27 gennaio 1945: Yakov Vincenko alla testa della divisione di fanteria 322 dell’Armata Rossa entra nel campo di Monowitz (Auschwitz)

“Nell’ombra, avvertii una presenza. Strisciava nel fango, davanti a me. Si voltò e apparve il bianco di occhi enormi, dilatati. Tacemmo: da lontano ci investiva l’eco smorzata degli scoppi. Tra i due, solo io sapevo che erano i colpi dell’artiglieria tedesca in fuga. Pensai ad uno spettro, mi assalì il dubbio di essere stato colpito, magari ucciso. Non sognavo, ero di fronte ad un morto vivente. Dietro a lui, oltre la nebbia scura, intuii decine di altri fantasmi. Ossa mobili, tenute assieme da pelle secca ed invecchiata. L’aria era irrespirabile, un misto di carne bruciata ed escrementi. Ci sorprese la paura di un contagio, la tentazione di scappare. Non sapevo dove fossi sbucato. Un commilitone mi disse che eravamo ad Auschwitz. Abbiamo proseguito, senza una parola”.

Yakov Vincenko ha 79 anni ed è uno degli ultimi liberatori sopravvissuti dell’Armata Rossa sovietica. Raggiunse il campo di sterminio con la divisione di fanteria numero 322, fronte ucraino. Aveva 19 anni. Venti mesi prima era stato ferito nella battaglia di Kursk, quasi due milioni di soldati russi uccisi dai nazisti.

“Ho passato il primo filo spinato alle 5 di mattina: era buio, sabato 27 gennaio 1945. Non era gelido, solo tracce di neve marcia. La sera prima, nella notte, il combattimento aveva preteso molte vite. Temevo i cecchini lasciati di guardia. Al riparo di un bidone ho visto il maggiore Shapiro, un ebreo russo del gruppo d’assalto della centesima divisione, spalancare un grande cancello. Dall’altra parte un gruppo di vecchi minuti, ma erano bambini, ci ha sorriso. Solo dopo anni ho appreso di aver assistito allo schiudersi dell’ingresso dell’inferno, sotto la scritta “Arbeit macht frei”. Mi sono alzato per avanzare. Ho guardato nel bidone: era colmo di cenere, emergevano frammenti di ossa. Non ho capito che erano resti di chi era stato là dentro”.

Yakov Vincenko, sessant’anni dopo, è seduto ad un tavolo nella sede del comitato dei veterani di guerra, nel centro di Mosca. Sopra di lui i ritratti di Marx, Lenin, Stalin e del generale Zhukov.

“Un tipo con cui era meglio non discutere. Stalin gli aveva ordinato di non risparmiare soldati. Lui ha onorato l’impegno”.

È ancora un uomo asciutto, rigido ed eretto sopra stivaletti con un certo tacco: quando cammina è costretto a procedere spedito. Veste come un povero, gli abiti lisi sembrano non appartenergli. Tra pochi giorni sarà a Cracovia e tornerà alla polacca Oswiecim. Alla commemorazione della liberazione del campo di sterminio, assieme a 48 capi di Stato e ad una folla di anonimi, andrà con gli ultimi due compagni d’armi: uno vive a San Pietroburgo, l’altro a Minsk, in Bielorussia. Non è la storia dalla parte dei liberatori: l’orrore piuttosto, osservato con gli occhi stanchi e spaventati di soldati che non poterono riconoscere la sua dimensione.

“Mi hanno chiesto di ricordare ancora ma invecchio e il mio passato si confonde. Scopro sui libri attimi che ho vissuto e mi sorprendo. L’emozione però non accetta di liberarmi. È la seconda volta che riesco a tornare nel campo, non è un viaggio che si esaurisce in una visita. Un’ex internata ebrea mi ha scritto di lasciare un sasso per lei: non ha mai trovato la forza di rivedere la baracca e il forno crematorio che hanno inghiottito la sua famiglia”.

Il vecchio soldato, una pensione di guerra da 60 euro al mese, sul fronte occidentale russo ci finì per caso e
quasi bambino. Sorte e adolescenza rubata, incoscienza, hanno condotto i suoi passi nel labirinto dell’Olocausto,
ancora ignorato.

“Era l’estate del 1941 e vivevo a Mosca. Finita la scuola, fui mandato dai genitori a Vinnitza, in Ucraina, il nostro villaggio natale. Avrei dovuto aiutare il nonno in campagna. Due settimane dopo, per non lasciare ai tedeschi nemmeno i ragazzi, mi precettò l’Armata Rossa. Giochi, sogni, progetti, sono crollati in un giorno: a 15 anni mi sono ritrovato soldato, una baionetta del 1891 in spalla e le granate che ci stavano nelle tasche. Ero fortunato: l’esercito sovietico era così sguarnito che solo uno su quindici aveva il fucile. Per questo, mi sono salvato”.

Quattro anni tragici, tra disperazione, fame e attesa della fine. L’armata nazista avanzava verso il cuore dell’Urss. L’assedio a Leningrado, il massacro alle porte di Mosca: e Hitler che fino alla disfatta di Stalingrado, sembrava inarrestabile. Yakov Vincenko sparò il suo primo colpo a Voronezh nel 1942, agli ordini del generale Vatutin.

Nessuno mi aveva spiegato come comportarmi. Il Fronte ucraino era un’armata di bambini, spinta avanti per localizzare i nemici e consumare le munizioni dei tedeschi. Dopo otto mesi di resistenza nel sud della Russia, siamo avanzati verso l’Ucraina. Dai tre ai venti chilometri al giorno: a Kursk, a Kiev nel 1943, in Galizia e infine a Sandomir in Polonia. Nell’autunno del 1944 ormai il morale era cambiato, i nazisti erano in rotta. Quando abbiamo conquistato Cracovia, ai primi di gennaio del 1945, i generali ci dissero che se riuscivamo a sopravvivere ancora pochi mesi, saremmo tornati a casa”.

Non finì così. L’Unione Sovietica aveva perduto tra i 25 e i 30 milioni di persone, l’esercito era decimato.
Vincenko, ormai un uomo ferito quattro volte, il 9 maggio apprese di essere un vincitore a Praga: ma a casa è tornato sette anni dopo, non trovando più qualcuno ad aspettarlo.

“Quel giorno ad Auschwitz — dice — è diventato centrale nella mia vita solo quando anche il mondo ha elaborato una coscienza della verità e della vergogna. Nemmeno noi, che abbiamo visto, ci volevamo credere. Ho sperato per anni di riuscire a dimenticare: poi ho capito che sarebbe stato comportarsi da colpevole, diventare complice. Così, ricordo. Non sono riuscito a comprendere come sia potuto succedere, ma a chi nega l’Olocausto dico: credete a me, che quando ero lì ho cercato di convincermi che non fosse vero”.

Le truppe di Stalin non sapevano cosa fosse un campo di sterminio. Solo gli alti comandi, a Cracovia, erano stati informati di trovarsi sulla strada del Lager di Auschwitz-Birkenau. Il 18 gennaio, alla vigilia dell’offensiva, gli ufficiali sovietici appresero che dal campo era stata fatta partire una colonna di 80mila prigionieri, scortata dai nazisti verso la Germania. Da dicembre, Himmler aveva ordinato di cessare le esecuzioni e di demolire le camere a gas.

“Tra noi e le baracche si frapponeva una tripla linea di difesa tedesca. Dovevamo superare la Vistola e il fiume Sola, i ponti e i campi erano minati. Il 25 gennaio il generale Fiodor Kravasin fece avanzare fucilieri e carristi, rinforzati da un gruppo d’artiglieria. Sono morti a centinaia, costruendo ponti di legno nella corrente. Una resistenza tanto accanita, da parte dei nazisti in ritirata, ci sembrava insensata”.

I vertici delle “SS” avevano dato ordine di distruggere le prove del genocidio, di sterminare gli ultimi testimoni della “Soluzione Finale”.

“Sapemmo poi che la notte prima dell’assalto un ufficiale tedesco, dopo la cattura, aveva confessato ai nostri che il forno crematorio di Birkenau era pronto per saltare in aria. Il maggiore Malenko, con due artificieri, due elettricisti e una pattuglia di esploratori, evitò che esplosioni e fiamme cancellassero forni, camere a gas, baracche e fosse comuni”.

Non è stata invece eroica la liberazione di Auschwitz del soldato semplice Yakov Vincenko.

“Dopo la mezzanotte del 27 gennaio fui svegliato e buttato avanti. Camminavo alla cieca, spinto da sonno e paura: non mi sono nemmeno accorto di essere entrato nei 40 chilometri quadrati occupati dai 39 campi di lavoro, detenzione e sterminio del complesso di Auschwitz, Birkenau e Monowitz”.

L’ordine ufficiale era di non fermarsi, di inseguire i tedeschi per farli arretrare.

“Il comandante della prima compagnia, Maksim Ciaikin  fu centrato da una raffica esplosa da una torre di avvistamento. Seguì un sanguinoso fuoco a corta distanza. Poi il silenzio, quasi fossimo penetrati nel vuoto. Per mezz’ora, passati i reticolati e fino al cancello, ho camminato da solo e nel fango. Non era giorno quando ho in­contrato il primo morto vivente ed è stato meglio così”.

Ora cita a memoria i numeri dell’Olocausto di Auschwitz, avvertendo della sua incertezza: 1 milione e 300 mila morti, o 3 milioni, o 6 milioni, ancora non sa. Nove su dieci erano ebrei: gli altri zingari, omosessuali, prostitute. Fino a 5 mila vittime al giorno, con i forni a pieno regime. I 600 evasi in quattro anni, 400 dei qua­li ripresi, impiccati davanti ai compagni dopo essere stati costretti a marciare a ritmo di musica sotto il cancello principale. Al collo un cartello: “Evviva, sono tornato”.

“Ma io ho incontrato solo spettri. Quando siamo entrati, nel campo restavano 17 mila prigionieri. Donne, bambini, malati: erano incapaci di muoversi, per questo erano stati abbandonati nelle baracche. I tedeschi non avevano avuto il tempo di ammazzarli tutti. C’era una puzza asfissiante, l’odore dolciastro e acre della morte che ancora mi pare di sentire. Sono passato davanti a scheletri accovacciati nella melma gelata. Non parlavano, mi seguivano con sguardi di terrore. Gli ultimi giorni, per fare in fretta, i nazisti li fucilavano a migliaia sul bordo delle fosse comuni. Poi bruciavano tutto. Così sono stati inceneriti anche 29 su 34 depositi di beni sequestrati ai deportati. Ho aperto le porte di quattro baracche: in ognuna 24 persone, polacchi, russi, francesi, tutti ebrei. Erano stesi, moribondi: qualcuno pregava, credevano li ammazzassi. Sulla tuta a righe, esibivano la scritta “Ost”, o la stella di Davide. Uno mi mostrò un numero tatuato sull’osso di un braccio. Le assi erano coperte di stracci ed escrementi, si soffocava. Non posso dire di aver percepito felicità, mentre dicevo loro che erano liberi. Li vedevo sollevati, gli occhi si riaccendevano: ma non avevano la forza di reggere una gioia”.

Fu uno dei mattini più disperati del mondo. Solo la vaghezza contingente della realtà salvò i liberatori dall’abisso della Shoah.

“Non avevamo tempo per sostare, i sopravvissuti erano allo stremo, la maggioranza non parlava russo. Alcuni francesi mi hanno seguito per scappare, un gruppo di ebrei polacchi si è dileguato tra gli alberi, accennando una corsa. Una bambina mi si attaccò ai pantaloni, credo per cercare cibo. Il tenente maggiore Subotin mi avvertì che potevo contrarre qualche virus, ero spaventato. Sapevo che stavano arrivando gli ufficiali medici e le cucine da campo: la lasciai lì, mi vergogno. Ancora la penso, mi chiedo se sia stata salvata, come altri 2.819 detenuti, se sia vissuta e come, se l’esistenza le abbia riservato un risarcimento: e se ricorda il soldato sovietico, poco più grande di lei, che non ha avuto il coraggio di prenderla in braccio”.

Yakov Vincenko si ferma e tace, restando a guardare con un sorriso ambiguo. Dopo una pausa, simile alla ricerca abituale di un’espiazione, aggiunge che però non esistono parole per descrivere, che non l’aveva mai fatto prima. E che l’esultanza, la sicurezza degli eroici liberatori sovietici, la riconoscenza dei sopravvissuti liberati, l’ha scoperta soltanto nei film.

“La verità è che quel 27 gennaio nessuno di noi soldati si rese conto di aver varcato un confine da cui non si rientra, e che i prigionieri non seppero raccontare. Era chiaro che su Auschwitz incombeva qualcosa di terribile: ci chiedevamo a cosa fossero servite centinaia di baracche, quelle ciminiere, certe stanze con le docce che emanavano un aroma strano. Pensai a qualche migliaio di morti, non allo Zylkon B e alla fine dell’umanità”.

Era mezzogiorno quando il comandante Lebedev alzò la bandiera rossa sopra il cancello di Birkenau. Yakov Vincenko era già lontano, sette chilometri più avanti, alle porte della cittadina di Oswiecim per braccare i tedeschi e strappare loro i prigionieri.

“Solo allora un gruppo di bambini sciamò da una baracca che sembrava vuota e osò gridare “libertà, libertà” nel campo semideserto. La sera me lo raccontò un compagno, ucciso poi sull’Oder, al mio fianco. Ma io quelle grida non le ho sentite, ad Auschwitz non ho incontrato vita, o la speranza. E nella notte mi sono lavato la divisa. L’unica volta, da quando mi sono svegliato in guerra”.

( da un articolo di Giampaolo Visetti apparso su “Repubblica” il 16 gennaio 2005)

Primo Levi, testimone diretto dell’arrivo dei  soldati russi nel campo di Auschwitz così descrisse le sue sensazioni di quel giorno ne “La tregua”:

…Nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia.
Queste cose, allora mal distinte, e avvertite dai più solo come una improvvisa ondata di fatica mortale, accompagnarono per noi la gioia della liberazione. Perciò pochi fra noi corsero incontro ai salvatori, pochi caddero in preghiera.

Gli ultimi giorni del campo di Auschwitz (Oświęcim): distruzione dei forni crematori

Un giornale del 20 gennaio 1945 riporta la notizia dell'offensiva sovietica

L’avanzata delle truppe sovietiche comandate dal generale Zukov in Polonia, in direzione della Germania, obbligò i gerarchi hitleriani a evacuare i prigionieri da decine di lager e a distruggere gli impianti di sterminio. Era il 18 gennaio: i nazisti ordinarono l’evacuazione generale di Auschwitz, era mezzanotte.
L’ultimo trasporto dei prigionieri verso Auschwitz avvenne a piedi.  Nei giorni che precedettero la liberazione c’era nei prigionieri – secondo quanto riferirono i pochi sopravvissuti – una tensione drammatica. Nel campo si trovavano soprattutto coloro che non potevano camminare.
Fu fatto l’ultimo appello generale. Nel campo erano presenti 68.000 detenuti tra uomini e donne. Tra questi, 31.894 nel campo-madre e a Birkenau, 35.118 a Monowitz e nei sottocampi. Lo stesso giorno, il medico capo SS Lieutenant Horst Paul Fischer dette ordine di trasportare l’archivio dell’infermeria nel KL Auschwitz nell’area di fronte al Blocco n.11 per bruciarlo. Per tutta la notte e il giorno seguente il falò di documenti arse. La stessa cosa fu messa in atto a cura del personale medico, sia a Birkenau sia nei campi ausiliari. Cataste di libri e documenti vennero bruciati anche in vari altri uffici.
Il 18, i prigionieri dell’infermeria di Birkenau furono divisi in tre gruppi, quelli in grado di camminare per 50 chilometri, quelli in grado di camminare per tre chilometri da avviare verso una stazione ferroviaria, quelli totalmente inabili a camminare. In meno di 10 giorni, una massa enorme di prigionieri venne fatta uscire dal complesso di Auschwitz e diretta a piedi verso i KL a occidente. Si trattava di circa 59.000 persone. Ne restavano al campo 9.000.
Il 20 gennaio 1945, una divisione SS, comandata dalla SS Perschel, penetrò nel campo femminile di Birkenau, BIIe e uccise circa 200 donne inabili non aggregate alle colonne di evacuazione, poi si recò nel campo maschile BIIf per scegliere dei prigionieri da adibire alla distruzione totale con dinamite dei crematori II e III, già smantellati.
Oggi sono rimasti soltanto i ruderi della camera gas e del crematorio.

I resti del crematorio III

Il 20 gennaio un gruppo di prigionieri rimasto nel campo BIIf evase da Birkenau riuscendo a salvarsi presso contadini polacchi, tra di loro Kazimierz Smolen, futuro direttore del Museo Statale di Auschwitz costituito dopo la liberazione.
Anche gli ultimi giorni nel campo furono angoscianti e pieni di pericoli per i prigionieri, perché divisioni di SS o gruppi sparsi in ripiegamento, passando da Birkenau, uccidevano quelli che vi trovavano.
Una parte dei detenuti rimasti nel campo abbandonato, malgrado l’estrema debolezza, cercò di organizzare un sia pur minimo servizio sanitario per gli ammalati gravi e un razionamento dei cibi rimasti nelle cucine. Il 21 gennaio in particolare, i prigionieri identificarono le provviste del magazzino del KL Auschwitz e le distribuirono anche a Birkenau dove risultarono sufficienti per una settimana.
Il 23 gennaio un’altra divisione SS comparve a Birkenau con il compito di dar fuoco alle 30 baracche-magazzino del Kanada (il deposito dei vestiti e della roba dei deportati). L’incendio durò parecchi giorni.
Il 27 gennaio 1945, mentre soldati della Wermacht in ritirata facevano saltare il ponte ferroviario sulla Vistola e la Sola, il soldato dell’esercito russo  Yakov Vincenko apparve sul terreno dell’infermeria di Monowitz.

Mirano: 17 gennaio 1945

Per commemorare i partigiani uccisi, venerdì 18 gennaio alle ore 20.45 nella sala conferenze di Villa Errera si terrà un incontro – dibattito con lo storico Davide Conti sul tema : “Inverno ’44 – ’45 tutti a casa”. Presenzierà Diego Collovini Presidente dell’Anpi Provinciale. Volantino.

Da un’intervista a Carlo Toniolo del 2002:
Ero a prendere il cavallo e mi trovavo tra i due ponti.
Che ora era?
Di mattina, le otto, otto e mezza.
Che stagione?
Era freddo sì, era il 17 gennaio 1945; e trovo questi due ammanettati con uno da una parte e uno dall’altra, altri due e l’ultima fila tre. Due e due quattro e tre sette ammanettati così.
Non ne conosceva nessuno?
No, neanche uno. Erano bianchi in faccia!
Erano giovani?
Giovanissimi! Mi sembrava quasi che qualcuno avesse quindici anni. Erano bianchi, sapevano che andavano a morire. Quando siamo stati in piazza abbiamo sentito gli spari.
Erano quelli fucilati alla mura del cimitero?
Sì. Adesso la mura è più bassa perché una volta non c’era l’asfalto, era terra battuta: qualcuno ha sparato in alto per non colpirli, si vedono i fori in alto.

Nell’ottobre del 1944 una pattuglia della Brigata Volga, comandata da Oreste Licori, catturò il tenente delle SS italiane Vasco Mingori e, forse per uno scambio di prigionieri andato male, l’ufficiale venne ucciso nell’accampamento della “Luneo”. Elda Gallo, sorella del segretario del fascio di S. Maria di Sala fu catturata e giustiziata come spia nell’accampamento della “Volga”.
A Mirano il comandante delle Brigate nere Mario Zagari, grazie alla segnalazione di una collaborazionista, poi giustiziata dai partigiani della “Luneo”, arrestò Oreste Licori mentre faceva visita alla madre. Il giovane venne fucilato il 1° novembre 1944. Seguirono numerosi arresti tra i partigiani della “Luneo” grazie alle rivelazioni di una spia che si era introdotta nella formazione. Sei giovani furono torturati a morte nella notte tra il 10 e l’11 dicembre. I cadaveri vennero gettati ed esposti per tutto il giorno nella piazza del paese, i loro nomi sono: Cesare Chinellato, Bruno e Giovanni Garbin, Cesare e Severino Spolaor e Giulio Vescovo; un settimo giovane Mosè Bovo fu trucidato nell’aia di casa davanti ai genitori.
Il 5 gennaio del ’45 fu riesumato il cadavere della SS italiana in zona Luneo. I tedeschi, in relazione alla morte dell’ufficiale e all’esecuzione delle due donne, chiesero dieci condanne a morte tra la trentina di partigiani reclusi nella casa del fascio. Fu istituito un processo farsa che si concluse con la condanna a morte di dieci partigiani, di cui tre ebbero accolta la domanda di grazia. Il 17 gennaio furono fucilati presso il cimitero di Mirano Luigi Bassi (23 anni), Ivone Boschin (21 anni), Dario Camilot (23 anni), Michele Cosmai (53 anni), Primo Garbin (23 anni), Aldo Vescovo (27 anni) e Gianmatteo Zamatteo (20 anni).

Mappa per arrivare alla Sala Conferenze di Villa Errera

https://www.youtube.com/watch?v=6Olf_wMt1gQ

Aggiornamento del 7/2/2013: il video dell’intervento di Davide Conti: https://www.youtube.com/watch?v=w54wZyKxg8s

I tredici della Banda Tom

I funerali della Banda Tom

La Banda Tom fu una brigata partigiana comandata da Antonio Olearo, detto Tom (Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria), attiva durante la Guerra di liberazione tra il Monferrato Casalese e l’Astigiano, le cui efficaci azioni costituirono a lungo una spina nel fianco dei nazifascisti.
Il 14 gennaio 1945, durante un violento rastrellamento, la banda ed il suo comandante – ferito durante il salvataggio di un compagno, finito in mano ai tedeschi – aveva trovato rifugio in una cascina di Casorzo, dove venne catturata. Solo tre su tredici riuscirono a fuggire. Incatenati, seminudi e scalzi, i prigionieri vennero obbligati a marciare nella neve sino a Casale. Attraversata la città tra le percosse, vennero incarcerati ed interrogati con crudeltà. A “Tom” venne anche negato l’abbraccio della madre, rinchiusa in una cella vicina. Processati e condannati, all’alba del 15 gennaio, i “ribelli” vennero condotti alla cittadella militare, dove vennero passati per le armi. Con loro anche alcuni prigionieri politici, uno di questi sedicenne all’ultimo momento venne risparmiato. Sul selciato del poligono di tiro, all’interno della Cittadella di Casale, i loro cadaveri rimasero due giorni insepolti nella neve, guardati a vista dai soldati per impedire ai parenti di ricomporle. Questi i nomi dei partigiani:

Antonio Olearo detto Tom, 24 anni, Casale
Giuseppe Augino, 22 anni, Enna
Alessio Boccalatte, 20 anni, Casale
Aldo Cantariello, 19 anni, Alessandria
Luigi Cassina detto Ginetto, 25 anni, Casale
Giovanni Cavoli detto Dinamite, 34 anni, Solero
Albert Harbyohire (Ufficiale della Raf), 31 anni
Giuseppe Maugeri, 23 anni, Siracusa
Remo Peracchio, 21 anni, Montemagno
Boris Portieri, 17 anni, Genova
Giuseppe Raschio, 21 anni, Alessandria
Luigi Santambrogio detto Gigi, 17 anni, Casale
Carlo Serretta detto Scugnizzo, 17 anni, Casale

Rosetta Santambrogio, sorella di Luigi Santambrogio così ricorda:

“Le immagini di quel giorno, il 15 gennaio 1945, sono ancora ben impresse nella mia mente. Quando la mia famiglia fu avvertita della fucilazione, mi recai in Cittadella e mi trovai di fronte ad uno spettacolo terribile, con fascisti ubriachi che ogni tanto sparavano, e vidi infine il corpo di mio fratello. Dopo due giorni andai alla Brigata nera per chiedere la salma di mio fratello e mi sentii dire che era già molto se erano stati sepolti al cimitero e non fossero stati gettati nel Po. I corpi furono poi recuperati dopo la Liberazione e si celebrarono le esequie solenni: per riconoscere mio fratello dovetti guardare undici salme, poi gli ho tagliato una ciocca di capelli che conservo ancora oggi”.

Il discorso di Annamaria Crosio (Presidente dell’Anpi di Casale) alla commemorazione del 15 dicembre 2012: https://docs.google.com/open?id=0B2Fig3cDXuVMazRZV2NydTdxUnM

Il programma della commemorazione del 20 febbraio 2013.

La storia della banda Tom, trucidata dalla dittatura nazi-fascista il 15 gennaio 1945 a Casale Monferrato. Testo letto da Giuseppe Cederna:

La canzone “Tredici” (Yo Yo Mundi e Gang), dedicata ai Partigiani della banda Tom (alla fine Bella Ciao):

10 gennaio 1944: L’eccidio della Paschetta (Peveragno – Cuneo)

L’eccidio di Piazza Paschetta a Peveragno è avvenuto il 10 gennaio 1944. In piena mattina, mentre il paese era affollato per il mercato settimanale, le SS irrompono nella piazza e aprono il fuoco sulla folla dei contadini: i caduti sono 30. Le case vengono poi incendiate e distrutte. Così Cristina Cardone ricorda l’episodio:

10 Gennaio Millenovecentoquarantaquattro
A tutte le vittime della follia umana della Guerra, di tutte le Guerre.

Il 10 Gennaio 1944 a Peveragno era un lunedì, giorno di mercato. Il sole era gelido e non era caduta neve, quell’inverno. La gente aveva paura, si contava chi non c’era più, si leggevano lettere dal fronte russo, luoghi come Mauthausen evocavano lo spettro della morte. Devo raccontare una storia, che ho sentito fin da bambina narrare dal ricordo doloroso e composto di mia nonna, la storia di una tragedia. Ti ho promesso l’articolo, Tenente, trenta righe per sessanta battute. Spiegami come ci faccio stare in trenta righe la furia, il dolore, il ricordo di un eccidio che ha messo in ginocchio un paese. Ma andiamo con ordine.
Quel mattino i tedeschi fecero irruzione con i mezzi blindati e l’artiglieria, sparando, creando il panico. La gente fuggiva, cercando una via di scampo, un azzardo alla vita. Molti furono fermati, vennero controllati documenti, istituiti posti di blocco, incendiate case. Due giovani furono colpiti alle spalle. Un uomo lungo il viale. Fino al calvario. Rastrellarono diciannove uomini, indistintamente, li radunarono sull’allora Piazza Paschetta e li crivellarono di colpi, infierendo sui corpi, o sul poco che ne restava. Perlustrarono le campagne, dove gli uomini scappavano, si nascondevano. Giovanni Grosso era il mio bisnonno. Quel mattino cercò rifugio tra i suoi boschi, lo cercarono a casa, incendiarono il fienile. Patirono la fame anche gli animali quell’inverno. Quando lo trovarono non ebbero pietà. Lo uccisero. Ma non uccisero solo il corpo, in fondo è sufficiente un solo proiettile per fermare una vita. Vuoti d’anima a perdere. Quarantasette fori, dilaniavano il corpo, che straziarono, colpendo e squartando, strappando via i lunghi baffi.
Ritrovati a primavera, sul sentiero. Scendeva la sera, sua figlia, mia nonna uscì con un’amica andandolo a cercare. Quello che i suoi occhi videro non l’abbandonarono mai più. Provate a posare un dito per quarantasette volte sul vostro corpo, a caso.
Per quarantasette volte.
Altri cinque furono uccisi nelle campagne. A questi ventotto caduti bisogna aggiungere altre due vittime indirette, un partigiano precedentemente ferito che non potè ricevere assistenza e un ex magistrato colpito da infarto in seguito agli avvenimenti citati.
Trenta martiri.

Questa giornata va ricordata, per non dimenticare e ricordata con tutti i suoi particolari. I corpi rimasero fino a sera, straziati e portati al cimitero sui carretti, sotterrati senza funerale, perché così avevano imposto. La forza di resistenza civile della nostra popolazione è stata prova umana e cristiana. Chi ha fede crede, ed è un vantaggio, chi non crede vive nel ricordo. Si pensa che questo eccidio fosse l’espressione di un piano strategico tra Resistenza e popolazione, non potendo colpire direttamente i Partigiani, difficili da scovare, su quelle montagne.Atto di guerra preventivo nell’assoluta mancanza di un motivo scatenante. Non c’era una spiegazione, era un esempio di ciò che sarebbe accaduto se la popolazione avesse legato con i Partigiani. Poi la Storia racconta che siamo stati liberati dagli Alleati. Certo, in parte.
Ma quanto coraggio in chi ha combattuto, ha difeso, ha dato la vita.
I reduci, con la mano sul cuore alle note di un inno.
Oggi Peveragno riceve la medaglia d’argento per quel 10 Gennaio 1944, tra stelle di Natale, tricolori e penne nere. Perché ciò non accada mai più. Ma continua ad accadere, in altre parti del mondo e le chiamiamo missioni di pace, e altri giovani muoiono in nome di una guerra giusta. Altri picchetti d’onore e medaglie, frecce tricolori in cielo e rullo di tamburi, un altro eroe. Si chiamano Nassirya, muoiono per l’uso dell’uranio impoverito, nello scandalo del fosforo bianco, in Somalia, in Iraq, saltano sulle mine nel Kosovo. Come Danilo, Bosnia 1996, aveva qualcosa come soli ventidue anni. Vittime indirette di altre guerre, terrorismo, mafia, complotti, si chiamano Moro, Achille Lauro, Falcone, Callipari, 11 Settembre. Oggi le bocche dei cannoni dei monumenti piangono ruggine, evacuano quartieri quando scavando si trovano residuati bellici.
Questa era la guerra.
A Nizza, il 7 dicembre 2000 è stata sottoscritta la Carta Europea.
Mi piace pensare che è grazie anche alle vittime del 10 Gennaio che si è arrivati qui, grazie a chi quei giorni cadeva per le strade, sul fronte russo, nei campi in Germania, uomini e donne, il collasso di una generazione. La società che nasceva da quelle ceneri non era la stessa di prima, avevano scardinato le certezze. Certo allora dando la vita non immaginavano che sessant’anni dopo si sarebbe parlato di Comunità Europea, di Carta dei diritti, di Costituzione. Quando leggiamo gli articoli della Costituzione si devono vedere i volti di giovani che hanno dato la vita perché quella pagina fosse scritta.
Perché potessimo credere nei principi di uguaglianza e libertà.
Non c’è pace, senza libertà.
Non ci sono guerre giuste.
Nevica.
L’indice e il medio a sfiorare il basco, nel ricordo di un saluto militare. Ciao Tenente.

(Cristina Cardone 10/01/2006)

La Testimonianza di un sopravissuto:   http://www.unionemonregalese.it/index.php?id_articolo=2091

Roma città aperta

“Roma città aperta” è considerato il manifesto del neorealismo e uno dei capolavori assoluti del cinema mondiale e, secondo molti critici, il miglior film italiano sulla resistenza: fu girato nel gennaio del 1945, a guerra appena finita, con pellicole scadute ed un set di fortuna, visto che Cinecittà era stata spogliata di tutte le attrezzature tecniche e gli studi venivano utilizzati da numerosi sfollati che non potevano essere accolti altrove. Per chi non ricordasse la trama rimandiamo a questo articolo pubblicato nel nostro sito. Per quanto riguarda le figure principali del film, Rossellini e il gruppo dei suoi sceneggiatori (Sergio Amidei, Federico Fellini e Celeste Negarville) si ispirarono a persone realmente esistite:
– Il personaggio di don Pietro (Aldo Fabrizi) riassume le figure di don Giuseppe Morosini e di don Pietro Pappagallo
– Il personaggio di Pina (Anna Magnani) è ispirato a Teresa Gullace, una donna italiana uccisa dai soldati nazisti mentre tentava di parlare al marito prigioniero dei tedeschi: episodio che ispirò la famosa scena del film.

“Su in collina”

Francesco Guccini  nel 2007 scrisse una canzone tratta da una poesia in dialetto. Questa poesia parlava di un episodio della Resistenza avvenuto sulla Linea Gotica, vicino a Bologna. Adesso l’ha incisa nell’ultimo suo disco “L’ultima Thule”.

“Ogni tanto capita di scrivere una canzone nuova, e ho scritto una canzone nuova. O meglio, ho trovato una poesia scritta in dialetto bolognese e l’ho tradotta in italiano. Flaco ha musicato questa poesia in modo molto emozionante; Flaco ha musicato questi bellissimi versi, ed è una poesia che parlava della guerra partigiana, con dei personaggi che si chiamavano con dei nomi di battaglia: ‘Pedro’, ‘Cassio’, ‘il figlio del Biondo’, ‘il Brutto’…siamo in un curioso periodo di revisionismo, e siamo in un periodo in cui qualcuno cerca di equiparare i combattenti della repubblica di Salò ai partigiani. Io dico che, con tutti i distinguo, con tutta la retorica che c’è stata, lasciamo stare, lasciatemi stare la Resistenza. La canzone si chiama ‘Su in collina’, e parla appunto di Pedro, di Cassio, il figlio del Biondo, il Brutto”
(Francesco Guccini, presentazione dal vivo della canzone nel tour del 2007)

Pedro, Cassio e poi me, quella mattina
Sotto una neve che imbiancava tutto
Dovevamo incontrare su in collina
L’altro compagno, figlio al Biondo, il Brutto

Il vento era ghiacciato e per la schiena
Sentivamo un gran gelo da tremare
C’era un freddo compagni su in collina
Che non riuscivi neanche a respirare

Andavamo via piano, “E te cammina!”
Perché veloci non si poteva andare
Ma in mano tenevam la carabina
Ci fossero dei togni a cui sparare

Era della brigata il Brutto, e su in collina
Ad un incrocio forse c’era già
E insieme all’altra stampa clandestina
Doveva consegnarci “l’Unità”

Ma Pedro si è fermato e stralunato
Gridò “Compagni mi si gela il cuore
Legato a tutto quel filo spinato
Guardate là che c’è il Brutto, è la che muore”

Non capimmo più niente e di volata
Tutti corremmo su a quella stradina
Là c’era il Brutto tutto sfigurato
Dai pugni e i calci di quegl’assassini

Era scalzo, né giacca né camicia
Lungo un filo alla vita e tra le mani
Teneva un’asse di legno e con la scritta
“Questa è la fine di tutti i partigiani”

Dopo avere maledetto e avere pianto
L’abbiamo tolto dal filo spinato
Sotto la neve, compagni, abbiam giurato,
Che avrebbero pagato tutto quanto.

L’abbiam sepolto là sulla collina
E sulla fossa ci ho messo un bastone
Cassio ha sparato con la carabina
Un saluto da tutto il battaglione

Col cuore stretto siam tornati indietro
Sotto la neve andando, piano piano
Piano sul ghiaccio che sembrava vetro
Piano tenendo stretta l’asse in mano

Quando siamo arrivati su al comando
Ci hanno chiesto: la stampa clandestina
Cassio mostra il cartello in una mano
E Pedro indica un punto su in collina

Il cartello passò di mano in mano
Sotto la neve che cadeva fina
In gran silenzio ogni partigiano
Guardava quel bastone su in collina

La Costituzione Italiana

La prima funzione del linguaggio è la funzione comunicativa: è anzitutto il mezzo di relazione sociale, il mezzo di comprensione reciproca tra gli uomini, il mezzo di trasmissione intenzionale del pensiero e delle esperienze vissute.

La parola, unità fondamentale della “lingua”, è lo strumento che ha permesso all’uomo di acquisire la capacità di impadronirsi di mezzi psichici, volontà, attenzione, memoria, fondamentali per la padronanza del comportamento. Ma non basta: la parola è anche la cellula fondamentale della coscienza che rispecchia il mondo esterno.

“L’uomo che lavora – dice “Nino” Antonio Gramsci – opera praticamente, ma non ha una chiara coscienza teorica di questo suo operare che pure è un conoscere il mondo in quanto lo trasforma. La sua coscienza teorica anzi può essere storicamente in contrasto col suo operare. Si può quasi dire che egli ha due coscienze teoriche (o una coscienza contraddittoria), una implicita nel suo operare e che realmente lo unisce a tutti i suoi colleghi operai impiegati nella trasformazione pratica della realtà e una meno corporea, superficialmente esplicita, verbale, che ha ereditato dal passato senza critica.

Tuttavia questa concezione “verbale” non è senza conseguenze: essa riannoda ad un gruppo sociale determinato (egemonia culturale della classe dominante), influisce nella condotta morale, nell’indirizzo della volontà, in modo più o meno energico, che può giungere fino al punto che la sua contraddittorietà della coscienza non permette nessuna azione, nessuna decisione, nessuna scelta e produce uno stato di passività morale e politica. La comprensione critica di se stessi avviene quindi attraverso una lotta di egemonie politiche di direzioni contrastanti, prima nel campo dell’etica, poi della politica per giungere ad una elaborazione superiore della propria concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata sia pure entro certi limiti ancora ristretti, critica .”

Questa è la Coscienza Critica – costruita durante gli anni della dittatura mussoliniana e negli anni 1943-1945 – degli uomini e delle donne che hanno combattuto il nazifascismo e che hanno votato definitivamente la Costituzione Italiana al Parlamento il 27 Dicembre 1947. Leggi tutto “La Costituzione Italiana”

Torino: intitolata una via a Ludovico Geymonat

La scheda biografico-segnaletica di Ludovico Geymonat, antifascista

 Venerdì 30 novembre 2012, alle ore 11.00, la via tra corso Unione Sovietica e via San Michele del Carso, già dedicata a Gaetano Scirea, è stata intitolata a Ludovico Geymonat, studioso torinese scomparso a Rho (Milano) il 29 novembre del 1991.
Geymonat, nato a Torino nel 1908 è stato allievo del matematico Giuseppe Peano e si è laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930. E’ stato antifascista e partigiano, ha insegnato all’università di Milano dal 1956 al 1978 ed è stato titolare della prima cattedra italiana di filosofia della scienza. Autore di una monumentale “Storia del pensiero filosofico e scientifico”, oltre che di un gran numero di opere sistematiche e di studi, ha introdotto il positivismo e l’empirismo logico in Italia in un contesto dominato dalla filosofia idealista di Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Eletto Consigliere comunale di Torino nella prima tornata amministrativa del dopoguerra, nelle liste del Partito Comunista Italiano, è stato Assessore dal 1946 al 1951.

Un articolo di Felice Burdino che descrive l’azione nella lotta partigiana di Ludovico  Geymonat: https://docs.google.com/open?id=0B2Fig3cDXuVMUmFxeHlDMWI0c0k

28 dicembre 2012: 69° anniversario della fucilazione dei Fratelli Cervi

Ricorre quest’anno il 69° anniversario del sacrificio dei Sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri fucilati per mano dei fascisti all’alba del 28 dicembre 1943.  Diventata nel tempo una vera e propria ricorrenza del calendario cosiddetto civile, una data simbolo della nostra storia contemporanea, alla stregua del 25 aprile, del 25 luglio, dell’8 settembre, Leggi tutto “28 dicembre 2012: 69° anniversario della fucilazione dei Fratelli Cervi”