22 giugno 1941: Invasione dell’Unione Sovietica

Settant’anni fa, il 22 giugno 1941, quando la radio annunciò in tutta l’Urss: “Oggi, alle 4 del mattino, i soldati dell’esercito tedesco hanno attaccato il nostro Paese…”, era difficile credere che tutto quell’orrore, che imperava in Europa e in Africa ormai da due anni, fosse riuscito a raggiungere nuovi territori. Anastasija Poljakova, che in quegli anni aveva iniziato a frequentare la scuola, rievoca quella giornata: “Stavo andando in pasticceria a fare scorta di caramelle prima di partire per la colonia estiva. Ma improvvisamente alla mattina sentimmo alla radio che sarebbe stato dato un annuncio importante. Io aspettai, ascoltai e non capii bene cos’era successo, o meglio, non riuscii a rendermene conto, e uscii per andare a comprare le caramelle. In pasticceria si era già radunata un sacco di gente: iniziavano già a fare le scorte”.
In quest’epoca di blog e di giornalismo civile i racconti di quei pochi che ancora ricordano quel giorno, stupiscono per la loro somiglianza, come se fossero stati tutti presi da un unico forum. Sia i militari che le persone semplici, senza essersi mai incontrati o messi d’accordo, nelle pagine dei loro diari, scrivono delle stelle rosso rubino del Cremlino, del meraviglioso sole estivo, del famigerato annuncio via radio.
E anche se secondo i rapporti odierni, l’aggressione delle armate nazifasciste all’Urss non fu poi una grande sorpresa per i vertici militari sovietici, stando alle parole di Kirill Drjannov, uno dei maggiori specialisti del Museo della Difesa di Mosca, nonostante le informazioni raccolte dagli agenti segreti, il comando militare sovietico venne a sapere dell’inizio della guerra solo qualche ora prima e non fece in tempo a prepararsi adeguatamente. Anche se c’erano stati diversi segnali di un attacco imminente, basti pensare agli atti di sabotaggio compiuti da soldati tedeschi travestiti da soldati sovietici che tagliavano le linee di comunicazione e uccidevano gli ufficiali. La notte tra il 21 e il 22 giugno i sabotatori fecero esplodere alcuni grandi ponti e alla mattina 4.900 aerei tedeschi iniziarono a bombardare gli aeroporti e i magazzini militari.
In una situazione estrema come questa, le decisioni spettavano a una persona soltanto: Iosif Stalin. Ecco come viene descritta la chiamata al vertice dall’allora sindaco di Mosca, o, secondo la nomenclatura sovietica, presidente del consiglio dei deputati dei lavoratori, Vasilij Pronin: “Verso le 9 di sera venni chiamato al Cremlino insieme al segretario. Quando entrammo nell’ufficio di Stalin ci trovammo diversi membri del Comitato Centrale del partito. I volti erano austeri e preoccupati. Capimmo subito che non eravamo stati convocati per questioni di routine. E in effetti, appena ci fummo seduti, Stalin si rivolse a noi dicendo: Secondo i dati forniti da alcuni defezionisti le armate tedesche si preparano ad attaccare i nostri confini questa notte. E’ tutto pronto per la difesa antiaerea?. E dopo una pausa aggiunse: Oggi è sabato, tutti i dirigenti se ne vanno in dacia, cercate di trattenerne in città il più possibile…”.
Si dovette agire in fretta, perché dall’altra parte c’era un nemico non meno esperto nell’arte della guerra come Adolf Hitler. Il suo piano strategico per l’attacco dell’Unione Sovietica prevedeva la rapida conquista della parte europea del Paese nel corso di 16 settimane, cioè prima dell’arrivo del freddo autunnale. Vale la pena ricordare che questi territori dell’Urss superavano per estensione la stessa Europa. Secondo Konstantin Korzhenevskij, esperto di Storia della guerra, questi territori avrebbero dovuto essere usati come residenza d’élite per i vertici nazisti. Non ci sarebbe stato neanche bisogno di assumere della servitù: secondo il progetto di Hitler sui 190 milioni di abitanti dell’Urss, bisognava eliminarne 150 milioni e ridurre in schiavitù i restanti 40. A questo proposito, secondo Heinrich Himmler, lo schiavo avrebbe dovuto avere soltanto alcune semplici capacità: sapere contare fino a dieci in tedesco, scrivere il proprio nome e sapere chi era il suo padrone.
Secondo Kirill Drjannov, “oggi cercano di mettere in testa alla gente che quella di Hitler era una guerra contro i bolscevichi: in realtà gli ideologi nazisti, in primo luogo Himmler, sostenevano le teorie razziali e dichiaravano che la guerra avrebbe dovuto essere l’ultima campagna in oriente, e che avrebbe dovuto annientare l’Urss come unico ostacolo al dominio mondiale dei tedeschi. Questo tipo di informazione non veniva diffusa solo tra i vertici; i nazisti mettevano al corrente dei propri piani anche i soldati nemici, cioè quelli sovietici. Nei volantini lanciati dagli aerei, stampati in milioni di copie, i soldati russi venivano esortati a fermare “l’insensato spargimento di sangue in nome di ebrei e commissari”, mentre ai militari che sarebbero passati dalla parte di tedeschi veniva promessa una “buona accoglienza”, cibo e lavoro.
Da parte sua, l’Agenzia d’informazione sovietica, fin dalle prime ore, iniziò a preparare un collegamento dal fronte e dalle fabbriche. I comunicati venivano diffusi al mattino e alla sera attraverso apparecchi radiofonici attaccati ai pali lungo le strade, e venivano inoltre stampati sulle prime pagine di tutti i giornali. I giovani di tutto il Paese fin dal primo giorno iniziarono a ricevere l’ordine di presentarsi ai raduni militari. Per strada apparvero manifesti con incitazioni come “Tutti per il fronte! Tutti per la vittoria!”, “Il nemico verrà sconfitto! La vittoria sarà nostra!”. Le pareti delle case venivano tappezzate di annunci sugli allarmi antiaerei e di comunicazioni sulle stazioni della metropolitana in cui erano stati organizzati dei rifugi anti-bomba. Da Mosca iniziò l’evacuazione verso Kujbyshev (l’attuale Samara), che, se Mosca fosse caduta in mano al nemico, sarebbe diventata la nuova capitale. Non solo veniva trasferita la popolazione, ma anche intere fabbriche e aziende.
Le azioni militari si svolsero in modo estremamente rapido: durante la prima giornata cadde Brest, dopo sei giorni venne presa anche la capitale della Bielorussia, Minsk. La velocissima avanzata delle armate tedesche venne bloccata soltanto in autunno, alle porte di Mosca. Ci sarebbero state ancora molte battaglie, che avrebbero determinato il corso della storia della Russia: le battaglie per Mosca e Leningrado, i combattimenti di carri armati vicino a Stalingrado e Kursk, la liberazione della Bielorussia e la presa di Berlino. Ma questa storia iniziò proprio in quel giorno, il 22 giugno 1941. (http://russiaoggi.it/)

L’artista Kseniya Simonova attraverso i suoi quadri di sabbia ha ripercorso le sofferenze del popolo russo durante la Seconda Guerra Mondiale: i suoi disegni sono così sentiti, toccanti che alcuni spettatori non riescono a trattenere le lacrime.

21 giugno 1944: Leopoldo Gasparotto

Leopoldo Gasparotto (Milano, 30 dicembre 1902 – Fossoli, 21 giugno 1944) è stato un partigiano italiano, comandante delle Brigate “Giustizia e Libertà” della Lombardia.
Figlio di Luigi Gasparotto e Maria Biglia, nacque in una famiglia di idee progressiste (suo padre, Deputato e Ministro della guerra prima dell’avvento del fascismo divenne, dopo la guerra, deputato alla Costituente e fra i fondatori del Partito Democratico del Lavoro).
Si laureò in legge a Milano e svolse il servizio militare col grado di Tenente di complemento di Artiglieria da montagna. Di lì a poco, in qualità di profondo conoscitore della montagna, venne nominato accademico del Club Alpino Italiano e istruttore di alpinismo nell’apposita scuola militare ad Aosta. Le sue ferme convinzioni antifasciste non gli permisero tuttavia di fare carriera nell’esercito: rifiutò infatti di aderire sia al GUF sia al sindacato fascista, cui erano iscritti la massima parte degli avvocati che esercitavano a Milano.
Leopoldo Gasparotto si fece conoscere per il suo ruolo di ricercatore di nuove vie di passaggio nelle Alpi e, nel 1929, si recò nel Caucaso scalando per primo il picco Ghiuglà, mentre nel 1934 proseguì il suo lavoro di esploratore e scalatore in Groenlandia.
In questo periodo non si dedicò ad un’opposizione antifascista organizzata ma, dopo l’8 settembre 1943, si attivò per formare una Guardia Nazionale a Milano destinata a a combattere contro gli invasori nazifascisti. A tale proposito cercò di convincere il responsabile della piazza di Milano, generale Ruggeri, affinché organizzasse la difesa ad oltranza della città, ma le sue insistenze furono vane.
Messi al sicuro la moglie e il figlio, condotti clandestinamente in Svizzera, ritornò in Lombardia dove assunse il comando delle Brigate “Giustizia e Libertà” ivi presenti.
Nella zona di Pian del Tivano vennero predisposte diverse strutture logistiche atte al posizionamento di tali Brigate, mentre Leopoldo Gasparotto si recò in Val Codera, nell’alta Val Brembana, per organizzare le forze della Resistenza. La sua attività fu però notata dai nazifascisti che lo arrestarono a Milano in Piazza Castello, lo trasferirono a San Vittore e torturato. Gaetano De Martino nel suo “Dal Carcere di San Vittore ai lager tedeschi”, descrive l’arrivo di Gasparotto nel carcere: “ai primi di dicembre arrivò un gruppo d’eccezione: vicino al castello sforzesco erano stati arrestati una decina di partigiani, quasi tutti dirigenti. Quel giorno nel rientrare in cella vidi nel corridoio l’alta figura dell’amico Poldo Gasparotto, aveva l’impermeabile macchiato di sangue, a forza di nerbate gli avevano spaccato la testa. Potei avvicinarlo e scambiare con lui alcune parole, potei anche porgergli un po’ del cibo che avevo ricevuto nel pacco. Egli era calmo e parlava sorridendo. Nessun lamento per quel che gli era capitato, e solo un vago accenno alle valige che temeva sequestrate (le tre valige infatti contenevano i piani della linea gotica)”.
Gasparotto non rivelò nulla di quanto la Resistenza stava organizzando.
Dopo un breve periodo nel carcere di Verona fu internato nel campo di Fossoli. Qui venne nuovamente torturato, ma continuò a non rivelar nulla né sulla propria attività di partigiano né su quella dei compagni.
Un amico svizzero residente a Bellinzona mise a disposizione un’ingente somma presso una banca di Lugano con lo scopo di corrompere gli sgherri a guardia del campo affinché permettessero a Leopoldo Gasparotto di fuggire, ma il prigioniero, contattato da chi aveva l’incarico di farlo evadere, rispose che dal campo di Fossoli sarebbe uscito non grazie a dei “personaggi” corrotti dal denaro, ma esclusivamente usando le sue capacità e assieme ai compagni. L’incaricato del contatto venne successivamente catturato dai nazifascisti.
Leopoldo Gasparotto iniziò ad organizzare fughe di detenuti dal campo di concentramento basandosi anche sulla fiducia che i compagni di sventura riponevano in lui. Michele Vaina, autore di “Il crollo di un regime”, asserì che, nonostante il rigidissimo controllo degli sgherri nazifascisti che sorvegliavano il campo, Gasparotto riuscì a mantenere i collegamenti con i partigiani emiliani, non solo per aver aiuti immediati e per esser informato dell’evolversi della situazione, ma anche per organizzare una fuga di massa dei detenuti. L’audace piano venne però scoperto dai nazifascisti che iniziarono a reprimere i potenziali organizzatori del progetto.
Già agli inizi del 1944, Fossoli funzionò come centro per la raccolta dei detenuti politici destinati ai Lager di Auschwitz, Bergen-Belsen, Ravensbruck, Buchenwald e Mauthausen: i primi invii verso i campi di sterminio iniziarono nel febbraio di quello stesso anno e fu in questa situazione che il capo partigiano portò avanti i suoi piani per organizzare e portare a compimento una fuga generale. Tale evasione collettiva non ebbe mai luogo: nel giugno del 1944 Leopoldo Gasparotto venne infatti ucciso dai nazifascisti, insieme ad altri internati, in circostanze che non furono mai del tutto chiarite.
Le testimonianze di due detenuti, Mario Fasoli e Eugenio Jemina, fuggiti prima dell’eccidio di cui fu vittima anche Gasparotto, furono determinanti ai fini della ricostruzione storica di quanto accadde in quei tragici giorni e del ruolo svolto dal capo partigiano.
Questa la motivazione del conferimento della Medaglia d’oro al valor militare alla memoria:
“Avversario d’antica data del regime fascista, già prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 organizzava il movimento partigiano nella Lombardia. Nominato successivamente comandante militare delle formazioni lombarde “Giustizia e Libertà” dava impulso all’iniziativa, esempio a tutti per freddo e sereno coraggio dimostrato nei momenti più difficili della lotta. Caduto in agguato tesogli per vile delazione, sopportava il carcere di San Vittore subendo con superbo stoicismo le più atroci sevizie che non valsero a strappargli alcuna rivelazione. Trasportato nel campo di concentramento di Fossoli per essere deportato in Germania, proseguiva imperterrito a lottare per la causa e tentava di organizzare la fuga e l’attacco ad una tradotta tedesca per salvare i deportati avviati al freddo esilio e alla lenta morte. Sospettato per la sua nobile attività veniva vilmente trucidato dalla ferocia nazista.” (da https://www.facebook.com/pages/Italia-Libera-Civile-E-Laica-Italia-Antifascista)

http://youtu.be/jJm5iZ3vxbw

Emily e Clorinda

Emily e Clorinda, due giovani donne di generazioni diverse, ma vicine, accomunate da un segno di parentela, ma non solo, anche da un’identificazione di ideali e prospettive. Clorinda Menguzzato non aveva ancora vent’anni (li avrebbe compiuti di lì a poco), quando cadde a morte dopo tre giorni di sevizie e torture da parte dei tedeschi, lungo un tornante sulla strada che collega Castello a Pieve Tesino. Era l’ottobre del 1944.
Emily Menguzzato ha trent’anni ed è la nipote di Clorinda, vive a Trieste dove lavora in una cooperativa sociale e si occupa di minori e di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva. “Mio padre mi parlò di questa storia, per la prima volta, in una delle rare occasioni in cui da bambina mi portarono a Castello Tesino”. Emily ha un bel volto, lo sguardo solare, la tensione di chi è aperto alle possibilità. “Avevo circa 7 o 8 anni e, assieme ai miei due fratelli maggiori, entrammo nella casa dei bisnonni. Ci fermammo lungo il corridoio dove era appesa la foto di Clorinda. Papà ci spiegò che quella era la sorella del nonno, uccisa durante la guerra”.
“E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento”…
“Non somiglia un po’ a Emily?”, aveva concluso il babbo in quella circostanza.
“Ricordo – osserva adesso – che quella frase me la fece sentire più vicina”. E’ l’inizio di un percorso di avvicinamento alla storia della sua famiglia paterna, la prima di una serie di tappe che porta Emily alla conoscenza della zia, del perché andò in montagna e si unì ai partigiani, della sua morte quando era giovanissima, dell’incomprensione che è durata a lungo riguardo alle sue scelte coraggiose. E’ per Emily anche un passaggio dalla conoscenza all’empatia, un immedesimarsi amorevole nelle ragioni di quella sua zia che era più giovane di lei quando si trovò davanti a difficili strade da percorrere, a ostacoli da oltrepassare. Scopre che “Veglia” era stata torturata e violentata dai tedeschi durante gli interrogatori perché facesse i nomi degli altri partigiani, ma lei non parlò; che ciò le è valso di essere insignita – fra le pochissime donne della Resistenza – della Medaglia d’Oro al Valor militare. La storia di quella sua zia rimane però per la nipote solo “una storia”, nonostante senta forte il valore simbolico anche quando comincia a parlarne con i ragazzi con cui lavora.
Poi, circa un anno fa, qualcosa cambia nel senso di una ancora maggiore consapevolezza. “Ero in viaggio per un corso di formazione per operatori della giustizia minorile – racconta Emily -; si parlava di valori e democrazia ed erano presenti parenti di vittime di mafia. Di colpo la vita di Clorinda ha smesso di essere una storia ed è diventata una realtà”. Emily comincia così a pensare a lei in altri termini, sotto altre sembianze: non era più solo l’eroina di famiglia. “Era una ragazza giovanissima che mi sembrava di conoscere e che, per stare dalla parte più difficile e scomoda, aveva dato la vita sacrificando il suo futuro e la possibilità di essere moglie e madre”. Comincia a guardare a quella lontana vicenda molto più da vicino. “E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento. Sapevo della sua morte, ma solo allora ho provato un forte dolore”.
Emily sente di esserle grata non solo per il suo contributo alla costruzione della nuova democrazia nata dalle fatiche e dai sacrifici della Resistenza, ma è conscia che senza il suo silenzio mantenuto sotto tortura probabilmente suo nonno Rodolfo (nome di battaglia “Menefrego) sarebbe stato catturato e ucciso, suo padre non sarebbe nato e nemmeno lei. “Sentivo che in qualche modo le dovevo anche la vita!”. E il pensiero di Emily va a suo nonno, che insieme alla sorella Clorinda fu parte attiva del battaglione Gherlenda, lassù tra gli aspri declivi di Costabrunella. A lui, premiato poi con una croce al merito di guerra. “A lui, che si tenne questo dolore per sé per tutta la vita”.
E’ così che in questa giovane donna trentenne nasce il bisogno fortissimo di mettersi sulle tracce di Clorinda, di conoscere la sua storia fino in fondo, di leggere tutto ciò che è stato scritto su di lei e di parlare con chi l’ha conosciuta. Vuole prendersi tutto il tempo necessario per conoscere e vivere con calma i luoghi e i posti che sono stati significativi per sua zia Clorinda, la casa, le strade, i vicoli, l’aria che si respira nel paese nelle ore più solitarie del giorno. Un posto in qualche modo magico, un luogo dove coltivare la memoria. “Fare in modo che la sua memoria sia preservata – ha pensato Emily – è il minimo che io possa fare”. E questo viene tradotto nel suo lavoro quotidiano. “Spesso, parlando con i ragazzi di giustizia e libertà si sente la necessità di fornire loro esempi positivi. Don Ciotti dice che la memoria deve trasformarsi in impegno per mantenere vivi gli insegnamenti che le vittime delle ingiustizie sociali ci hanno lasciato. Fare memoria non deve limitarsi a ‘celebrare’ ma deve tradursi in azioni concrete nel nostro quotidiano”. Solo così Clorinda, Ancilla – “Ora”, l’amica staffetta partigiana pure lei trucidata dai nazisti – e gli altri non sono morti invano. (da http://www.vitatrentina.it)

18 giugno 1944: Repubblica Partigiana di Montefiorino

Il territorio della Repubblica di Montefiorino

Il 18 giugno dell’estate del ’44, la prima «bozza» di repubblica italiana democratica e antifascista nacque tra le montagne dell’Appennino reggiano e modenese. La storia ci tramanda quell’esperienza come la Repubblica di Montefiorino, dal nome della sua «capitale». Un territorio di 600 chilometri quadrati, con 50mila abitanti e paesi importanti come Carpineti, Ligonchio, Toano, Villa Minozzo. Esperienza eroica, creata dai partigiani e sostenuta dalle popolazioni, contro cui si scatenò la furia tedesca e dei fascisti repubblichini di Salò. Montefiorino cadde, ma il seme della democrazia dopo ventidue anni di dittatura era ormai gettato.

Dopo la sconfitta tedesca a Cassino e la liberazione di Roma da parte degli alleati (4 giugno 1944), il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (Clnai) lancia un appello per un’offensiva generale: l’indicazione è quella di creare in zone liberate vere forme di governo amministrativo. In questo appello si legge che bisogna «assumere la direzione della cosa pubblica, di assicurare in via provvisoria le prime urgenti misure di emergenza per quanto riguarda la prosecuzione della guerra di liberazione, l’ordine pubblico, la produzione, gli approvvigionamenti, i servizi pubblici e amministrativi».
La Repubblica di Montefiorino è stata la prima in Italia ad alzare la bandiera della democrazia dopo oltre vent’anni di regime fascista.
In quei 600 chilometri quadrati a cavallo dell’Appennino modenese e reggiano si respira un’aria diversa nell’estate del ’44. Qualche mese prima il movimento partigiano, già attivo nella pianura, ha cominciato ad estendersi verso la montagna. A formare i primi nuclei di combattenti sono giovani renitenti alla leva che trovano punti di riferimento in alcuni anziani antifascisti e in parroci.
I primi scontri fra opposte fazioni nascono per impedire il rastrellamento di renitenti e tra il febbraio e il marzo i partigiani compiono una serie di azioni importanti.
La risposta tedesca è spietata: il 18 marzo 1944 nazisti e militi fascisti della repubblica di Salò compiono nel Modenese la strage di Monchio, Susano e Costrignano durante la quale vengono trucidati 136 civili.
A pochi chilometri di distanza a Cervarolo, nel Reggiano, vengono uccise 24 persone.
Nei mesi successivi le forze partigiane, sempre più organizzate, sconfiggono tutti i presidi delle guardie nazionali repubblicane e il 18 giugno cade l’ultimo, quello più importante della zona: il presidio di Montefiorino. Nasce così la Repubblica Partigiana e pochi giorni dopo i capofamiglia scelgono i membri delle giunte amministrative attraverso una vera forma di partecipazione democratica.
Uno dei primi impegni delle giunte è quello di ristabilire un rapporto diverso e più equo con le categorie produttrici, i contadini innanzitutto, coinvolgendoli in una soddisfacente politica dei prezzi.
La Repubblica di Montefiorino viene attaccata già nelle settimane successive alla sua nascita, a causa della sua posizione strategica nelle immediate retrovie della linea Gotica, contro la quale si è spenta l’avanzata delle colonne angloamericane. Intanto a Montefiorino arrivano dalla pianura alcune migliaia di giovani partigiani.
L’offensiva tedesca vera e propria contro questo vero e proprio primo esperimento di vita pubblica democratica, ha inizio il 29 luglio lungo tre diretrici principali e con l’impiego di circa cinquemila soldati: da nord lungo il Secchia e la strada delle Radici; da ovest contro Carpineti e Villa Minozzo; da sud contro Sant’Anna Pelago, Ligonchio e Piandelagotti.
L’operazione può considerarsi conclusa il 6 agosto, ma il grosso grosso delle formazioni partigiane ha cominciato a sganciarsi il 31 luglio ripiegando nell’alta valle del Panaro. La Repubblica vive una sospensione a partire dal primo agosto.
Ma la Resistenza non è per nulla annientata com’era nell’intenzione dei tedeschi che si vendicano rabbiosamente prendendo a cannonate e bruciando alcuni paesi della Repubblica, come avviene a Villa Minozzo e Toano. A partire da ottobre le giunte popolari riprendono però a funzionare e nasce il comitato di liberazione nazionale della montagna. Il seme della libertà ha ripreso a germogliare.

Un protagonista di quei giorni: Torquato Bignami

Il museo della Repubblica Partigiana di Montefiorino

13-14 giugno 1944: 83 minatori uccisi a Niccioleta e a Castelnuovo Val di Cecina

“Il 14 giugno 1944 ottantatre minatori, fra i quali venticinque miei compaesani per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo in Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Sento che devo essere degno di loro, che la mia cultura non mi deve staccare da loro, che anzi accresce le mie responsabilità di solidarietà con il mondo.” Padre Ernesto Balducci

Niccioleta nel 1944, era abitata da 150 famiglie di minatori che provenivano da Massa Marittima, Santa Fiora, Castell’Azzara, Abbadia San Salvatore, Selvena e che lavoravano in una miniera di pirite di ferro. La miniera era gestita dalla ditta Montecatini e aveva come responsabile il direttore Ubaldino Mori, coadiuvato dal vice direttore ing. Boekling, dal segretario dott. Lavato e dall’addetto alle ricerche geofisiche ing. Ferrari: essi erano ritenuti filotedeschi. Il direttore, infatti era un fervente fascista, che dopo il 25 luglio aveva cambiato l’atteggiamento e dall’8 settembre era in contatto col movimento partigiano. Tra gli operai di Niccioleta, vi erano sedici famiglie di fascisti, che non avevano rapporti con gli altri minatori e che sembravano inoffensivi, invece covavano un pensiero fisso, quello di vendicarsi. Vendicarsi, ma di che cosa?? Questi operai, si recavano spesso al comando tedesco, dicendo che il paese era quasi tutto antifascista e che la popolazione stava cercando di attuare un piano per ribellarsi all’oppressione tedesca. In realtà tutto ciò non accadeva, perchè le preoccupazioni della gente di Niccioleta erano quelle di tutelare esclusivamente il posto di lavoro e non avevano nessuna velleità nè nei confronti di chi era al comando, nè contro questi compaesani fascisti. Infatti, quando il paese il 25 luglio festeggiò la caduta del fascismo, nessuno torse loro un capello.
La prima avvisaglia, però di ciò che sarebbe accaduto, si ebbe il 5 giugno quando dei soldati tedeschi, si recarono alla direzione della miniera dicendo che alcuni operai si manifestavano antifascisti e che aiutavano i partigiani. I militari, allora, tirarono fuori una lista con alcuni nomi di persone sospette, che a loro avviso dovevano essere ìnterrogate. Solo tre operai appartenenti a quell’elenco, furono condotti dal comandante tedesco che disse loro di cambiare atteggiamento altrimenti sarebbero intervenuti con maniere forti. Dal 9 al 12 giugno, un gruppo di partigiani entrò in paese e disarmò la guardia repubblicana; perquisirono le case dei fascisti ma non compirono atti di violenza nei loro confronti. Fecero anche sventolare una bandiera bianca per non far bombardare Niccioleta dagli aerei alleati. I partigiani, dopo qualche giorno andarono via consigliando agli operai di stilare una lista di nomi per cominciare a fare dei turni di guardia alla miniera, temendo che i tedeschi ormai allo sbando sabotasscro gli impianti. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, dei reparti di SS. e fascisti, arrivarono silenziosamente ai piedi del paese. Le sentinelle della miniera, tra le quali c’era anche il figlio del direttore, si diedero alla fuga non potendo avvertire nessuno. I membri del comitato dei minatori, fecero appena in tempo a nascondere nel rifugio antiaereo alcuni fucili da caccia, assieme al famoso elenco con i nomi delle persone addette a fare la guardia. Fu forse questo l’errore che causò poi la tragedia.
I fascisti e i tedeschi, che intanto avevano fatto irruzione nel paese, fecero uscire gli uomini in strada e chiusero le donne e i bambini in casa sprangando porte e finestre. Dopo alcune ricerche, furono trovate le armi e con loro la lista; gli operai furono radunati in massa nella piazzetta e inziò così l’interrogatorio; nel frattempo alcuni miliziani controllavano nelle abitazioni sperando di trovare qualcosa di compromettente. Mentre il paese veniva rovistato in lungo e in largo, sei operai tra i quali Ettore Sargentoni con i figli Aldo e Alizzardo e Bruno Barabissi, tutti selvignani, vennero portati nella sala del dopolavoro e qui, tra una domanda e l’altra, furono picchiati selvaggiamente a causa delle risposte evasive che essi davano. Il Barabissi fu visto uscire barcollante e mentre veniva sospinto verso il muro di una casa, implorava pietà. In quel momento uno sparo di mitra gli sfiorò la testa; avevano così voluto intimorirlo. Fu riportato dentro alla sala, assieme agli altri e qui continuarono le percosse. Dopo un pò il Sargentoni con uno dei suoi figli e un altro operaio di nome Antimo Chigi furono trascinati fuori; vennero portati in un cortile dove con alcuni colpi di arma da fuoco vennero massacrati. Toccò poi al Barabissi e a Rinaldo Baffetti, che alla vista dei tre cadaveri cominciarono a gridare, finchè, colpiti dai proiettili caddero a terra in una pozza di sangue. L’ultimo fu Alizzardo, che quando vide quella scena, si gettò sopra il padre ed il fratello abbracciandoli teneramente, ma anche lui non fu risparmiato. Gli altri operai rimasti, prima di partire per Castelnuovo Val di Cecina, dove loro credevano che da lì sarebbero stati deportati in Germania, ebbero l’occasione di rivedere per l’ultima volta i familiari che portarono loro degli effetti personali. Un gruppo di uomini sopra i cinquant’anni fu liberato e rispedito a casa; gli altri, i settantasette rimasti, con un età che oscillava tra i venti e i quarant’anni, alle 21,30 si incamminarono verso Castelnuovo dove arrivarono all’1,OO. Furono portati dentro alla sala cinematografica e vennero sorvegliati a vista, In quel luogo le ore passavano lente, c’era chi non resse alla stanchezza e si addormentò, mentre la maggior parte di essi rimasero svegli aspettando con trepidazione la sorte che sarebbe loro toccata.
Il giorno dopo i minatori restarono dentro alla sala, senza che fosse data loro alcuna notizia, fino al tramonto quando furono portati verso la strada che va a Larderello. Dopo aver percorso un chilometro il corteo fu deviato in una stradina che scendeva verso i soffioni di Castelnuovo. Alle 19,30 arrivarono nel luogo dove sarebbe avvenuto l’eccidio, un posto tetro, vicino a quei soffioni ululanti, che coprivano qualsiasi tipo di rumore, anche le poche parole che quei “disgraziati” cercavano di scambiarsi. I tedeschi li divisero in tre gruppi, il primo dei quali fu fatto incamminare verso un sentiero che costeggiava un burrone e dopo una svolta a destra quegli uomini furono falciati dai colpi delle mitragliatrici ben posizionate e nascoste dalle fascine. Anche il secondo gruppo fece la stessa fine, mentre l’ultimo, composto dai più giovani, fu fatto passare dalla parte opposta della strada. I ragazzi quando videro i loro familiari e gli amici in fondo al burrone coperti di sangue, tentarono la fuga, ma non riuscirono che a fare pochi passi cadendo nel precipizio sopra gli altri. Un contadino che abitava lì vicino, vide tutta la scena e raccontò che alcuni fascisti scesero in fondo al dirupo e dopo aver rubato le misere cose che i minatori avevano addosso, per sicurezza gli spararono ancora un colpo di pistola alla testa. La popolazione di Castelnuovo avvertita dell’eccidio che si era compiuto accorse sul luogo, trovando una scena veramente macraba: 77 operai uccisi barbaramente. Gli stessi abitanti, riuscirono a portare con grande difficoltà quei corpi straziati e già in stato di avanzata decomposizione (dovuta al caldo e al calore dei soffioni), in un luogo vicino al paese e qui li seppellirono. In seguito, quando fu possibile, i corpi furono portati nei luoghi di provenienza, grazie anche allintervento della ditta Montecatini.
Per quell’eccidio solo pochissime persone hanno pagato, si parla di tre fascisti che scontarono una pena di trenta anni; troppo poco per 83 vittime innocenti.  (http://selvena.altervista.org)

Guerra di Liberazione e non guerra civile

Nino De Marchi “Rolando”, classe 1920, della Divisione Garibaldi “Nino Nannetti”, intervenuto alla manifestazione di Vidor del 2 giugno 2013, ha ribadito con forza queste parole:

“Non voglio fare discorsi, voglio semplicemente dirvi questo: quando sentite parlare di “guerra civile” rispondete che la nostra è una Guerra di Liberazione e basta!!!”

Quando si parla di guerra civile deve esistere il presupposto che entrambe le parti in conflitto si riconoscessero come parte dello stesso stato o della stessa nazione. Non c’è dubbio che una delle due parti in conflitto aveva deciso, tradendo il proprio paese, di riconoscersi in un altro stato e nelle ragioni di un’altra nazione. In una sentenza contro alcuni appartenenti della legione Tagliamento emessa dal tribunale militare di Milano  il 28 agosto 1952, i giudici spiegano in modo chiaro come poteva essere inquadrata la Rsi:

“Non essendo sorta la Rsi da una norma giuridica che la riconoscesse come leggittimo successore del governo italiano, e contemporaneamente non avendo i requisisti del governo di fatto insurrezionale, devesi concludere ch’essa consistette in un ente alle dipendenze dell’occupante germanico, il quale volta a volta riconosceva ad esso determinati poteri nei limiti dall’occupante consentiti, che comunque, secondo l’ordinamento internazionale, non potevano andare oltre i poteri dello stesso occupante…per questo la Rsi deve essere ritenuta come un’associazione o organismo senza veste giuridica, posto in essere da cittadini italiani onde combattere contro lo Stato italiano, onde alla stessa Rsi non può essere riconosciuta leggitimità alcuna, nè ai suoi atti, nè agli ordini delle autorità da esse costituite; tali ordini e tali atti, oltre a non avere rilevanza giuridica, hanno indubbi requisiti di antigiuridicità”

Chi parla di guerra civile vuole far intendere che, essendo i protagonisti delle due parti cittadini italiani e tutti in buona fede nel sostenere i propri ideali (senza spiegare con chiarezza quali erano gli “ideali” fascisti e non ammettendo che non erano per niente equiparabili a quelli antifascisti) bisognerebbe stabilire una memoria condivisa dalla quale i fascisti e i reduci di Salò dovrebbero trarre nuova leggitimazione; peccato che, proprio la storia repubblicana di questi 70 anni, dimostra come una delle parti non intende affatto riconoscersi nella Repubblica e nella Costituzione nata dalla Resistenza. Anche  in Francia c’è stata una Guerra di Liberazione e anche lì c’era un regime fantoccio (Vichy), ma nessuno in quel paese si sogna di etichettare come “guerra civile” la lotta combattuta contro dei francesi che avevano tradito la nazione e come traditori sono stati perseguiti con ben maggiore durezza che nel nostro paese. In Italia dal ’43 al ’45 c’è stata una Guerra di Liberazione e basta, come dice “Rolando” e bisogna ribadirlo sempre, in tutte le occasioni e in tutte le sedi, come fanno i nostri ultimi testimoni che hanno vissuto sulla loro pelle la lotta per liberare l’Italia dai nazisti e dai fascisti traditori.

Le foto dell’incontro di Vidor con i  partigiani della provincia di Treviso: http://imgur.com/a/lti3G

5 giugno 1944: Ugo Forno

Questa è una storia che sembra scritta dalla penna di Ferenc Molnar e che fa venire in mente le immagini dei piccoli sabotatori di “Roma città aperta”. Ma questa è una storia vera che ha come protagonista Ugo Forno, un ragazzo di 12 anni ammazzato dai nazisti in fuga a Roma il 5 giugno del 1944, il primo giorno della città liberata.

Quella mattina Ugo esce di casa per andare a vedere l’arrivo degli alleati: in tasca ha due pistole lanciarazzi tedesche trovate per strada. Vicino ai giardinetti di Piazza Vescovo sente delle persone discutere animatamente su dei guastatori tedeschi che stanno minando un ponte sulla via Salaria: Ugo si allontana, entra in una casa in rovina dove aveva visto delle armi abbandonate, uscendone con un fucile a tracolla e diverse munizioni. Insieme a lui si aggregano altri giovani sui diciotto – venti anni, tutti armati con fucili e pistole.

Tutti si dirigono verso il ponte sulla Salaria: incontrano un gruppo di contadini e Ugo dice loro. “I tedeschi stanno attaccando le mine al ponte sull’Aniene, lo vogliono demolire. Noi andiamo a salvarlo, ci devono passare gli americani. Avete delle armi? Venite con me”. Dice proprio così: “con me”, non “con noi”, parla da vero comandante.

I contadini si alzano, si armano anche loro e seguono il ragazzino che cammina in testa al gruppo: arrivano nei pressi del ponte di ferro sull’Aniene mentre i guastatori tedeschi stanno piazzando le mine sotto le arcate. Il gruppo comincia a sparare e i guastatori si mettono al riparo, capiscono di non avere più tempo per distruggere il ponte e si ritirano; hanno con loro un mortaio e, per coprirsi la fuga, iniziano a sparare sul gruppo dei partigiani. Il primo a morire è Francesco Guidi, poi vengono ferite altre due persone e le schegge del terzo proiettile colpiscono Ugo al petto e alla testa: il comandante bambino muore sul colpo, mentre i guastatori scappano via.

Sono gli ultimi tedeschi a scappare e Ugo Forno è l’ultimo romano che muore combattendo per cacciarli. Un gruppo di gappisti comandati da Giovanni Allegra giunge sul posto: è lui che si china sul ragazzo, gli chiude le palpebre sugli occhi sbarrati e avvolge il suo corpo in una bandiera tricolore ridotta a brandelli.

Quel ponte sull’Aniene c’è ancora. Presso l’ufficio riconoscimenti del ministro della Difesa c’è anche da cinquant’anni, in qualche polveroso e dimenticato fascicolo, la splendida motivazione (Al folle coraggio di questo ragazzino, alle raffiche ingenue del suo mitra contro i soldati nazisti, alla sua morte guardiamo come all’esempio di chi non volle far finta di non vederedella medaglia d’oro che il CLN romano propose per il più giovane partigiano (insieme al napoletano Gennarino Capuozzo) della nostra lotta di liberazione nazionale. Un riconoscimento che, chissà per quali oscuri motivi resta per tanti anni a livello di proposta. Nessuno se n’è occupato, nessuno se ne ricorda.

Bisognerà aspettare il 16 gennaio 2013 quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferisce a Ugo Forno (27 aprile 1932 – 5 giugno 1944) la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Il ponte sull'Aniene nel giorno dell'intitolazione a Ugo Forno

23 maggio 1992: strage di Capaci

Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Di Cillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani

Questa la strage di Capaci raccontata da Daniele Biacchessi:

Occhi osservano dall’alto della collina. Occhi minacciosi, pieni di odio. Occhi che hanno il colore del tritolo incrociano occhi buoni di uomini e donne. Sono dentro un’automobile che corre verso la morte.
L’ultima corsa di Giovanni Falcone inizia all’aeroporto di Ciampino, a Roma, sabato 23 maggio 1992. Sono le 16,50. Un jet dei servizi segreti decolla con a bordo il giudice e la moglie Francesca Morvillo.Destinazione Palermo, aeroporto di Punta Raisi.Atterrerà 53 minuti dopo.
Li attendono 6 agenti con le loro auto, 3 Fiat Croma blindate. Le vetture si muovono dall’aeroporto.Falcone sceglie la Croma bianca.Lui è al volante, la moglie gli siede accanto. Imboccano l’A29.
La campagna siciliana sfila ai lati con i suoi colori di maggio.Il sole taglia di traverso i finestrini mentre un caldo vento di scirocco accarezza tutti i loro volti.C’è odore di mare.
Sulla statale che corre parallela all’autostrada, una Lancia Delta si mette in moto. E’ quella di Gioacchino la Barbera.
Palermo dista solo 7 chilometri.Le auto si stanno lentamente avvicinando allo svincolo Capaci-Isola delle Femmine.Dalle colline che sovrastano l’autostrada alcuni uomini seguono la scena, scatto dopo scatto, come se fosse la sceneggiatura di un film.Ma un film proprio non è.
L’interruttore che mette in moto il meccanismo della strage è un segnale in codice.Una telefonata ” sbagliata”, entrata nella storia di sangue di Capaci.
“Pronto Mario?”
“No, ha sbagliato numero”
Il cellulare di La Barbera squilla alle 17:02.Sa che quella telefonata non è un errore ma un segnale preciso.Con lui, in un casolare vicino alla statale, ci sono altri sette uomini.Sono al vertice di Cosa Nostra.
La Barbera sale sulla sua Lancia Delta e imbocca la strada che corre parallela alla Palermo – Punta Raisi.Arrivato ad un punto prefissato si ferma e aspetta.Ferrante e Salvatore raggiungono l’aeroporto.Gioè e Troìa inseriscono una ricevente vicino a 500 chilogrammi di esplosivo, in un tombino dell’autostrada.Poi salgono con Brusca e Battaglia sulle colline di Capaci, sotto lo sperone di rocce bianche che interseca il profilo di Montagna Grande.Dall’autostrada, spuntano 3 Fiat Croma.La Barbera riparte e le segue a distanza.Alle 17:49 chiama Gioè sulle colline.
Meno di un secondo e la telefonata s’interrompe. Sono le 17,56 minuti e 48 secondi, l’uomo della collina, Giovanni Brusca, sfiora il tasto del comando a distanza.L’impulso raggiunge il tombino dove è collocata la ricevente.I cinque quintali di tritolo, seppelliti nel canale di scolo, divampano, il boato è enorme, solleva cento metri di asfalto.Si apre una voragine, larga trenta metri e profonda otto, che risucchia metallo, uomini, alberi, massi.
Nella prima auto catapultata a 5 metri gli agenti di scorta muoiono sul colpo: Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani.Nella seconda, spezzata in due tronconi, il giudice e la moglie, respirano ancora.Una pattuglia della polizia accosta.Giovanni Falcone e Francesca Morvillo moriranno all’Ospedale Civico di Palermo, un’ora più tardi.L’autista del giudice e gli altri due poliziotti, feriti gravemente, sopravvivono.L’uomo della Lancia Delta è ormai lontano.
L’esplosione di Capaci deflagra fino a Montecitorio.Il 25 maggio viene eletto il nuovo presidente della Repubblica: Oscar Luigi Scalfaro, 73 anni, democristiano.Lo Stato e la politica sono sotto accusa per la morte di 5 funzionari dello Stato.L’Associazione Nazionale Magistrati denuncia: il potere politico è fondato sul consenso criminale.
Ci saranno manifestazioni: a un mese dalla strage di Capaci, 100 mila persone arrivano a Palermo da tutta Italia per sfilare contro la mafia. Sono in gran parte giovanissimi.
Il governo Andreotti approva norme antimafia di emergenza: carceri speciali per i boss, indagini segrete di polizia e premi per i pentiti.
Il ministro della Giustizia Claudio Martelli propone Paolo Borsellino come Superprocuratore antimafia.Intanto il pentito Antonino Calderone avverte: ci saranno altri delitti eccellenti.
Paolo Borsellino lo ripeteva come fosse un’ossessione:“Il mio problema è il tempo ”.Lo diceva in quei cinquantasette giorni dell’estate 1992. Perché morto Giovanni Falcone, Paolo Borsellino sapeva di essere per Cosa Nostra il primo della lista.
Il 19 luglio 1992 a Palermo è una calda domenica.Le indagini sulla morte di Giovanni non competono a Borsellino, ma alle sette del mattino il procuratore Giammanco gli comunica che finalmente potrà occuparsi anche delle indagini su Palermo e provincia, come lui da tempo richiedeva.
Paolo Borsellino pranza in famiglia nella casa di Villagrazia di Carini.Poi, nel tardo pomeriggio, decide di far visita all’anziana madre. Tra il mare e la casa della signora Maria a Palermo c’è un’autostrada, e quel pomeriggio le tre “croma” blindate su cui viaggiano il giudice e la sua scorta transitano vicino allo svincolo di Capaci, dove una striscia di vernice rosso sangue sul guard-rail già ricorda la strage del 23 maggio.
Arrivati in città, raggiungono via Mariano D’Amelio, una strada chiusa, ostruita al fondo da un muro di tufo che recinta un cantiere edile. Paolo Borsellino fa giusto in tempo a citofonare al numero civico 21, quando alle sue spalle esplode una Fiat 126 carica di tritolo.
Muore sul colpo e con lui i sei uomini della scorta: Antonio Vullo, Emanuela Loi, Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano.
Così si moriva a Palermo.Soli.Senza la protezione morale dello stato che si serve.Senza neanche il tempo di vivere.Senza un saluto, senza aver chiuso l’ultima pagina di un inchiesta.Soli e minacciati… lavorando e basta.Soli…Semplicemente soli.
A vent’anni di distanza dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio emerge quello che in molti nel 1992 sospettano: non può esserci soltanto la mafia dietro a quegli eccidi. Le indagini e i processi istruiti da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino stavano scoperchiando l’intreccio ormai confermato tra Stato e mafia, tra uomini delle istituzioni e potere affaristico e criminale.
Qualcosa che nel 1992 si poteva soltanto sussurrare, ma che oggi si può gridare  a gran voce.

Intervista a Giuseppe Costanza, l’autista di Falcone sopravvissuto alla strage

“Ho Vinto Io”: Rosaria Schifani racconta la strage di Capaci

http://www.youtube.com/watch?v=4eqdsjrav9c&feature=share&list=FLkACoSwDssj_XxMTkX3K0IA

Don Gallo è morto

Comunque è vero, sono comunista. Non dimentico mai la Bibbia e il Vangelo. E non dimentico mai quello che ha scritto Marx.

Coriaceo, di strada, sempre vicino agli ultimi. Don Gallo è morto nel pomeriggio di oggi. Di sé diceva di trovarsi più a suo agio nelle sezioni della Cgil che non in Chiesa, ma era proprio con l’abito da sacerdote e il sostegno della sua Chiesa che riusciva a stare vicino ai più indifesi di questa società, alle ragazze vittime della tratta. Fondatore della comunità di “San Benedetto al Porto”, don Gallo ha sempre predicato un sacerdozio povero, non nei palazzi ma per le strade.

Aggiornamento del 24/5/2013:

E l’ “Avvenire” dedica al Don solo un rimbrotto a pagina 13:
Meritare il Paradiso è ben altra cosa, per fortuna, che guadagnarsi la prima pagina di Avvenire, ma suscita comunque tristezza, tanta tristezza più che rabbia, la decisione del quotidiano dei vescovi italiani di dedicare alla morte di Don Gallo solo un articoletto nel basso di pagina 13, in cui subito dopo la notizia si avverte il lettore che le “prese di posizione” del Don “non di rado erano apparse in aperto contrasto con l’insegnamento della Chiesa”. Il giornale della Chiesa dei Ruini, dei Bertone, dei Bagnasco ha mostrato il suo volto duro e arido persino dinanzi alla “salita in cielo” di uno dei suoi sacerdoti certo più criticati, ma anche più amati, seguiti e conosciuti.
Ieri, quelle cinque striminzite colonnine in fondo alla pagina davano una sensazione netta di condanna, non di pietà. Chissà perché venivano in mente le porte sbarrate della chiesa del quartiere Don Bosco a Roma di fronte alla bara di Piergiorgio Welby. A Don Gallo, Avvenire non fa sconti. Anzi: “Un sacerdote controverso che nel corso degli anni, pur con la lodevole intenzione di avvicinarsi evangelicamente ai poveri, non sempre pare aver tenuto nel debito conto quello che Benedetto XVI avrebbe definito nella sua enciclica il necessario connubio tra verità e carità”. Per il quotidiano della Cei, la conferenza episcopale italiana, Don Gallo è stato un prete “scomodo” fino all’ultimo, un eretico rispetto all’ortodossia e al religiosamente corretto. Ma Don Gallo si consoli: se Avvenire fosse uscito ai tempi di Cristo, avrebbe nascosto a pagina 13 la notizia che la prima persona a vedere Gesù risorto fu un’ex prostituta.(da “Il Fatto” del 24/5/13)

 

Proposta per la costituzione di un “Archivio della Memoria”

Questa lettera è stata inviata alle Autorità Comunali di Mirano, per avviare una riflessione sull’importanza di costituire a Mirano un “Luogo della memoria, della memoria Resistente”  dove raccogliere testimonianze  e documenti in ricordo di quanti lottarono e morirono per la Democrazia e la Libertà.
Uno spazio per incontrarsi, studiare e discutere, rivolto soprattutto alle giovani generazioni perché ritrovino le tracce di una storia di popolo capace di  far riflettere  su tanti orrori ma anche su tante speranze in un’Italia  diversa, più giusta, costruita sui valori dalla Carta Costituzionale nata dalla Resistenza.
Approvata dalla Direzione della Sezione A.N.P.I di Mirano e del miranese il 22.01.2013.

Egr. sindaca,
Dott.ssa Maria Rosa Pavanello
p.c.
Dott.ssa Renata Cibin
Delegata alle politiche culturali ed educative
Dott. Federico Vianello
Assessore alla politiche ambientali

Oggetto: Proposta per la costituzione di un “Archivio della Memoria”

Gent.le  Dott.ssa Maria Rosa Pavanello,
la  realizzazione di un “Archivio della Memoria” è da sempre un’esigenza fortemente sentita dagli iscritti alla sezione ANPI di Mirano, oltre che da quanti riconoscono fondamentale il ruolo della trasmissione della storia come realtà viva e partecipata, legata alle trasformazioni socio-economiche del territorio.
Negli anni, l’ANPI, ha prodotto un consistente numero di registrazioni audio-video che riportano voci e volti di protagonisti, sia partigiani impegnati nella lotta armata che semplici cittadini che hanno dato il loro, silenzioso ma importante, contribuito alla causa della libertà.
Oltre a questi cortometraggi, altra documentazione potrebbe pervenire da raccolte personali o familiari,  foto e testi che ulteriormente contribuirebbero a  definire un quadro di storia locale di assoluto valore testimoniale.

I frequenti contatti con il mondo della scuola, (pensiamo alla bella iniziativa svolta in collaborazione con il Comune e con le scuole medie di Mirano, tenuta in piazza Martiri il 12 dicembre 2012), ci hanno fatto riflettere sull’importanza di dar vita ad una realtà, riconoscibile e individuabile dalla cittadinanza, come “Luogo della memoria, della memoria Resistente di Mirano” con accesso regolamentato e attrezzato per la consultazione.
La questione ha trovato un’ ulteriore definizione, la sera del 18 gennaio, durante l’incontro dedicato al  ricordo dei partigiani uccisi all’alba del 17 gennaio 1945 al cimitero di Mirano, quando, sollecitati dai temi trattati dallo storico Davide Conti, molti tra i presenti sono intervenuti esprimendo in modo chiaro la loro preoccupazione per il manifestarsi di forme gravi di amnesia collettiva, specie tra le giovani generazioni.

In merito ci permettiamo di avanzare una  proposta che forse non tiene conto di eventuali, altre ipotesi di destinazione d’uso ma che, a nostro parere, ha il merito di aprire una discussione sulla questione da noi posta.

Negli spazi della Biblioteca Comunale, sin dagli anni ’90, è operante il “Centro di Documentazione Storica Ambientale” rivolto alla ricerca storica in campo urbanistico e degli assetti ambientali, più in generale.
Sarebbe forse utile, anche per favorire il rilancio di questa risorsa pubblica, usare parte delle attrezzature esistenti per aprire una sezione riguardante la storia locale in relazione ai cambiamenti indotti dalle mutate condizioni di vita e di lavoro, con particolare attenzione agli anni del ventennio fascista, della Lotta di Liberazione e della ricostruzione post bellica.

Si potrebbe valutare la costituzione di un comitato “tecnico-scientifico”, in grado di coordinare competenze diverse, coinvolgere rappresentanti della società civile e del mondo del lavoro, della scuola, allo scopo di favorire l’avvio di una fase nuova finalizzata al recupero di un  bene comune di valore, ampliandone le disponibilità, le competenze e il bacino d’utenza.

Non sappiamo se questa sia la proposta giusta, ma come sezione A.N.P.I di Mirano, Le confermiamo la nostra disponibilità a collaborare fattivamente all’iniziativa, sia sul piano organizzativo che della gestione, mettendo a disposizione l’archivio video e le competenze tecniche che già da diversi anni vengono usate per registrare, conservare e divulgare le testimonianze di coloro che si sono riconosciuti e continuano a riconoscersi nei valori della Resistenza e dell’Antifascismo a Mirano.

Certi, con la presente, di contribuire all’avvio di un utile dialogo e riflessione sul tema, cogliamo l’occasione per inviarLe, i più  cordiali saluti.

Mirano 22.01.2013                                                 Il Direttivo A.N.P.I di Mirano e del miranese