Don Gallo è morto

Comunque è vero, sono comunista. Non dimentico mai la Bibbia e il Vangelo. E non dimentico mai quello che ha scritto Marx.

Coriaceo, di strada, sempre vicino agli ultimi. Don Gallo è morto nel pomeriggio di oggi. Di sé diceva di trovarsi più a suo agio nelle sezioni della Cgil che non in Chiesa, ma era proprio con l’abito da sacerdote e il sostegno della sua Chiesa che riusciva a stare vicino ai più indifesi di questa società, alle ragazze vittime della tratta. Fondatore della comunità di “San Benedetto al Porto”, don Gallo ha sempre predicato un sacerdozio povero, non nei palazzi ma per le strade.

Aggiornamento del 24/5/2013:

E l’ “Avvenire” dedica al Don solo un rimbrotto a pagina 13:
Meritare il Paradiso è ben altra cosa, per fortuna, che guadagnarsi la prima pagina di Avvenire, ma suscita comunque tristezza, tanta tristezza più che rabbia, la decisione del quotidiano dei vescovi italiani di dedicare alla morte di Don Gallo solo un articoletto nel basso di pagina 13, in cui subito dopo la notizia si avverte il lettore che le “prese di posizione” del Don “non di rado erano apparse in aperto contrasto con l’insegnamento della Chiesa”. Il giornale della Chiesa dei Ruini, dei Bertone, dei Bagnasco ha mostrato il suo volto duro e arido persino dinanzi alla “salita in cielo” di uno dei suoi sacerdoti certo più criticati, ma anche più amati, seguiti e conosciuti.
Ieri, quelle cinque striminzite colonnine in fondo alla pagina davano una sensazione netta di condanna, non di pietà. Chissà perché venivano in mente le porte sbarrate della chiesa del quartiere Don Bosco a Roma di fronte alla bara di Piergiorgio Welby. A Don Gallo, Avvenire non fa sconti. Anzi: “Un sacerdote controverso che nel corso degli anni, pur con la lodevole intenzione di avvicinarsi evangelicamente ai poveri, non sempre pare aver tenuto nel debito conto quello che Benedetto XVI avrebbe definito nella sua enciclica il necessario connubio tra verità e carità”. Per il quotidiano della Cei, la conferenza episcopale italiana, Don Gallo è stato un prete “scomodo” fino all’ultimo, un eretico rispetto all’ortodossia e al religiosamente corretto. Ma Don Gallo si consoli: se Avvenire fosse uscito ai tempi di Cristo, avrebbe nascosto a pagina 13 la notizia che la prima persona a vedere Gesù risorto fu un’ex prostituta.(da “Il Fatto” del 24/5/13)

 

2 maggio 1945: Strage di Avasinis

Il Memoriale di Avasinis

“A Osoppo e a Gemona le campane suonavano a festa, perché erano arrivati gli Alleati; ad Avasinis ha invece suonato per mezza giornata solo la campana a morto… ” – così un’anziana donna di Avasinis, ricorda la palese contraddizione della contemporanea presenza di un Friuli liberato, all’inizio di maggio 1945, contrapposto al dramma di un eccidio perpetrato ad Avasinis, piccola frazione del Comune di Trasaghis.
La strage di Avasinis costò la vita a 51 persone, in massima parte donne, vecchi e bambini ed ebbe luogo il 2 maggio 1945, proprio nella giornata in cui entrava in vigore in Italia l’atto di cessazione delle ostilità. Un reparto delle SS era giunto a Trasaghis nel pomeriggio del 1° maggio e al mattino del giorno successivo si diresse verso Avasinis. Uno sparuto gruppo di partigiani tentò di sbarrare la strada ma fu rapidamente messo in fuga dai mortai e dalle mitragliatrici pesanti di cui disponeva il reparto.
I tedeschi, appena giunti in paese, si sparsero per le vie e iniziarono una sistematica perquisizione ed il saccheggio delle case uccidendone spesso gli occupanti, donne o bambini o anziani inermi che fossero, apparentemente senza una logica preordinata: a volte uccisero tutti gli occupanti di una casa, a volte una sola persona, secondo il capriccio o la casualità delle scelte di ogni singolo soldato.
Relativamente alle motivazioni dell’episodio, di fronte alla discussione storico – politica che si trascina da decenni, un ricercatore come Diego Carpenedo ritiene che appaia verosimile “un’unica spiegazione: la volontà di trasmettere un messaggio sinistro e minaccioso, in grado di far comprendere che non sarebbe stato tollerato il minimo intralcio ai movimenti delle SS in ritirata verso l’Austria”.
Anche se sono passati sessantaquattro anni da quei fatti, un limite temporale capace di diradare inesorabilmente il numero dei testimoni diretti di quelle vicende, l’Amministrazione comunale di Trasaghis continua a proporre una occasione per mantenere vivo il senso della memoria, per trasmettere anche a quanti non hanno vissuto direttamente quei giorni la conoscenza del dramma e del sacrificio della popolazione. La periodica commemorazione si lega infatti a un piano articolato che ha previsto la effettuazione di ricerche e la presentazione di libri (come la pubblicazione del diario del parroco dell’epoca, don Zossi, a cura di Pieri Stefanutti) e filmati (“Avasinis luogo della memoria” di Dino Ariis) che hanno consentito di ricostruire nei dettagli le circostanze dell’episodio e la drammaticità di quello che è stato definito il maggiore eccidio di civili in Friuli nel corso della seconda guerra mondiale.

30 aprile 1944: strage di Lipa (Fiume)

La lapide in ricordo della strage di Lipa

Non serve molto per capire cosa è stato fatto quel giorno, a meno di un’ora, a qualche decina di chilometri da Trieste, in questo piccolo villaggio vicino a Rupa, sulla strada tra Fiume e Trieste.
Quelle due cifre, 87 abitazioni e 85 tra stalle e altri edifici, ad appena 21 km da Fiume.
Era una domenica pomeriggio; i maschi adulti o giovani impegnati quasi tutti con i partigiani erano da tempo via dal villaggio. Un monumento nel centro del paese, quasi di fronte alla lapide della foto, ricorda i 17 partigiani di Lipa caduti durante la guerra di liberazione jugoslava. Nei pascoli intorno qualche ragazzo o ragazza, 4 o 5 in tutto, attenti al bestiame. La neve se ne era andata da poco. E una famiglia giù a Fiume, in città. Sarebbe ritornata il giorno dopo, sorpresa dai militari addetti alla “bonifica” e sterminata per impedire scomode testimonianze.
Al mattino era stata attaccata da una brigata partigiana la caserma di Rupa, un paese un po’ più grosso, dove la stazione dei carabinieri fascisti serviva da presidio per il controllo della strada che collegava Fiume a Trieste. Da Fiume sta sopraggiungendo una colonna di una trentina di soldati tedeschi che vengono chiamati in soccorso e mentre stanno ancora decidendo il da farsi una granata li colpisce; 4 soldati tedeschi muoiono. Questo episodio fa scattare la rappresaglia. Vengono chiamati rinforzi da Ilirska Bistrica, un reparto speciale guida l’azione che dovrà essere “esemplare”. Viene chiesto ai carabinieri da quale villaggio intorno a Rupa fossero originari con certezza i partigiani. E i carabinieri li accompagnano a Lipa…
Madri, bambini e anziani vengono condotti e stipati nell’ultima casa di Lipa e bruciati vivi. Le bombe a mano gettate dentro per distruggere completamente la casa e rendere impossibile un riconoscimento delle vittime. I morti furono 269, fra cui tre bambine che non avevano neanche un anno.
Ma la caratteristica straordinaria di questa strage sono le fotografie originali, scattate da qualche soldato addetto alla documentazione delle azioni di guerra (immagino), stampate di nascosto nel laboratorio fotografico di Ilirska Bistrica e ancor oggi conservate e solo parzialmente riprodotte nel piccolo Museo di Lipa; la cui visita è un vero “pugno nello stomaco” per chi non sa cosa abbiamo combinato – noi brava gente – in quei luoghi. (da http://fiumetrieste.blogspot.it)

 

17 aprile 1944: il rastrellamento del Quadraro

Le 4 del mattino del 17 aprile 1944. Nel giro di pochi minuti, i tedeschi entrano al Quadraro, noto “covo” di ribelli della Resistenza. E rastrellano circa 2.000 uomini tra i 16 e i 55 anni. Alcuni riescono a fuggire, grazie all’aiuto di un prete. 947 vengono deportati nei campi di concentramento. Solo la metà di loro tornerà a casa. Nel 2004 il quartiere è stato insignito della medaglia d’oro al merito civile.

17 aprile 1944. Le 4 del mattino: il Quadraro è ancora addormentato. Nel giro di pochi minuti, si scatena l’inferno. Gli uomini del comandante nazista Herbert Kappler circondano il quartiere, bloccando ogni via d’accesso. Ha inizio il rastrellamento del Quadraro. Nome in codice: Unternehmen Walfisch, Operazione Balena. 2.000 uomini tra i 16 e i 55 anni vengono trascinati via a forza dalle loro case. E portati al cinema Quadraro per la schedatura. Dopo ore di attesa, ammassati e trattati come bestie, vengono caricati su dei camion e portati a Cinecittà. Alcuni riescono a fuggire, aiutati dal parroco di Santa Maria del Buonconsiglio, don Gioacchino Rey. Molti arrestati. 947 uomini restano nelle mani della Gestapo e delle SS e finiscono deportati nel campo di concentramento di Fossoli (Carpi). Solo l’inizio di una lunga agonia. Il 24 giugno del ’44, i rastrellati del Quadraro vengono arruolati come “operai italiani volontari per la Germania”. E deportati nei campi in Germania e in Polonia. Molti di loro non sopravvissero all’arrivo degli ameticani. Dei 947 deportati solo la metà tornò, viva, al Quadraro.
IL CONTESTO STORICO – Nella primavera del 1944 Roma è una “città aperta”. L’occupazione tedesca è scandita da terrore ed eccidi, come quello delle Fosse Ardeatine (24 marzo). La popolazione civile è inerme, affamata. Gli alleati sono ancora a 80 chilometri dalla capitale. Il Quadraro, per i nazisti, è un “nido di vespe”, l’inizio del “fronte”. Il luogo dove trovano rifugio tutti coloro che, partigiani, comunisti o informatori, non trovano accoglienza nei conventi o presso il Vaticano. Il 31 marzo il comando tedesco decide di intervenire: per indebolire i ribelli, disseminati nella periferia sud-est, stabilisce di anticipare l’ora del coprifuoco alle 16:00. Il provvedimento colpisce gli abitanti dei quartieri Quadraro, Torpignattara, Centocelle e Quarticciolo. La Resistenza continua.
L’ANTEFATTO – La goccia che fa traboccare il vaso si verifica il pomeriggio del 10 aprile, un lunedì di Pasqua. Giuseppe Albani, detto “il gobbo del Quarticciolo”, assale con la sua banda un gruppo di soldati tedeschi alla trattoria “da Gigietto”, in via Calpurnio Fiamma, a Cinecittà. Uccidendone tre. L’affronto è troppo grande. Il comandante Kappler decide di dare un’altra “lezione” al popolo di Roma, dopo quella delle Fosse Ardeatine. “Andiamo a scacciare quel nido di vespe”, dice ai suoi uomini.
MEDAGLIA D’ORO AL MERITO CIVILE – Fu tutto inutile. Come racconta Carla Guidi nel libro “Operazione balena” (Edizioni Associate), dopo il rastrellamento del 17 aprile, la guerriglia contro i nazisti riprese con la stessa forza. In pochi mesi e in uno spazio limitato, qui ci fu la più alta concentrazione di azioni partigiane di tutta la resistenza italiana. Anche grazie all’atroce sacrificio di quel giorno, nell’aprile del 2004 il Quadraro è stato insignito, unico quartiere romano, della medaglia d’oro al merito civile dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.
di Ambra Murè (Da “Paese Sera)

http://www.anpiroma.org/2013/04/17-aprile-quadraro-una-storia-esemplare.html

https://www.youtube.com/watch?v=jJYTWWbb-Kw

Vittorio Arrigoni “Vik”

Avendo fatto della mia vita una missione, laica e  civile, dimettermi dalla missione significherebbe dare le dimissioni dalla vita. Un suicidio. Ci sono esistenze più spendibili di altre, e la mia è una di queste. Tutto sta nel spenderle per qualcosa d’impagabile, come la lotta per la giustizia, la libertà.

 Nella notte tra il 14 e il 15 aprile 2011, veniva assassinato a Gaza Vittorio Arrigoni. In Palestina arrivò la prima volta nel 2002. Proprio quell’anno avvenne la sua iniziazione come scudo umano davanti a una scuola piena di bambini assediata dai carri armati israeliani. Da quel momento Vittorio affrontò molti rischi per aiutare la gente del posto e raccontare ciò che vedeva: i bombardamenti, la morte di ragazzini inermi, il dolore negli ospedali, le abitazioni distrutte. Fu anche malmenato e poi espulso dalle autorità israeliane, rimandato in Italia in camicia e ciabatte. “Tieni forza e coraggio. Opera per la pace, anche se ti e ci vien voglia di rispondere occhio per occhio alle offese. Ma, come diceva il Mahatma Gandhi, a furia di dire occhio per occhio, resteremo tutti ciechi”, gli scrisse sua madre Egidia il 20 aprile del 2004.
Ne aveva viste tante Arrigoni, gli era capitato di raccogliere pezzi dei suoi amici e teste di bambini. Del suo ultimo ritorno a casa, nel 2009, la mamma ricorda le urla notturne, l’inquietudine, gli incubi di chi aveva assistito ad atti disumani. “Noi eravamo preoccupati, ma non gli avremmo mai impedito di andare. Era la sua vita. Nonostante avesse visto tanta violenza e tante atrocità, la sua sfrenata passione per i diritti umani lo riportava sempre lì. Si sentiva amato dalla gente, accettato da tutti. Mi disse una volta che se non fosse tornato a Gaza, sarebbe andato altrove a cercare qualcuno da aiutare”.
Arrigoni ripartì per l’ultimo viaggio nel 2010. Passando dall’Egitto riuscì a rientrare a Gaza. Riprese ad aiutare “i fratelli palestinesi”, come lui li chiamava, e a raccontare ciò che vedeva attraverso il suo blog, Guerrilla Radio, e la collaborazione con PeaceReporter. Fino alla notte tra il 14 e il 15 aprile del 2011, quando venne ucciso da una cellula  jihadista salafita, a quanto pare fuori controllo, con motivazioni che ancora oggi appaiono poco chiare. “La cosa che mi turba di più è non sapere la vera motivazione della sua morte – ha continuato Egidia – È il pezzo che manca. Non penso che lo conosceremo mai. Mi consola ricevere ancora oggi lettere di stima e di affetto nei confronti di Vittorio. Voglio che lui venga ricordato per quello che ha dato alla gente”. Questo è l’articolo di Alberto Puliafito pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” il giorno dopo la morte di Vik:

Non era soltanto un volontario, Vittorio Arrigoni. Era un attivista. Era un pacifista. Era un profondo conoscitore della questione palestinese. Era uno scrittore e un giornalista. Ma soprattutto, era una voce libera, un testimone di una realtà complessa, quella di Gaza, che viveva dall’interno.
Certamente, nessun giornale italiano aveva pronto un “coccodrillo” celebrativo di Vittorio Arrigoni. Non perché non fosse risaputo che vivesse in una situazione rischiosa, ma perché le voci come la sua sono voci scomode. Perché Arrigoni, che ha scritto il bel Restiamo Umani e che raccontava di Gaza su Guerrilla Radio, il suo blog, era un personaggio difficile da trattare, dall’Italia. Non si accontentava di farsi raccontare da casa la realtà: la viveva. Non si accontentava di fornire una rappresentazione binaria della realtà. Non cedeva a slogan e al facile dualismo buoni contro cattivi, ma costruiva, giorno per giorno, un racconto, un affresco di una situazione mai davvero compresa, mai davvero rappresentata.
Leggete, per esempio, come raccontava un attacco da parte delle forze di sicurezza di Hamas a una manifestazione pacifista di palestinesi, e capirete cosa vuol dire avere la capacità di racconto e di analisi, senza cedere all’istinto della banalizzazione.
Vittorio Arrigoni non si preoccupava del fatto che poi, magari, la gente a casa non capisce (uno dei più grandi problemi della comunicazione sistemica); non risparmiava critiche anche a intoccabili: destinò dure parole a Roberto Saviano (nel video qui sotto) quando lo scrittore esaltò la democrazia di Israele. Era una voce scomoda, di quelle che fa tremare i benpensanti, a destra e a sinistra; una di quelle voci che fa saltare le logiche tradizionali di una comunicazione che tende a semplificare la realtà per proporre slogan e messaggi facilmente comprensibili (una comunicazione tradizionale decisamente deleteria, che abbassa il livello del confronto e che, a scapito della presunta immediatezza, non fa che impedire la comprensione dei fatti). Vittorio Arrigoni non faceva l’eroe, raccontava senza personalismi: era un canale per un flusso di comunicazione che si poteva diffondere soltanto in maniera virale, dal basso, eccezion fatta per i suoi reportage per Il Manifesto.
La sua morte mi ha ricordato – fatte salve le specificità e le differenze – quella di Enzo Baldoni (che ricordavo proprio su questo blog).
Per questi motivi, e solo per questi, ho ritenuto di doverne scrivere, senza patetiche commiserazioni. Per fornire al lettore, che non avesse mai incrociato gli scritti di Arrigoni, la possibilità di conoscerlo attraverso le sue parole, che devono essere condivise il più possibile.
E per favore, non cediamo alla facile retorica del se l’è andata a cercare, come già sta accadendo. Sarebbe semplicemente offensivo. Non solo per lui, ma anche per noi.
Perché Vittorio Arrigoni era, più di ogni altra cosa, Umano.

 Qui potete leggere un’intervista a Vik.

http://www.anpivittorioarrigoni.it/

Video aggressione squadrista all’Università di Verona

Questi sono i fatti in seguito ai quali l’Università di Verona ha imposto la chiusura dello spazio studentesco autogestito. Spazio a cui è stata attribuita la grave responsabilità di ospitare, tra gli altri, gli studenti e le studentesse che hanno organizzato una libera iniziativa di approfondimento storico considerata non opportuna e scomoda dal potere politico filofascista locale.
Da parte del Rettore nessuna parola di condanna nei confronti dell’incursione squadrista. Nessuna conseguenza per gli studenti che hanno partecipato all’aggressione. Sgombero immediato di Spazio Zero e commissione disciplinare interna per il professor Gian Paolo Romagnani, reo di aver concesso lo spazio per l’iniziativa.
In Università qualcuno/a ha balbettato un po’ di solidarietà. Per il resto silenzio.
Un vergognoso, complice, pesantissimo, democratico silenzio che non ci dimenticheremo.

Il fascismo è qui e ora.
Scegli da che parte stare.

(dal Collettivo “Studiare con Lentezza”)

28 marzo 1944: eccidio di Montemaggio (Siena)

I 19 partigiani uccisi

Il 28 marzo del 1944 alle pendici del Montemaggio in località Porcareccia vicino a Monteriggioni in provincia di Siena, 19 partigiani furono uccisi dalla Guardia Nazionale Repubblicana.
Le vittime erano tutti giovani ragazzi che si erano dati alla macchia per sfuggire alla leva fascista e per unirsi alle formazioni partigiane della Brigata Garibaldi che operava nella zona compresa tra le province di Siena, Pisa e Grosseto. Due diversi distaccamenti di partigiani, comandati da Velio (detto “Pelo”) e da Mauro (detto “Borsa”), avevano trovato rifugio presso una casa di contadini, casa Giubileo, sulle pendici del Montemaggio.
I gruppi partigiani, che avevano intenzione di compiere alcuni atti di sabotaggio alle vie di comunicazione per Siena, avevano due prigionieri, il capitano della milizia forestale Brandini ed un ufficiale nazista, che avrebbero voluto scambiare con alcuni detenuti politici reclusi nel carcere di Siena.
All’alba del 28 marzo 1944 i militi fascisti, coadiuvati da membri dell’esercito e della Compagnia Giovani, guidati da un noto fascista locale, arrivarono a casa Giubileo e la circondarono intimando ai partigiani la resa. Questi risposero al fuoco; ma, constatata la differenza delle forze in campo e di armi, offrirono di arrendersi in cambio della promessa di avere salva la vita.
Alcuni partigiani tentarono la fuga, ma mentre due riuscirono a mettersi in salvo (tra questi Walter Bianchi, detto “Testina”), due furono uccisi.
I due ostaggi furono subito portati via dai militi mentre i partigiani furono radunati fuori della casa.
I 18 rimanenti furono portati in località la Porcareccia per essere fucilati e furono fatte loro togliere le scarpe. Uno di questi, Vittorio Meoni, riuscì però a fuggire nel bosco ed a mettersi in salvo nonostante le gravi ferite riportate. Per gli altri 17 non ci fu nulla da fare e furono uccisi a colpi di mitragliatrice.
Tutti i partigiani  riposano nella Cappella dei Partigiani eretta all’interno del cimitero di Colle Bassa, questi i loro nomi: Angiolo Bartalini, Piero Bartalini, Emilio Berrettini, Enzo Busini, Giovanni Cappelletti, Virgilio Ciuffi, Franco Corsinovi,    Dino Furiesi,  Giovanni Galli, Aladino Giannini, Ezio Grassini, Elio Lapini, Livio Levanti, Livio Livini, Fulco Martinucci,    Ennio Nencini, Orvino Orlandini, Luigi Vannetti, Onelio Volpini.

La commemorazione del 2009 (“…la Storia è fatta da persone come noi, da persone comuni”):

24 marzo 2013: Museo della Resistenza “Agostino Piol”

Donna Partigiana dello scultore bellunese Pezzei

Ieri, domenica 24 marzo, con un gruppo di compagni avventurosi, siamo partiti da Valmorel per raggiungere il rifugio – museoAgostino Piol” a Pian de le Femene. Zenone Sovilla, organizzatore della ciaspolada, ci ha illustrato e fatto vedere degli spezzoni di interviste a partigiani e storici, che sono serviti per il suo ultimo progetto “Il sentiero sotto la neve”, un film “per interrogarsi su una memoria ormai troppo spesso calpestata o distorta; per aprire qualche pagina scomoda; per tentare di capire”. In questo sito potete vedere parte delle interviste e dei documentari che hanno ispirato questo progetto: http://www.sovilla.org/

Qui le foto della giornata: http://imgur.com/a/7bGid

Oggi cosa resta del fascismo in Italia? Il convegno delle partigiane

Una sala da duecento posti piena, un altro centinaio di persone in esubero sedute per terra o in piedi: così si è presentata la situazione a Palazzo Marino a Milano sabato 16 marzo, al convegno indetto dall’Anpi nazionale, l’associazione dei e delle partigiane, organizzato proprio dal Coordinamento delle donne. Tra queste anche giovani sotto i trent’anni, perché l’associazione ha aperto da alcuni anni le iscrizioni a chiunque voglia partecipare alle attività.
Un titolo forte e chiaro: ‘La violenza e il coraggio – Donne, Fascismo, Antifascismo, Resistenza, ieri e oggi’, a ribadire un concetto semplice: la storia si insegna e si impara a scuola, ma la memoria la si costruisce nel quotidiano dovunque, ed è fatta di scelte: nelle parole che si pronunciano, nei ricordi da tramandare, nelle narrazioni che diventano fili tesi tra generazioni.
Si può scegliere di rubricare come ‘passato’ quella fase della vicenda politica, sociale e umana che ha visto, nella Resistenza, l’unica palestra di democrazia condivisa da uomini e donne cattoliche, comuniste, anarchiche e socialiste; si può cancellare con una alzata di spalle la tragedia del fascismo e delle leggi razziali, per non parlare della retriva retorica familista che ancora l’Italia si trascina nella cultura diffusa anche dai media.
Ma quando si ascoltano le voci vibranti di donne e uomini che hanno vissuto il (primo) ventennio di buio di questo paese è difficile non emozionarsi.
Lidia Menapace e Marisa Ombra invitano le giovani donne che le guardano sedute a terra con occhi attenti a usare ironia e sberleffo contro il patriarcato e il machismo: ”Vi dicono che le donne non possono accedere al sapere scientifico perché hanno il cervello più piccolo? Perfetto, rispondete che di certo anche il diamante è più piccolo di una zucca, che certo pesa di più della pietra preziosa” – chiosa Menapace, classe 1924, della quale da poco è uscito “A furor di popolo”.
L’invito è a non frasi intimidire dagli stereotipi e dai pregiudizi, e fa pensare che arrivi da donne che, come racconta Marisa Ombra nel suo bellissimo “Libere sempre”, a soli 17 anni erano già in montagna a rischiare la vita solo perché portavano notizie e aiuti ai partigiani.
Poco più che bambine molte di loro hanno iniziato la fase adulta dell’esistenza fronteggiando la violenza, e hanno scelto da sole da che parte stare, spesso optando per la lotta nonviolenta. Le intense letture fatte dall’attrice Aglaia Zanetti hanno alternato brani da libri di donne della resistenza a passi tratti da testi sacri dei teorici del fascismo, perle di raggelante attualità rimbalzate anche dagli schermi in sala: “Non darò il voto alle donne. La donna deve ubbidire. La mia opinione della sua parte nello Stato è opposta ad ogni femminismo. Naturalmente non deve essere schiava, ma se le concedessi il voto mi si deriderebbe. Nel nostro Stato non deve contare”. O anche. “La guerra sta all’uomo come la maternità sta alla donna”.
Così Benito Mussolini, mentre Ferdinando Loffredo, filosofo e teorico del regime, affermava; “Il lavoro femminile crea nel contempo due danni; la ‘mascolinizzazione’ della donna e l’aumento della disoccupazione. La donna che lavora si avvia alla sterilità”.
Vale la pena di rammentare questo recente passato, per evitare a chi è più giovane di sottovalutare la pericolosità del non custodire e attualizzare la memoria: questo appuntamento, del quale presto si avranno gli atti ha sapientemente mescolato storia di ieri e realtà contemporanea, con l’urgenza di riannodare fili che rischiano di essere tagliati.
I partigiani ci vanno nelle scuole – ha detto Marisa Ombra – magari sono stanchi perché hanno molti anni, ma escono dagli incontri con i giovani pieni di energia, basta che vengano chiamati, e arrivano”.

Ascoltiamoli di più.

(di Monica Lanfranco, dal blog de “Il Fatto Quotidiano” del 21 marzo 2013)

È morta Olema Righi, la partigiana in bicicletta

Olema Righi

È morta ieri mattina nella sua abitazione di Carpi, in Provincia di Modena, Olema Righi. Staffetta partigiana, per molti emiliani rappresentava il simbolo stesso della Resistenza, insieme a tante altre compagne come Ibes Pioli o Tina Anselmi.
Celebre la foto che la ritrae in sella alla sua bicicletta, nei giorni della Liberazione, con il fucile ancora in spalla e la bandiera dell’Italia libera sullo sfondo. Chi l’ha conosciuta ricorderà per sempre il suo sguardo determinato – lo stesso di quella vecchia fotografia – ed il sorriso inscritto nel viso di una bellezza severa che si era addolcita col passare degli anni.
Riportiamo il racconto del suo arresto e della tragica morte del fratello (partigiano anche lui), tratto dal sito dell’Associazione Nazionale Partigiana – Emilia Romagna:

Era una mattina di novembre quando, senza neanche poter dire a mia madre che andavo via, sono stata presa e caricata su un camion, dove c’erano altri giovani che dicevano di essere stati arrestati.
Da Limidi, i camion dei repubblichini sono passati per Carpi, dove hanno caricato altra gente, poi si sono diretti a Modena. Dai loro discorsi, si capiva che i repubblichini erano orgogliosi delle loro scelleratezze, della loro “azione”.
A causa delle lunghe soste siamo arrivati all’Accademia (ora Accademia Militare) che era già sera. La mattina seguente il capitano mi ha fatto andare nel suo ufficio per interrogarmi. Stava seduta alla sua scrivania e teneva davanti a se un foglio scritto a mano. Ha cominciato a leggerlo: vi era scritto che io ero una staffetta partigiana, che mio fratello, mia sorella e mio padre erano antifascisti. Quest’ultimo poi era anche in prigione per questo.
C’era scritto proprio tutto in quel maledetto foglio. Avevano saputo tutto della nostra famiglia, anche che noi avevamo un terreno nei prati di Cortile sul quale mio fratello Sarno, insieme ai suoi compagni, aveva costruito un rifugio dove andavano a nascondersi e a dormire.
In seguito, sono stata tenuta per lunghe ore in una stanza di isolamento. Isolamento reso ancora più duro e imprevedibile dalla guardia, un omettino basso e dalla voce rauca, che mi sorvegliava e mi prospettava tutte le cose più brutte, compreso che mi avrebbero mandato in Germania e che mi avrebbero ammazzato. Dopo sette giorni di interrogatori e minacce, il 20 novembre ci fu lo scambio: le vite di 60 partigiani furono scambiate con quelle di 6 tedeschi, così anche noi fummo rilasciati.
Mentre uscivo dal portone dell’Accademia, il capitano che mi aveva interrogato mi prese da parte, per un attimo ebbi paura che mi tenesse ancora là, invece mi fece la predica e tra le altre cose mi disse di non prendere più parte alla guerra. Ricordo ancora le sue parole: “la guerra è per gli uomini e dì a tuo padre che non faccia più attività contro di noi perché, se non lo sa, il coltello dalla parte del manico l’abbiamo noi”. Poi aggiunse: “va a divertirti a casa troverai delle novità”.
Salutai e raggiunsi Stefanina e le altre per andare a casa. Avevamo tanta strada da fare a piedi, ma scherzavamo e ridevamo perché eravamo libere. Finalmente libere da un incubo, ancora tremanti per quegli interrogatori in cui avevamo sempre negato tutto, che ci avevano fatto capire che c’era una spia molto vicina a noi. Una spia amica di quegli scellerati che si vantavano di aver portato via i partigiani, saccheggiato il caseificio e bruciate le case…
A Ganaceto ho incontrato una staffetta, Ione, che si è offerta di accompagnarmi a casa sulla bicicletta. Lungo quel breve tragitto non parlammo molto e io pensavo ad alta voce a chi avrei trovato a casa. Quasi certamente mia madre, mia sorella e mio fratello piccolo. Chissà se mio padre era ancora nascosto a Panzano. Chissà dov’era mio fratello Sarno. L’avevo visto per l’ultima volta il giorno prima del rastrellamento. L’avevo chiamato da lontano e lui si era girato a salutarmi. Fu proprio mentre me lo ricordavo così che Ione mi disse “hanno ucciso tuo fratello”.
Non ricordo più niente di preciso di quello che seguì, ricordo solo che ho ricominciato la mia vita di staffetta con un motivo in più: onorare il sacrificio di mio fratello con una fede ancora più forte nell’antifascismo e nella memoria.

Olema Righi.