington. La strategia della tensione fu sconfitta, verso la metà degli anni Settanta, dopo una prolungata e imponente mobilitazione antifascista che fece naufragare i disegni eversivi e ricacciò l’Msi nella marginalità. Fino ai primi anni Novanta quando, sotto la direzione di Gianfranco Fini, il partito neofascista fu ripescato e rilegittimato all’interno del nuovo schieramento berlusconiano. Da questa stessa storia alcune delle radici della nuova destra politica italiana, dai tratti eversivi, di certo non conservatrice.

Un’intervista di Radio Radicale a Davide Conti

11 aprile 2014: L’Agnese va a morire

AGNESEVenerdì 11 aprile alle ore 20.45 in sala conferenze di Villa Errera a Mirano, ci sarà la proiezione del film “L’Agnese va a morire” di Giuliano Montaldo, tratto dall’omonimo libro di Renata Viganò. L’autrice con il marito, Antonio Meluschi, e il figlio, partecipò alla lotta partigiana (“la cosa più importante nelle azioni della mia vita”, com’ebbe a dire) nelle valli di Comacchio e in Romagna, facendo, sino alla Liberazione, di volta in volta l’infermiera, la staffetta garibaldina e la collaboratrice della stampa clandestina. Da queste sue esperienze pubblicò nel 1949, da Einaudi, “L’Agnese va a morire” da cui nel 1976 Giuliano Montaldo ne trasse il film che proiettiamo venerdì sera.

È appena passato l’8 settembre e Agnese, donna grassa e quasi anziana, a seguito di una retata dei tedeschi, si trova senza il marito, portato via dai soldati (che si scoprirà ucciso). Inizia così a maturare nella donna un odio, profondo, viscerale, verso i tedeschi oppressori e i fascisti loro leccapiedi. Ma Agnese è una signora introversa, semplice, una lavandaia che del mondo non sa nulla, attaccata al ricordo del marito che spesso gli appare in sogno. Palita, il marito appunto, è il volto riconoscibile della coscienza di Agnese; rappresenta un desiderio di rassicurazione che contrasta con la glacialità apparente della moglie. Nei sogni, nell’interpretazione ingenua che ne dà Agnese, infatti, ritroviamo la sua semplicità. Eppure la vendetta ha la capacità di smuovere ogni cosa. E Agnese si lascia spingere da un senso muto di rivalsa, senza motivazioni ideologiche, e decide di aiutare i partigiani, compagni di suo marito, cominciando a fare la staffetta tra una campagna e un’altra. Contribuisce, nel suo piccolo, con un’aria asservita che raramente perderà, a vendicare il sopruso subito. Poi, in pagine dense e abbacinanti, la svolta, la rivoluzione interiore. Dopo l’uccisione insensata della sua gatta nera da parte di un tedesco ubriaco, fredda, carica di odio, Agnese, senza pensarci troppo, con rigido e disorientante distacco, uccide il tedesco che le aveva mitragliato la gatta. Scappa dal paese, mentre dietro di lei la casa si infiamma al fuoco appiccato dai tedeschi. La fuga quindi, l’unione con i partigiani, la barca sotto una luna di manzoniana memoria…. Poi la monotonia dell’attesa in un campo nascosto tra le canne; l’estate con i suoi disagi e con le sue contraddittorie seduzioni. Ma la guerra, nonostante brevi parentesi di quiete, non è solo ozio. E presto si ritorna all’azione. Arriva l’inverno, quello freddo del ’45, l’inazione forzata e i tentativi anche tragici di organizzarsi per l’attacco finale. Agnese piano piano lascia spazio al racconto degli uomini, dei partigiani, delle loro difficoltà, del loro modo di resistere, spesso senza riuscirvi, alla morte. Solo verso la fine del romanzo la sua figura ritorna prepotente, drammatica, e si legge, come ci annuncia già il titolo del romanzo, della sua morte.

Venerdì 4 aprile 2014: “Tina Merlin, donna resistente”

maria segaVenerdì 4 aprile alle ore 20.45 a Mirano in Sala Conferenze di Villa Errera, Maria Teresa Sega interverrà sul tema “Tina Merlin, donna resistente”.

Il 22  dicembre 1991 moriva a Belluno Tina Merlin. Era nata a Trichiana (BL) il 19 agosto del 1926. Era sorella del partigiano Toni Merlin, organizzatore e comandante del battaglione “Manara”,  successivamente assorbito dalla brigata partigiana “7° Alpini”. Partecipò alla resistenza come staffetta partigiana nella stessa brigata e, dopo la guerra diventò giornalista collaborando con l’ “Unità”, diventandone la corrispondente da Belluno. Nel 1951 pubblicò “Menica“, una raccolta di storie sulla guerra  partigiana. In quel periodo iniziò a interessarsi alla diga del Vaiont e, per i suoi articolo di denuncia pubblicati sull’”Unità” che descrivevano la situazione pericolosa che si era andata manifestando con la costruzione della diga,  venne processata e assolta dal tribunale di Milano per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”. La sentenza porta la data del 30 novembre 1960 e anticipa di quasi tre anni la strage annunciata del Vaiont. Il suo libro più famoso è “Sulla pelle viva – come si costruisce una catastrofe”, un libro che nessuno voleva pubblicare e vide la luce solo nel 1983 per le edizioni “La Pietra” di Milano. Tanti giornalisti, molto più famosi di lei, scrissero articoli ignobili in cui la la strage (“la tragedia”) rimaneva relegata in un’ottica di fatale e naturale disgrazia rimanendo ammirati per la solidità della diga. Così descrisse l’evento Dino Buzzati  in articolo apparso sul Corriere della Sera, venerdì 11 ottobre 1963: “Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bicchiere alto centinaia di metri, e giù sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. E non è che si sia rotto il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico.”  E così Giorgio Bocca in un articolo pubblicato su “Il Giorno” dell’11 ottobre 1963: “Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!… Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muovere guerra…”. Il giornalista Indro Montanelli scrisse inoltre un articolo sul periodico “La Domenica del Corriere” (novembre 1963) nel quale accusava i comunisti di speculare su una così grave tragedia: “nella vita delle nazioni – sosteneva Montanelli – ci sono sempre state tragedie di ogni genere, carestie, pestilenze, terremoti, che vanno affrontate con coraggio e senza creare odi interni”.
Ma Tina non era della stessa pasta, era una che non mollava e continuò a pubblicare e a fare inchieste, sempre dalla parte degli ultimi, degli indifesi, di chi non era tutelato da nessun potere. In uno degli ultimi suoi articoli sul giornale “Patria” scrisse ancora del Vaiont inquadrando il problema in un ottica storica lucida ed estremamente attuale anche ai nostri giorni. Grazie Tina.

“I giorni dopo il Vajont la gente era convinta che la tragedia dovesse essere un punto di partenza per una riflessione collettiva dalla quale partire per cambiare, per mettere in discussione rapporti e metodi. C’erano duemila morti ammazzati, dei quali tutti i poteri portavano una responsabilità diretta o indiretta. La Costituzione era stata messa sotto i piedi e si era rivelata incapace di garantire perfino la vita dei cittadini. Da più parti si proclamava, e si prometteva, che occorreva cambiare rotta. Invece, da allora, le compromissioni del potere politico con quello economico sono state infinite e scandalose. Si sono affinate nella degenerazione di ogni diritto, talchè la democrazia non ha più senso e reale consistenza in questo nostro paese governato da gruppi di potere palesi e occulti, dove uomini della politica e uomini dell’economia vanno sottobraccio a quelli della mafia, del terrorismo, della P2, per sostenersi a vicenda…..”

Intervista a Ugo De Grandis sullo sciopero del 29 febbraio1944 a Schio

1625662_716712511706636_2075810653_nL’1 marzo 1944 migliaia di operai in tutto il Nord Italia scesero in sciopero spinti soprattutto dalle precettazioni obbligatorie in Germania. Non fu il primo sciopero verificatosi dalla nascita della Repubblica Sociale Italiana (RSI) nel settembre 1943, ma fu senz’altro il più vasto e, così mette in luce la storiografia, il primo a non limitarsi a semplici rivendicazioni economiche.
A Schio quello sciopero pare cominciasse addirittura con qualche anticipo rispetto al resto del territorio: lo ha sostenuto un paio di anni fa lo storico Ugo De Grandis, che nell’anniversario dei fatti ha rilasciato questa intervista a Alessandro Pagano Dritto per VicenzaPiù.

Marzo 1944. Nel suo scritto lei parla del carattere eccezionale dello sciopero scledense e per descrivere l’atteggiamento tenuto nei suoi riguardi, come nei riguardi, più in generale, della storia della Resistenza di Schio e del Veneto, usa l’espressione «coltre di silenzio» (p. 4). Può spiegare meglio questa sua tesi?

Quella contro l’oblio nel quale la storiografia ufficiale della Resistenza ha confinato la storia di Schio e degli scledensi è una battaglia personale che conduco da anni. L’esempio più lampante di questo atteggiamento è proprio l’interpretazione di questi scioperi. Schio in quel frangente segnò uno dei tanti primati della sua storia: fu la prima comunità a iniziare a scioperare e l’unica in cui gli operai abbiano trattato direttamente coi tedeschi senza poi subire per questo motivo ritorsioni. Io fisso la data del 29 febbraio – il 1944 era un anno bisestile – come inizio dello sciopero generale collettivo di tutti gli stabilimenti scledensi, ma in realtà le prime astensioni dal lavoro erano iniziate lunedì 28: in quella data si era infatti sparsa in città la voce che alcuni lavoratori avessero ricevuto le cartoline precetto per recarsi alla visita ed essere giudicati idonei o meno al lavoro coatto in Germania. Ma lo sciopero era stato addirittura programmato, a livello più ampio, per il 21 febbraio e in un primo momento doveva coinvolgere solo il triangolo industriale formato da Lombardia, Piemonte e Liguria. Veneto ed Emilia Romagna erano state volutamente escluse dal cosiddetto Comitato di Agitazione perché considerate regioni periferiche: la loro massa, prevalentemente impiegata nell’agricoltura, era considerata priva di preparazione politica e non sufficientemente preparata a forme organizzate di protesta.

Perché l’eccezionalità dimostrata in questo frangente non è riuscita a dare giusta luce alla Resistenza veneta? Da dove pensa che derivi questa tendenza?

Secondo me è perché la memoria della Resistenza, è inutile negarlo, è da sempre stata portata avanti dai partiti di sinistra e dagli intellettuali di sinistra. Il Veneto non ha mai dato grandi espressioni di intellettualità di sinistra e lo stesso vale anche dal punto di vista delle memorie della Resistenza. Noi non possiamo vantare un Beppe Fenoglio, un Cesare Pavese, un Davide Lajolo; abbiamo, è vero, Luigi Meneghello, che però sulla Resistenza ha scritto solo di passaggio, abbiamo Mario Rigoni Stern che però ha parlato della guerra, dell’internamento militare, ma non di Resistenza. A noi in generale tutto questo manca e quindi quando in Italia si parla di Resistenza armata, si parla della Valdossola, delle Langhe, si parla di Sesto San Giovanni se si parla di Resistenza operaia, del Lingotto o di Sanpierdarena, ma mai e poi mai del Veneto: le stesse dirigenze del Partito Comunista hanno sempre guardato con sufficienza questa terra. Delle zone libere tutti ricordano, per esempio, la Valdossola, che aveva alle spalle la Svizzera neutrale; nessuno invece ricorda Posina, che certi hanno considerato un errore perché ha provocato un immane rastrellamento ma che rispondeva comunque a direttive nazionali. Eppure questa, Posina, aveva alle spalle i territori del Terzo Reich, non la Svizzera.

I mesi che precedettero lo sciopero. Nel suo libro assume una certa rilevanza, per questo preciso periodo, una figura della dirigenza comunista veneta: Giuseppe Banchieri «Anselmo». Chi era?

Banchieri era Segretario federale regionale, il numero uno nel Veneto. Venne a Schio ai primi di gennaio per indagare sui fatti di Malga Silvagno, dove erano stati uccisi quattro partigiani garibaldini. Indagando individuò delle lacune nell’organizzazione, lacune che mi sento però di giustificare. Schio era infatti stata fortemente penalizzata nei primi tentativi di imbastire una resistenza, con il rastrellamento del Festaro di metà ottobre e poi con l’arresto di almeno due importanti elementi a novembre: Nello Pegoraro e Pietro Bressan, trasferiti, come altri prima, a Verona. A questo si aggiungeva il fatto che qualcuno si ostinava ancora a rimanere nelle Commissioni interne che nelle fabbriche si erano create dopo il 25 luglio nel clima della ritrovata «democrazia», con tanto di virgolette, dei quarantacinque giorni di Badoglio. Queste Commissioni erano poi divenute uno strumento di controllo del regime e dovevano quindi essere disertate dai lavoratori. Banchieri passò a setaccio l’organizzazione ed effettuò alcune sostituzioni importanti. Tra queste, quella di Domenico Marchioro, che, dopo Pietro Tresso, era stata la figura numero due del comunismo locale: onorevole del PCd’I, era stato arrestato nel 1926 con tutta la dirigenza comunista dell’epoca, con Gramsci e Scoccimarro, e processato. Rientrato dopo quasi diciotto anni di carcere, Marchioro si vide affidare per riconoscenza la gestione della segreteria provinciale, ma si dimostrò ben poco affidabile: era rimasto con la mentalità semilegale della prima metà degli anni ’20 e non capiva le necessità della condizione clandestina del momento. Fu quindi trasferito a Roma con la scusa della salvaguardia personale.

Ed è a questo punto che entra in gioco un’altra importante figura, quella di Antonio Bietolini «Lorenzo».

Esatto, nel posto che fu di Domenico Marchioro fu inserito Antonio Bietolini. Se devo dire la verità, Bietolini mi ha sempre dato l’impressione del funzionario che sentenzia dall’alto senza calarsi nella realtà locale di altri quadri politici; di quei quadri cioè che lavorano in fabbrica, che sono esposti agli occhi di tutti e che devono gestire la loro attività in una situazione diversa dalla clandestinità dell’elemento di partito venuto da fuori sotto falso nome. Non era l’unico: lo stesso Giorgio Amendola si comportò così, dando un giudizio sprezzante dell’organizzazione delle brigate Garibaldi in tutto il Veneto, osservato però dalla sola Padova. Ma ciò che di Bietolini mi ha infastidito di più è stata una certa arroganza a volersi attribuire l’organizzazione dello sciopero, cosa che non considero vera almeno in relazione a Schio. A Vicenza infatti dovette insistere perché Vicenza non era una realtà industriale pari a Schio, dovette insistere anche a Valdagno, realtà industriale, sì, ma più isolata, meno incline ad avventure rispetto a Schio; a Schio però trovò le cose già fatte. Eppure lui rivendicò il merito dichiarando che nel più grande stabilimento scledense, il lanificio Rossi, aveva trovato solo cinque operai comunisti e neppure organizzati in cellula. Non mi sembra proprio possibile.

Perché le affermazioni di Bietolini sul numero di operai comunisti al Rossi non le sembrano plausibili?

Dal 1873 fino al 1921 Schio aveva espresso una lunga tradizione di scioperi, forti a tal punto da paralizzare la città per settimane, nel 1921 addirittura per mesi dall’estate fino a metà autunno: tutte le fabbriche furono paralizzate. Mi riesce difficile credere allora che nel 1944 al Rossi ci fossero solo cinque comunisti. I documenti dell’Archivio Centrale dello Stato mostrano che a metà degli anni ’30 a Schio c’erano 188 schedati come sovversivi: comunisti, anarchici e socialisti. Unendo a Schio i paesi del circondario – quindi Marano Vicentino, Santorso, Torre Belvicino e San Vito di Leguzzano – si arriva a 329. In occasione di una retata del novembre del 1937, un’indagine dell’OVRA portò alla denuncia di una cinquantina di attivisti che finirono in carcere al confino per sei anni, ma ciò nonostante l’attività sovversiva continuò. No, non credo alla cifra riportata da Bietolini, che nelle sue relazioni sembra il dirigente di partito che viene e bacchetta gli scolaretti. Non fu così e lo dimostra il fatto che in tutti i suoi andirivieni tra Vicenza, Schio e i paesi vicini, quando arrivò a Schio lo sciopero era già stato anticipato perché si era diffusa la notizia delle cartoline precetto: la scritta domani nei volantini già stampati dovette essere corretta a penna con la scritta oggi. No, nell’organizzazione dello sciopero furono direttamente coinvolti i comunisti scledensi: Antonio Canova, Arturo Rigoni, Giuseppe Scala, Livio Cracco, Pierfranco Pozzer, Igino Manea, Giambattista Cavaliere. Tutti nomi che poi hanno proseguito nella resistenza civile: Canova diventò per esempio comandante del battaglione territoriale «Fratelli Bandiera».

Come si svolse lo sciopero in paese e come reagì la controparte?

Le fabbriche furono subito circondate da truppe di SS provenienti da Vicenza. Ci fu un primo tentativo di mediazione del Commissario Prefettizio Giulio Vescovi, tentativo che però fu giudicato dallo stesso Capo dell’Ufficio Annonario del Comune di Schio, il cattolico Igino Rampon, con l’aggettivo «evanescente». Fu allora deciso di inviare una delegazione di operai di Schio, circa una quindicina, nella sede dei sindacati fascisti a Vicenza. Bisogna capire che questo fu uno sciopero politico, diversamente da quelli precedenti cui avevano partecipato anche quei fascisti non contenti dell’entrata in guerra. Qui non si trattava, come prima, di migliorie del vitto: non si voleva andare in Germania. Era uno sciopero contro la Repubblica Sociale, contro l’occupazione tedesca, contro la guerra e la risposta del popolo lavoratore alla socializzazione.
A Vicenza poi i delegati trattarono direttamente con un ufficiale tedesco di elevato grado venuto, sembra, da Brescia, che accettò di ritirare le precettazioni a patto che il lavoro ricominciasse subito. A differenza che altrove non vi furono rappresaglie naziste per questo sciopero e questa è un’altra eccezionalità.

Leggendo i rapporti che lei trascrive nel suo libro, si ha la sensazione che Bietolini non avesse gradito troppo la soluzione della Commissione mandata a Vicenza. Per i comunisti scledensi la Commissione poté dirsi un successo?

Io la vedo come un successo. Torno a dire: il dirigente che viene da Roma e giudica le cose dall’alto avrebbe voluto magari lo scontro all’ultimo sangue, nessuna trattazione e lo sciopero a oltranza. Con il rischio, poi, delle deportazioni? Questi erano i paraocchi del dirigente, del rivoluzionario avulso dalla realtà quotidiana. Gli operai scledensi non potevano spingere oltre, sono convinto che passarono veramente, e comunque, due brutte giornate: avevano persino preparato le vie di fuga nel caso di arresti o attacchi. Non dimentichiamo che ad Arzignano in quel periodo uno sciopero costò la vita a quattro operai, fucilati. Credo che in questo, nel non voler cioè arrivare allo scontro finale, abbia giocato un grande ruolo l’importanza strategica di Schio e delle sue industrie per l’economia di guerra tedesca: si parla di un patrimonio industriale valutato all’epoca circa 80 miliardi di lire.

Bietolini parla di un solo comunista all’interno della Commissione, entrato giusto per permettere sulla stessa una qualche influenza. Quanto contarono effettivamente i comunisti al suo interno?

Difficile dirlo, bisognerebbe conoscere i nomi di tutti i componenti. Secondo me evitarono di farne parte gli antifascisti più in vista, quelli più ricercati e rientrati dal confino. I nomi che si conoscono – Giuseppe Sandonà, Domenico Rigoni, Vittorio Negrizzolo per esempio – non erano nomi di antifascisti schedati, potevano presentarsi e trattare per conto degli operai. Non potevano certo altrettanto un Alessandro Cogollo o un Livio Cracco appena rientrati da sei anni di carcere: e sono cose come queste che Bietolini dimostrava di non capire.

Emilio Trivellato, lo storico che prima di lei scrisse alcune pagine sugli eventi, ricorda un incontro tra Giuseppe Sandonà, che gli rende anni dopo la testimonianza, e proprio Alessandro Cogollo: i due si incontrano alla trattoria La Pergola, noto ritrovo dell’antifascismo scledense. Sostiene Sandonà che le preoccupazioni per l’evolversi della situazione erano visibili da entrambe le parti, quella tedesca e quella antifascista. Che idea si è fatto del clima che si poteva respirare in quei momenti?

Doveva essere brutto, pessimo. Bisogna sempre ricordare che il primo sciopero dichiaratamente politico a Schio era avvenuto il 10 settembre 1943, quando erano stati portati via i militari della Caserma «Cella». L’attacco avvenne di notte, ma quando al mattino giunse la colonna di autocorriere e a Schio si sparse la voce che i tedeschi avevano occupato la città aprendo il fuoco e uccidendo quattro persone, deportando gli altri, le fabbriche scesero in sciopero, i negozi chiusero e la gente in strada tentava di bloccare le autocorriere. Quindi c’era l’intuizione che a mettersi contro i tedeschi si rischiava di essere caricati su una corriera per un viaggio verso il vuoto. Non è poi vero che nel 1944 nessuno sapesse cosa succedeva in Germania. Certo, camere a gas e forni crematori non li aveva visti nessuno, però prima dell’8 settembre ci fu qualche fortunato che, espatriato da volontario, riuscì poi a rimpatriare con qualche stratagemma e che una volta tornato raccontò come venivano tenuti non solo gli operai specializzati italiani, ma soprattutto i civili russi. Oltretutto dal 25 luglio erano state bloccate le rimesse e qua a Schio non era più arrivato nemmeno un centesimo dai lavoratori volontari divenuti, dopo il colpo di Stato di Badoglio, schiavi. Sapendo tutto questo, come potevano gli operai accettare la cartolina di precetto coatto? Ma nemmeno portare la sfida all’estremo conveniva. Dal punto di vista tedesco, invece, bisogna tenere conto che tutte queste industrie erano state requisite proprio da loro, dai tedeschi: deportando gli operai, chi ci avrebbe lavorato? I tedeschi finirono infatti col comprendere che conveniva cambiare tattica: portare le commesse qua, in fabbriche funzionanti e attive al loro servizio, piuttosto che deportare gli operai in Germania. Anche perché le minacce di arrivo di cartoline spingevano gli operai a lasciare le fabbriche e andare in montagna.

Nei rapporti di Bietolini si percepisce una certa attenzione al problema della stampa e della mancanza di informazione, che secondo il dirigente comunista isolò l’ambiente scledense e rese l’esito dello sciopero diverso da quello da lui sperato. Che influssi ebbe, secondo lei, questo aspetto nella vicenda?

Non è che a Schio girasse all’epoca chissà quale stampa, al massimo qualche copia clandestina dell’Unità passava di nascosto tra i telai. Ma le maggiori informazioni arrivavano dalle radio, per esempio Radio Londra. Durante lo sciopero si erano fatti saltare i tralicci del telefono per impedire le comunicazioni dei tedeschi, ma così anche gli operai erano rimasti isolati. I collegamenti migliorarono semmai dopo, nei mesi successivi, con l’evolversi della situazione delle formazioni partigiane in montagna e i collegamenti via radio degli Alleati, ma all’epoca degli scioperi si era ancora agli inizi e le radio erano state tutte requisite. Non è un caso che si fosse puntato molto su questo isolamento per tentare di far fallire lo sciopero. In generale comunque continuo a pensare che le valutazioni di Bietolini debbano essere lette tenendo presente questo carattere del dirigente che non giudica dal basso.

Di solito, quando si parla di Resistenza, si ha sempre in mente la figura del ribelle armato che combatte in montagna; sotto tono sembra passare invece la resistenza civile espressa per esempio dagli scioperi. Come mai, secondo lei?

La figura del guerrigliero che vive in montagna e fa uso delle armi, che si scontra e partecipa a sabotaggi e azioni di fuoco, è senza dubbio più epica. Ma io ricordo anche i racconti di mia nonna, operaia al lanificio Rossi, che mi diceva di come tra di loro operai raccogliessero soldi, imboscassero garze, lana per fare un paio di calzettoni da mandare a un partigiano che nemmeno sapevano chi fosse. E questo è anche il motivo per cui la figura della donna è sempre rimasta in secondo piano: perché ha compiuto migliaia di azioni rischiose ma non lo scontro a fuoco, il sabotaggio del ponte o il disarmo della guarnigione. Per ciò che non è lotta armata o si ha la fortuna di avere un memoriale di qualcuno che ha partecipato alla Resistenza civile o altrimenti si rischia di perderne la memoria. Azioni come fare una calza di lana la sera dopo il lavoro possono sembrare banali, ma è anche grazie a queste che i partigiani in montagna sono sopravvissuti.

Ci furono altri scioperi dopo quelli di marzo?

Sì. Nel Quaderno lo cito di sfuggita [pp. 58-59], ma nell’ottobre del 1944 ci fu per esempio un altro sciopero molto importante e ugualmente passato sotto tono, sciopero che fu una risposta alla violenza carnale cui furono oggetto alcune operaie scledensi, precisamente di San Ulderico, da parte di alcuni elementi della Guardia Nazionale Repubblicana (GNR). Quello sciopero segnò definitivamente l’incapacità del fascismo scledense di gestire l’ordine pubblico, perché un’altra volta dovettero intervenire i tedeschi. Il Commissario Prefettizio, Vescovi, si recò subito al lanificio Cazzola, sceso immediatamente in sciopero perché le operaie in questione lavoravano lì: tentò di mediare chiedendo anche i nomi dei colpevoli, ma la notizia si diffuse in città e tutte le fabbriche scioperarono per tre giorni. Ancora una volta dovette venire qui a Schio un ufficiale tedesco che patteggiò il ritorno al lavoro con l’allontanamento della guarnigione della GNR. Questo fu un ulteriore punto a favore dell’antifascismo civile scledense, che però nella storia nazionale, con tutta la sua città, raramente viene citato. La storiografia di matrice comunista, così come le stesse brigate Garibaldi, hanno sempre marginalizzato il Veneto: considerato «la parrocchia d’Italia», a loro non interessava.

Lei sostiene nel suo Quaderno [p. 2] che lo sciopero si proponeva di ottenere alcuni traguardi, sia a livello locale che nazionale: danneggiare i tedeschi, sottrarre gli operai al fascismo e dimostrare agli Alleati la popolarità dell’antifascismo. Possiamo dire oggi che ci riuscì?

Sì. Lo sciopero del Nord ebbe risonanza mondiale, perché fu la più partecipata e clamorosa manifestazione di protesta a livello europeo. Si aveva l’impressione, allora, che la Liberazione fosse una cosa imminente e bisognava quindi dare un segnale che il popolo italiano era antifascista e antitedesco: cosa che fu recepita e commentata dai comandi alleati e dalle loro radio, perché nessun Paese aveva mai messo in campo una protesta di quelle dimensioni. E questo fu lo scopo principale della dimostrazione.

Il titolo del suo scritto sull’argomento è Gli scioperi del marzo 1944 a Schio (Quaderni di storia e cultura scledense, Libera Associazione Culturale «Livio Cracco», Schio, ottobre 2011, pp. 60, 3 euro).

Intervista a cura di Alessandro Pagano Dritto

(da www.vicenzapiu.com)

1 marzo 1944: ondata di scioperi in Italia

p.-2-scioperi_grandeLo sciopero generale attuato nel Nord Italia dall’1 all’8 marzo 1944 costituì  l’atto conclusivo di una serie di agitazioni cominciate, in forme e modalità diverse, già nel settembre 1943, all’indomani della costituzione della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione tedesca, e sviluppatesi soprattutto nei mesi di novembre e dicembre.
Lo sciopero del marzo 1944 presentò tuttavia una sostanziale novità. Esso fu infatti caratterizzato da una precisa matrice di natura politica, mentre le precedenti agitazioni, seppur non prive di risvolti politici, erano state attuate sostanzialmente in un’ottica di tipo economico-rivendicativo e avevano avuto come scopo primario il miglioramento sia delle condizioni salariali, attraverso la richiesta di aumenti, sia della situazione alimentare.
Con lo sciopero generale del marzo 1944 invece “le lotte operaie assunsero un carattere differente” perché si configurarono come una precisa forma di lotta politica antifascista e antitedesca. Deciso su iniziativa dei comunisti e approvato, dopo qualche esitazione dei socialisti, anche dagli altri partiti che facevano parte del Comitato Nazionale di Liberazione, lo sciopero iniziò il 1° marzo nelle fabbriche del “triangolo industriale”, si diffuse rapidamente e per più di una settimana, fino a quando non venne represso dai tedeschi e dalla polizia di Salò attraverso una massiccia azione di rappresaglia e di deportazione dei lavoratori, bloccò gran parte delle attività produttive del Nord Italia.
Secondo fonti repubblichine allo sciopero parteciparono complessivamente 208.549 operai. A Milano gli scioperanti erano stati 119.000 nell’arco di cinque giorni e a Torino 32.600 per tre giorni. Addirittura maggiore risultava per i tedeschi il numero di coloro che si erano astenuti dal lavoro. Poiché Hitler aveva ordinato di deportare in Germania il 20% degli scioperanti, l’ambasciatore tedesco presso la Repubblica Sociale, Rudolph Rahn, calcolò che tale percentuale corrispondeva a 70.000 persone.
Ciò significava valutare gli astenuti dal lavoro in 350.000, cifra veramente imponente. Proprio il consistente numero di coloro che avrebbero dovuto essere deportati, che avrebbe potuto rivelarsi controproducente sul piano politico e avere conseguenze di rilievo sullo sviluppo della Resistenza, indusse poi i tedeschi a ridurre le deportazioni. Anche se «la cifra esatta» dei deportati «non si è potuta avere», non è tuttavia «improbabile che ammontasse a 1200». Occorre inoltre sottolineare che i lavoratori tennero, nella maggior parte dei casi, un atteggiamento fermo di fronte ai tentativi dei dirigenti politici e sindacali repubblichini di indurli a riprendere il lavoro, cedendo alla fine solo per la repressione tedesca.
Preso in considerazione nell’ottica della «dimostrazione politica», lo sciopero generale ebbe “una grandissima importanza”:
Fu la più grande protesta di massa con la quale dovette confrontarsi la potenza occupante: attuata dimostrativamente senza aiuti dall’esterno, senza armi ma con grande energia e sacrifici. E non fu soltanto (assieme a quello dell’anno precedente) il più importante sciopero in Italia dopo vent’anni di dominio fascista, fu anche il più grande sciopero generale compiuto nell’Europa occupata dai nazionalsocialisti.
A ciò si deve aggiungere che «nella sottovalutazione del peso politico dello sciopero generale» non si è tenuto conto “a sufficienza del fatto che esso si svolgeva in un paese sottoposto alle leggi di guerra e dell’occupazione: più di 200.000 operai contemporaneamente in sciopero, dopo un inverno in cui le fabbriche erano state in continua agitazione, tranne che nel mese di febbraio, era un fatto di eccezionale rilievo e significato”.
Lo sciopero ebbe risvolti importanti anche nel favorire lo sviluppo della Resistenza perché, “dopo questa prima prova di forza condotta con armi diseguali”, fece capire che “ormai il tempo degli scioperi era passato”. La “scena dello scontro” quindi “si trasferì sui monti” e apparve chiaro che “soltanto la lotta armata delle bande partigiane contro gli occupanti avrebbe potuto avere successo”.  Non va inoltre dimenticato che le agitazioni diedero il colpo mortale alle speranze dei fascisti di Salò di “agganciare”, attraverso la “socializzazione”, i lavoratori.

Torino in sciopero

A Torino lo sciopero scatta il 1° marzo 1944, nonostante il giorno prima Zerbino, il capo fascista della provincia, abbia comunicato la messa in ferie delle fabbriche, giustificando tale provvedimento con la mancanza di acqua e quindi di energia elettrica. Vengono escluse dal provvedimento una serie di fabbriche, tra cui tutto il complesso Fiat, decisivo per le esigenze belliche.
Seguendo l’appello del Comitato d’agitazione, diffuso nella fabbriche con un volantino clandestino, il 1° marzo scioperano in 60.000; alla sera Zerbino ordina la ripresa del lavoro per l’indomani, 2 marzo, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni in campo di concentramento, licenziamento in tronco e perdita dell’esonero per i lavoratori che hanno l’obbligo del servizio militare.
Nonostante queste minacce il 2 marzo l’esempio degli operai Fiat viene seguito dalla stragrande maggioranza delle fabbriche in attività (Zenith, Viberti, Ceat, Rasetti) e scioperano in 70.000, mentre in città vengono sabotate diverse linee tranviarie.
Il 3 marzo gli operai della Grandi Motori Fiat vengono attaccati dai militi fascisti all’uscita della fabbrica e numerosi sono i feriti. Intorno a Torino intervengono a sostegno dello sciopero le formazioni partigiane insediate ad ovest della città con l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo.
In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero, mentre in Val d’Aosta vengono compiuti atti di sabotaggio a sostegno dello sciopero: vengono interrotte le linee elettriche e danneggiati gli impianti in modo che alcuni dei più importanti complessi industriali della regione vengono paralizzati.
Il 3 marzo la Fiat, seguendo una linea tracciata anche da altri industriali dimostratisi, salvo rare eccezioni, solidali con le forze nazifasciste, decreta la serrata degli stabilimenti. Contemporaneamente, i vertici governativi inviano nelle fabbriche presidi armati. La protesta si protrae fino all’8 marzo, quando il Comitato di agitazione decide la ripresa del lavoro.
La lotta, estesasi successivamente in altre regioni del Nord, assume un significato politico: tradurre sul piano della fabbrica la dichiarazione di guerra consegnata dall’antifascismo torinese al regime fascista fin dall’8 settembre 1943. Al termine degli eventi si stringono le maglie della repressione nazifascista attraverso arresti, ritiri degli esoneri militari e deportazioni nei campi di concentramento tedeschi: circa 400 operai, 178 alla sola Fiat, sono prelevati in fabbrica e portati alla stazione di Porta Nuova, destinazione Mauthausen. Pochi di loro riescono a fare ritorno.
In tutto il Piemonte sono oltre 150 mila gli operai che hanno scioperato.

Testo del volantino clandestino diffuso nelle fabbriche torinesi:

SCIOPERO GENERALE CONTRO LA FAME E CONTRO IL TERRORE

Ancora una volta le masse operaie, strette attorno al COMITATO PROVINCIALE DI AGITAZIONE, scenderanno in lotta per difendere il diritto alla vita e alla libertà di tutto il popolo italiano. Le masse operaie ancora una volta passeranno all’attacco contro i nemici di ogni civiltà, contro i barbari nazifascisti. Le masse operaie scenderanno in lotta contro il terrore e la fame, scenderanno cioè in lotta per difendere la vita di tutti.
L’ora è giunta per dimostrare ai nostri nemici spietati come i torinesi, come i piemontesi formino un solo blocco. Non soltanto gli operai, ma tutti i professionisti, tutti gli impiegati, tutti i cittadini debbono scioperare.

Evviva lo sciopero generale di tutto il grande tenace eroico popolo piemontese.

IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE

(da http://storiedimenticate.wordpress.com)

Questa sera alle ore 20.45 a Schio all’osteria “Due Mori”, Ugo de Grandis e Beppe traversa faranno conoscere una storia poco conosciuta: il 29 febbraio 1944 Schio fu la prima città d’Italia a incrociare le braccia contro il fascismo e la precettazione per il lavoro coatto in Germania. Uno dei tanti primati della città che la storia ufficiale ignora.

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Alvaro Bari: un pilota veneziano nella Resistenza feltrina

Nessun titolo diapositivaA Feltre, nell’Aula Magna dell’istituto “A. Colotti”, sabato 1 marzo 2014 alle ore 11 ci sarà la presentazione del libro “Alvaro Bari – Un pilota veneziano nella Resistenza feltrina”. Saranno presenti gli autori Aurelio De Paoli e Renato Vecchiato.

Questo il prologo di Renato Vecchiato:

Aurelio ed io, nell’autunno del 2012, ci siamo ritrovati in un incontro conviviale tra ex studenti. Accomunati da reciproca curiosità per le nostre radici storiche, c’incamminammo con la conversazione, sul tema delle lotte partigiane della sua terra, il Feltrino. L’argomento incontrò il mio interesse sia per la conoscenza dell’argomento sia per l’ammirazione che nutro, da diversi anni, per la leggendaria figura di comandante partigiano, del “comandante Bruno”, l’ingegnere Paride Brunetti, da poco deceduto. Un uomo che segnò la storia della Resistenza di Feltre e non solo. Così, dopo esserci scambiati reciproche informazioni storiografiche e opinioni personali sulla particolare complessità storica di quei tormentati venti mesi di guerra nel Feltrino, Aurelio mi comunicò di aver iniziato una ricerca su alcuni specifici episodi, in particolare su un giovane Tenente pilota ucciso dai nazi – fascisti vicino a casa sua e con giusto orgoglio m’informò che aveva già raccolto le testimonianze di alcuni anziani e di partigiani.
«Pensa, conosco personalmente un ex – aviere, già Capo Nucleo della nostra Associazione Arma Aeronautica (AAA), che aveva incontrato più volte questo Tenente pilota!» e, con un tono di sfottò etnico campanilistico, affermò: «E son sicuro che neanche giù, da voi a Venezia, si hanno notizie di questo tosàt morto per la libertà!»
«Ma come si chiamava?»
«Tenente pilota Bari Alvaro», scandì con tono militare e aggiunse «trucidato, assieme ad un altro, dai nazifascisti su di un ponte sul Piave, quello che collega Busche a Cesana».
«Bari? Conosco un medico con questo cognome…».
Così, aperta la breccia, Aurelio continuò. Il suo interessamento a quell’avvenimento era iniziato qualche tempo prima. Aveva ben presente la lapide posta all’interno dello storico Istituto Colotti che ricorda il «diplomato Alvaro Bari, il partigiano combattente “Cristallo” morto a Lentiai» quando fu incoraggiato dal Maresciallo dei Carabinieri, Stefano Vagnozzi, a raccogliere ulteriori informazioni su quel giovane. Il fatto di essere allora Capo Nucleo dell’AAA e di abitare poco lontano dal luogo della tragedia lo stimolò ad avviare la ricerca tra gli anziani. Dopo diversi contatti, la sorte lo fece incontrare con un anonimo e impaurito testimone oculare della tragedia. Un anziano che ebbe allora l’onere di aiutare il padre falegname, come lui, a costruire le casse da morto per quei due sfortunati sconosciuti. Con questa straordinaria testimonianza la ricerca si consolidò con l’acquisizione presso il Comune di Lentiai delle copie integrali dei certificati di morte di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda, il suo compagno di sventura. E in questi preziosi documenti trovò trascritti i verbali ufficiali di ritrovamento che confermavano la testimonianza.
Aurelio terminò dicendomi di essere un po’ preoccupato perché non voleva turbare con la sua ricerca la sensibilità dei famigliari di Alvaro. Mi chiese allora di verificare se c’era qualche parentela con i miei conoscenti e, se ci fosse stata, di sentire la loro disponibilità a riaprire quella dolorosa ferita per ricordarne la memoria.
La fortuna l’ha assistito una seconda volta. La casualità aveva fatto incontrare i nostri interessi rispetto a questa dolorosa storia. Un Feltrino e un Veneziano, per un eroe veneziano d’origine ma feltrino d’adozione.
Così, dopo aver avuto da due nipoti, Mario e Giorgio Bari, il ringraziamento per il suo impegno a far conoscere il loro congiunto, ho dato anch’io la mia disponibilità a proseguire e sviluppare la sua bozza iniziale, per la quale era stato già incoraggiato anche dalle parole del Vice Presidente della Sezione AAA di Treviso, il Ten. Col. Augusto Costantini :
[…] Aurelio contribuisce a farci conoscere queste storie ingiustamente sconosciute o dimenticate e che comunque non dovrebbero mai più ripetersi. Il lavoro, scritto con passione, è molto interessante […]»
Aurelio non ha solo il merito di aver promosso l’iniziativa, ma anche di aver coinvolto i seguenti testimoni feltrini:
– Romildo De Bastiani, artigiano muratore di Pont di Feltre.
– Carlo Gris, artigiano, figlio del comandante partigiano Oreste, “Tombion” di Menin di Cesiomaggiore.
– Sergio Samiolo, partigiano “Sam”, taxista, ex – aviere aiuto autista, amico di Alvaro. Capo nucleo della AAA di Feltre dal 1989 al 2003.
– Umberto Tatto, partigiano “Leone”, giovanissima guida nella ritirata della Brigata Gramsci durante il rastrellamento nazifascista delle Vette feltrine; capo cantiere dell’impresa “Lodigiani”.
– Mauro Velo, falegname, testimone oculare della fucilazione di Alvaro Bari e di Giorgio Gherlenda.
Il mio impegno si è focalizzato soprattutto nella ricerca documentale e bibliografica riguardante la vita di Alvaro, breve ma densa dei tragici avvenimenti dell’epoca. Per fare questo ho coinvolto molte altre persone, tra i primi i nipoti Mario e Giorgio Bari; a quest’ultimo va anche il merito di aver rintracciato il fascicolo del processo a Niedermayer presso il Tribunale Militare di Verona, oltre che aver seguito con sensibilità e passione il lavoro.
Tra i tanti contributi di collaborazione personalmente ricevuti, ricordo con gratitudine quelli forniti: dalle signore Fiorenza Lovera e Cristina Gherlenda (nipoti di Gherlenda); dal dirigente scolastico e dalla direttrice amministrativa dell’istituto Andrea Colotti di Feltre; dai funzionari dei diversi Comuni interpellati (tra i quali Feltre, Lentiai, Cesiomaggiore, Fiera di Primiero, Venezia, San Stino di Livenza, Noale, Loreggia); dai responsabili dei due Istituti di storia della Resistenza: Isbrec (Belluno) e Ivsrec (Padova); dai parroci di Pez, Lentiai e Primiero; dai funzionari del Ministero della Difesa (Divisione Documentazione Aeronautica di Roma, Centro di documentazione militare di Padova, Tribunale Militare di Verona) e, (non ultimi!) dagli storici citati in bibliografia, specialmente Giuseppe Sittoni.
Un ringraziamento particolare:
alla professoressa Liana Bortolon, coetanea ed amica d’infanzia della giovane fidanzata di Alvaro, per avermi concesso un’intervista telefonica;
al professor Giovanni Perenzin per aver fornito, da attento e scrupoloso studioso feltrino della Resistenza, molte e dettagliate osservazioni nella stesura finale del libro.
Renato Vecchiato

Venerdì 14 febbraio: Domenico Gallo “Da sudditi a cittadini”

gallo1La Costituzione è – dovrebbe essere – il patto, la regola fondamentale per la convivenza di un popolo. Un insieme di valori, di principi e di norme vincolanti. E invece, sempre più spesso, la si considera una sorta di reliquia. Nella migliore delle ipotesi essa viene considerata un simbolo, come la bandiera o l’inno nazionale, ma non incide sulla vita quotidiana dei cittadini e delle istituzioni. C’è chi la considera un documento storico superato, suscettibile di essere modificato a piacimento. Il libro di Domenico Gallo – magistrato e giurista di grande cultura storica e politica – reagisce a questo atteggiamento e lo fa ricostruendo la storia, i movimenti, gli eventi che hanno portato alla Costituzione; evidenziando chi l’ha voluta e chi l’ha ostacolata; esplicitando la portata dei principi in essa affermati. Tutto questo con l’ausilio di materiali storici, documenti, filmati raccolti in uno specifico CD-Rom allegato. Un libro per tutti, particolarmente prezioso per studenti e insegnanti.

Venerdì 14 febbraio alle ore 20.45 Domenico Gallo sarà presente nella sala conferenze di Villa Errera a Mirano per presentare il suo libro. Introduzione a cura di Francesco Baicchi, coordinatore nazionale della “Rete per la Costituzione”.

http://www.magistraturademocratica.it/mdem/qg/stampa.php?id=132

Nella giornata del ricordo oltraggio ai partigiani

Simbolo-ANPIIn occasione della giornata del ricordo veniamo informati di un’iniziativa organizzata dall’Anpi di Cadoneghe in collaborazione con l’Anvgd di Padova, con la partecipazione di Maurizio Angelini, Italia Giacca e Adriana Ivanov dell’Anvgd di Padova. Come Anpi di Mirano esprimiamo la nostra assoluta contrarietà all’iniziativa e siamo sconcertati per il titolo dato a questo convegno. Le due lettere che seguono sono dell’Assessore ai Lavori Pubblici di Cadoneghe, Silvio Cecchinato, e della storica  Alessandra Kersevan, ed esprimono benissimo anche il nostro pensiero.

Anpi “Martiri di Mirano”

Sono l’assessore ai LL.PP. e Protezione Civile di Cadoneghe (PD) nonchè ricercatore di storia della Resistenza Padovana che ha espresso il proprio sdegno alla Amministrazione e alla Presidenza ANPI locale per una iniziativa che definisco offensiva per la memoria e il sacrificio dei Caduti della Resistenza. Il fatto che la commemorazione e il volantino-invito sia stato redatto di concerto tra la presidente e il vice presidente ANPI rispettivamente di Padova e della Regione Veneto è per me  un fatto di inaudita gravità. La prof.ssa Ivanov, figlia di un fascista  ha operato con gli ustascia in Croazia è autrice di un libello di manipolazione storica di concerto con la provincia di centro destra di Padova. Nel merito ho già avuto modo di polemizzare nella passata veste di Assessore alla Cultura del Comune partigiano di Cadoneghe. Mi fermo qui per lasciare a Voi tutti una valutazione nel merito. Fraterni Saluti.

Assessore Cecchinato Silvio

Caro Silvio, grazie per questa tua decisa presa di posizione. La deriva non ha ormai più fine. Credo che i vari circoli ANPI debbano chiedere conto a Angelini e agli altri soggetti dell’ANPI coinvolti in questa operazione. Questo titolo dell’iniziativa è un oltraggio alle migliaia e migliaia di comunisti che sono morti ammazzati dai fascisti per liberare l’Italia dal nazifascismo e per la Costituzione. Questo titolo mette partigiani e repubblichini sullo stesso piano, obiettivo che Violante e Fini hanno cercato di realizzare già nel 1997 trovando allora molta opposizione, ma evidentemente ora gli sforzi massmediatici e di altro tipo degli ambienti antipartigiani che fanno riferimento all’ANVGD stanno raggiungendo l’obiettivo, confondendo ormai vittime e carnefici, guerrafondai e difensori della libertà anche nella lotta di liberazione italiana, come sono riusciti a fare con quella jugoslava. Credo che non si possa ormai più far finta di niente, che la dirigenza nazionale dell’ANPI debba prendere una posizione precisa, contro le posizioni del responsabile dell’ANPI del Veneto.

Alessandra Kersevan

Questo il video in cui Alessandra Kersevan spiega gli avvenimenti del confine orientale:

Un importante articolo di Sandi Volk sul fenomeno dell’esodo:

https://drive.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMbWZ4ODBSQ0FrVGs/edit?usp=sharing

Lettera del Presidente dell’Anpi di Salò, Paolo Canipari, sulla vicenda:

Ciao e buongiorno,
ho ricevuto e letto la comunicazione dell’ANPI di Mirano( VE ) che esprime la netta contrarietà ad una iniziativa della Sezione ANPI di Cadoneghe ( PD ) , che la vede coinvolta in un dibattito pubblico insieme all’Associazione ANVGD. Mi associo a quanto denunciato dall’ANPI di Mirano e vi porto a conoscenza della lettera che ho inoltrato al Consiglio Direttivo provinciale di Brescia ( di cui faccio parte ) e ad altri indirizzi , per cercare insieme di affrontare e far conoscere , nel più adeguato dei modi, un argomento che penso non sia sufficientemente conosciuto nei suoi aspetti storici.

Cari compagni,
Quando alcune sezioni dell’ANPI non sono adeguatamente informate su quanto accadde in quel periodo storico, succede di cadere in queste ” brutte e cattive ” iniziative, che l’ANPI di Cadoneghe ha intrapreso per commemorare la ” Giornata del ricordo “. E’ successo anche qualche anno fa, a Vobarno (BS) dove, anche nella buona fede del Sindaco ( mio amico e compagno e iscritto all’ANPI – antifascista DOC ) su suggerimento di ” amministratori comunali di Brescia ” si invitò il ” noto” Rubessa dell’ANVGD di Brescia per l’esposizione di una Mostra e per un dibattito pubblico. Meno male, che l’ANPI di Vobarno ( con il segretario Vezzola ) e il sottoscritto intervennero per sminuire le ” porcate ” del suddetto Rubessa.
In questi giorni è apparsa e sta imperversando nella mia Zona (specialmente nelle scuole) – a Salò ( ahimè la mia città ), Gavardo , Moniga ( dove addirittura il Comune l’anno scorso ha concesso ” La cittadinanza onoraria ” ), la ” testimone ” Nadia Cernecca – figlia ( allora aveva 7 anni ) di ” una vittima del diffuso propagandato odio dei partigiani di Tito verso gli italiani ” così è la presentazione ufficiale con la quale si presenta, a nome di un’altra fantomatica Associazione – Ass.Naz C(ongiunti)D(eportati)I(taliani) in J(ugoslavia).(??) – ( Notizia dell’Ultimo minuto, mentre sto scrivendo – e con beneficio di inventario: mi dicono che il Sindaco di Gavardo ha annunciato un collegamento in diretta con ” Porta a Porta ” proprio con la loro iniziativa con la Cernecca.. Udite – udite).
E nelle sezioni ANPI ancora l’argomento non è sufficientemente conosciuto, nonostante il convegno organizzato dalla Commissione Scuola – il 31 gennaio 2005 – a Cellatica ( BS ) e i continui interventi sul nostro periodico provinciale ” Ieri e Oggi Resistenza”.
Varrebbe la pena, secondo il mio parere, organizzare un seminario, una giornata di studio ..un qualcosa.. sull’argomento.
Una ” sventagliata di falsità” da parte di questi figuri – che si atteggiano a ” storici “, e di fronte specialmente a studenti storicamente impreparati, cancella in un battibaleno il prezioso e costante lavoro che tante Sezioni dell’ANPI svolgono in occasione della ” Giornata della Memoria”, o del 25 aprile o del 2 giugno..
In vista delle prossime scadenze elettorali, varrebbe la pena “informare” che anche la generazione dei “nuovi ” Amministratori dovrà fare riferimento ai principi dell’antifascismo, così come sanciti dalla nostra Costituzione e così tenacemente da salvaguardare nei suoi principi fondamentali ( come ci sta sollecitando il nostro Presidente Smuraglia).
Anche la scuola oggi dimostra scarsa attenzione ai periodi storici succedutisi dalla nascita della nostra Repubblica.
Lo dico come Presidente dell’ANPI di Salò, una città quasi solamente conosciuta a livello internazionale per la sua antistorica assonanza nominale di capitale della RSI ( da qui ” repubblica di Salò “) e magari non conosciuta come città natale dell’ottava vittima della strage di Piazza Loggia del 1974 ( il compagno Vittorio Zambarda ). Io stesso ero presente quella mattina e mi sono salvato solo perchè appoggiato ad una colonna. E si fa fatica a rendere l’episodio come parte della ” storia ” della città: a 40 anni di distanza. Ma anche qui , se chiedete alle nuove generazioni della mia zona se hanno qualche informazioni o conoscenza della carneficina. Risposta: quasi niente !! ( o magari sono state le brigate rosse!!).
Per ultimo: vi ricordo che proprio a Salò, la mia sezione ha in corso la esposizione della Mostra ” Testa per dente ” curata , curata dagli storici che fanno riferimento alla casa editrice “Kappavu ” di Udine (di cui fa parte anche la dott.ssa Kersevan – autrice della lettera inviata all’ANPi di Cadoneghe – inserita nell’allegato).
(Non me ne voglia la sezione ANPI di Cadoneghe: avranno sicuramente modo di rimediare a quello che è, sicuramente, un incidente di percorso. Anzi: li invito a Salò per un cordiale incontro).
Paolo Canipari – Presidente Sezione ANPI di Salò

Lettera di Renzo Giannoccolo a Carlo Smuraglia:

Signor Presidente Carlo Smuraglia,

il 25 luglio 2012, in quel di Gattatico (RE), l’ASSOCIAZIONE NAZIONALE PARTIGIANI D’ITALIA, da Lei presieduta, e l’ISTITUTO ALCIDE CERVI, sottoscrissero il documento/manifesto “Per un nuovo impegno e una nuova cultura antifascista”.
La lettura del documento fece immediatamente breccia su di me e, a partire dal mese di settembre dello stesso anno, iniziai una lunga serie di telefonate, contattando compagne e compagni della CGIL – anche di Avellino e Alessandria – dello SPI, dell’ANPI – locale e provinciale – di ISTORECO e dell’ISTITUTO CERVI.
Con il prezioso contributo di tutti, compresa l’Amministrazione comunale di Correggio, organizzammo, nelle giornate del 15 e 16 dicembre 2012, un evento che recepiva il titolo del documento/manifesto del 25 luglio: “PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA”. “FINE SETTIMANA RESISTENTE” che comparve anche sul sito dell’ANPI nazionale.
Allego il link http://www.anpi.it/eventi/per-un-nuovo-impegno-e-una-nuova-cultura-antifascista__20121215/

In questi giorni, frequentando le pagine di facebook, leggo che il 17 febbraio prossimo, in quel di Cadoneghe (PD), in occasione del “GIORNO DEL RICORDO”, si svolgerà un dibattito dal titolo più che emblematico: “Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti; siamo italiani e crediamo nella Costituzione”.
Il dibattito è organizzato da ANPI Veneto e Padova (sigh!) e da ANVGD di Padova, e vede la partecipazione, tra le altre persone, del sindaco di Cadoneghe.
Allego link https://www.facebook.com/photo.php?fbid=620027838067924&set=a.502872946450081.1073741827.100001821392324&type=1&theater
Ora, mio chiedo e Le chiedo: dove trovano piena cittadinanza e coerenza il “Nuovo impegno e la nuova cultura antifascista”?
Nella iniziativa svolta a Correggio il 15 e 16 dicembre 2012 o in quella programmata a Cadoneghe per il 17 febbraio prossimo?
La sezione ANPI di Cadoneghe ha letto il documento/manifesto del 25 luglio 2012? In caso di risposta affermativa, perchè organizza una iniziativa che va in direzione opposta e contraria?

Signor Presidente Carlo Smuraglia,
nel ricordarLe la Sua puntuale e tempestiva presa di posizione, nel 2011, di fronte alla proposta di legge (primo firmatario Gregorio Fontana del Pdl), di equiparare i repubblichini di Salò ai Partigiani (il link) http://www.repubblica.it/politica/2011/05/31/news/pdl_propone_riconoscimento_ex_combattenti_sal_per_loro_contributi_statali_come_per_anpi-17031066/?ref=HREC1-5
Le chiedo cortesemente e, altrettanto fermamente, anche in qualità di iscritto all’ANPI, di PRENDERE DECISAMENTE LE DISTANZE DALL’INIZIATIVA DI CADONEGHE e, per quanto Le sarà possibile, attivarsi affinchè non si compia l’ennesimo scempio e l’ennesima violenza contro coloro che hanno combattuto e, in troppi, dato la vita per la Liberazione dell’Italia che nulla e, ribadisco, nulla hanno avuto in comune con coloro che hanno combattuto a fianco dei nazisti per l’occupazione del nostro Paese e che la Libertà ci volevano togliere.
E per rispetto dei tanti e tante che, in una situazione politica, economica, sociale e culturale sempre più drammatica, si battono quotidianamente.
PER UN NUOVO IMPEGNO E UNA NUOVA CULTURA ANTIFASCISTA.

Con Affetto e Cordialità

Renzo Giannoccolo