Emily e Clorinda

Emily e Clorinda, due giovani donne di generazioni diverse, ma vicine, accomunate da un segno di parentela, ma non solo, anche da un’identificazione di ideali e prospettive. Clorinda Menguzzato non aveva ancora vent’anni (li avrebbe compiuti di lì a poco), quando cadde a morte dopo tre giorni di sevizie e torture da parte dei tedeschi, lungo un tornante sulla strada che collega Castello a Pieve Tesino. Era l’ottobre del 1944.
Emily Menguzzato ha trent’anni ed è la nipote di Clorinda, vive a Trieste dove lavora in una cooperativa sociale e si occupa di minori e di educazione alla legalità e alla cittadinanza attiva. “Mio padre mi parlò di questa storia, per la prima volta, in una delle rare occasioni in cui da bambina mi portarono a Castello Tesino”. Emily ha un bel volto, lo sguardo solare, la tensione di chi è aperto alle possibilità. “Avevo circa 7 o 8 anni e, assieme ai miei due fratelli maggiori, entrammo nella casa dei bisnonni. Ci fermammo lungo il corridoio dove era appesa la foto di Clorinda. Papà ci spiegò che quella era la sorella del nonno, uccisa durante la guerra”.
“E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento”…
“Non somiglia un po’ a Emily?”, aveva concluso il babbo in quella circostanza.
“Ricordo – osserva adesso – che quella frase me la fece sentire più vicina”. E’ l’inizio di un percorso di avvicinamento alla storia della sua famiglia paterna, la prima di una serie di tappe che porta Emily alla conoscenza della zia, del perché andò in montagna e si unì ai partigiani, della sua morte quando era giovanissima, dell’incomprensione che è durata a lungo riguardo alle sue scelte coraggiose. E’ per Emily anche un passaggio dalla conoscenza all’empatia, un immedesimarsi amorevole nelle ragioni di quella sua zia che era più giovane di lei quando si trovò davanti a difficili strade da percorrere, a ostacoli da oltrepassare. Scopre che “Veglia” era stata torturata e violentata dai tedeschi durante gli interrogatori perché facesse i nomi degli altri partigiani, ma lei non parlò; che ciò le è valso di essere insignita – fra le pochissime donne della Resistenza – della Medaglia d’Oro al Valor militare. La storia di quella sua zia rimane però per la nipote solo “una storia”, nonostante senta forte il valore simbolico anche quando comincia a parlarne con i ragazzi con cui lavora.
Poi, circa un anno fa, qualcosa cambia nel senso di una ancora maggiore consapevolezza. “Ero in viaggio per un corso di formazione per operatori della giustizia minorile – racconta Emily -; si parlava di valori e democrazia ed erano presenti parenti di vittime di mafia. Di colpo la vita di Clorinda ha smesso di essere una storia ed è diventata una realtà”. Emily comincia così a pensare a lei in altri termini, sotto altre sembianze: non era più solo l’eroina di famiglia. “Era una ragazza giovanissima che mi sembrava di conoscere e che, per stare dalla parte più difficile e scomoda, aveva dato la vita sacrificando il suo futuro e la possibilità di essere moglie e madre”. Comincia a guardare a quella lontana vicenda molto più da vicino. “E’ stato come se il tempo si fosse annullato, come se Clorinda fosse stata uccisa in quel momento. Sapevo della sua morte, ma solo allora ho provato un forte dolore”.
Emily sente di esserle grata non solo per il suo contributo alla costruzione della nuova democrazia nata dalle fatiche e dai sacrifici della Resistenza, ma è conscia che senza il suo silenzio mantenuto sotto tortura probabilmente suo nonno Rodolfo (nome di battaglia “Menefrego) sarebbe stato catturato e ucciso, suo padre non sarebbe nato e nemmeno lei. “Sentivo che in qualche modo le dovevo anche la vita!”. E il pensiero di Emily va a suo nonno, che insieme alla sorella Clorinda fu parte attiva del battaglione Gherlenda, lassù tra gli aspri declivi di Costabrunella. A lui, premiato poi con una croce al merito di guerra. “A lui, che si tenne questo dolore per sé per tutta la vita”.
E’ così che in questa giovane donna trentenne nasce il bisogno fortissimo di mettersi sulle tracce di Clorinda, di conoscere la sua storia fino in fondo, di leggere tutto ciò che è stato scritto su di lei e di parlare con chi l’ha conosciuta. Vuole prendersi tutto il tempo necessario per conoscere e vivere con calma i luoghi e i posti che sono stati significativi per sua zia Clorinda, la casa, le strade, i vicoli, l’aria che si respira nel paese nelle ore più solitarie del giorno. Un posto in qualche modo magico, un luogo dove coltivare la memoria. “Fare in modo che la sua memoria sia preservata – ha pensato Emily – è il minimo che io possa fare”. E questo viene tradotto nel suo lavoro quotidiano. “Spesso, parlando con i ragazzi di giustizia e libertà si sente la necessità di fornire loro esempi positivi. Don Ciotti dice che la memoria deve trasformarsi in impegno per mantenere vivi gli insegnamenti che le vittime delle ingiustizie sociali ci hanno lasciato. Fare memoria non deve limitarsi a ‘celebrare’ ma deve tradursi in azioni concrete nel nostro quotidiano”. Solo così Clorinda, Ancilla – “Ora”, l’amica staffetta partigiana pure lei trucidata dai nazisti – e gli altri non sono morti invano. (da http://www.vitatrentina.it)

18 giugno 1944: Repubblica Partigiana di Montefiorino

Il territorio della Repubblica di Montefiorino

Il 18 giugno dell’estate del ’44, la prima «bozza» di repubblica italiana democratica e antifascista nacque tra le montagne dell’Appennino reggiano e modenese. La storia ci tramanda quell’esperienza come la Repubblica di Montefiorino, dal nome della sua «capitale». Un territorio di 600 chilometri quadrati, con 50mila abitanti e paesi importanti come Carpineti, Ligonchio, Toano, Villa Minozzo. Esperienza eroica, creata dai partigiani e sostenuta dalle popolazioni, contro cui si scatenò la furia tedesca e dei fascisti repubblichini di Salò. Montefiorino cadde, ma il seme della democrazia dopo ventidue anni di dittatura era ormai gettato.

Dopo la sconfitta tedesca a Cassino e la liberazione di Roma da parte degli alleati (4 giugno 1944), il Comitato di liberazione nazionale alta Italia (Clnai) lancia un appello per un’offensiva generale: l’indicazione è quella di creare in zone liberate vere forme di governo amministrativo. In questo appello si legge che bisogna «assumere la direzione della cosa pubblica, di assicurare in via provvisoria le prime urgenti misure di emergenza per quanto riguarda la prosecuzione della guerra di liberazione, l’ordine pubblico, la produzione, gli approvvigionamenti, i servizi pubblici e amministrativi».
La Repubblica di Montefiorino è stata la prima in Italia ad alzare la bandiera della democrazia dopo oltre vent’anni di regime fascista.
In quei 600 chilometri quadrati a cavallo dell’Appennino modenese e reggiano si respira un’aria diversa nell’estate del ’44. Qualche mese prima il movimento partigiano, già attivo nella pianura, ha cominciato ad estendersi verso la montagna. A formare i primi nuclei di combattenti sono giovani renitenti alla leva che trovano punti di riferimento in alcuni anziani antifascisti e in parroci.
I primi scontri fra opposte fazioni nascono per impedire il rastrellamento di renitenti e tra il febbraio e il marzo i partigiani compiono una serie di azioni importanti.
La risposta tedesca è spietata: il 18 marzo 1944 nazisti e militi fascisti della repubblica di Salò compiono nel Modenese la strage di Monchio, Susano e Costrignano durante la quale vengono trucidati 136 civili.
A pochi chilometri di distanza a Cervarolo, nel Reggiano, vengono uccise 24 persone.
Nei mesi successivi le forze partigiane, sempre più organizzate, sconfiggono tutti i presidi delle guardie nazionali repubblicane e il 18 giugno cade l’ultimo, quello più importante della zona: il presidio di Montefiorino. Nasce così la Repubblica Partigiana e pochi giorni dopo i capofamiglia scelgono i membri delle giunte amministrative attraverso una vera forma di partecipazione democratica.
Uno dei primi impegni delle giunte è quello di ristabilire un rapporto diverso e più equo con le categorie produttrici, i contadini innanzitutto, coinvolgendoli in una soddisfacente politica dei prezzi.
La Repubblica di Montefiorino viene attaccata già nelle settimane successive alla sua nascita, a causa della sua posizione strategica nelle immediate retrovie della linea Gotica, contro la quale si è spenta l’avanzata delle colonne angloamericane. Intanto a Montefiorino arrivano dalla pianura alcune migliaia di giovani partigiani.
L’offensiva tedesca vera e propria contro questo vero e proprio primo esperimento di vita pubblica democratica, ha inizio il 29 luglio lungo tre diretrici principali e con l’impiego di circa cinquemila soldati: da nord lungo il Secchia e la strada delle Radici; da ovest contro Carpineti e Villa Minozzo; da sud contro Sant’Anna Pelago, Ligonchio e Piandelagotti.
L’operazione può considerarsi conclusa il 6 agosto, ma il grosso grosso delle formazioni partigiane ha cominciato a sganciarsi il 31 luglio ripiegando nell’alta valle del Panaro. La Repubblica vive una sospensione a partire dal primo agosto.
Ma la Resistenza non è per nulla annientata com’era nell’intenzione dei tedeschi che si vendicano rabbiosamente prendendo a cannonate e bruciando alcuni paesi della Repubblica, come avviene a Villa Minozzo e Toano. A partire da ottobre le giunte popolari riprendono però a funzionare e nasce il comitato di liberazione nazionale della montagna. Il seme della libertà ha ripreso a germogliare.

Un protagonista di quei giorni: Torquato Bignami

Il museo della Repubblica Partigiana di Montefiorino

13-14 giugno 1944: 83 minatori uccisi a Niccioleta e a Castelnuovo Val di Cecina

“Il 14 giugno 1944 ottantatre minatori, fra i quali venticinque miei compaesani per lo più miei coetanei, furono condotti a Castelnuovo in Val di Cecina e fucilati. Ricordo ancora quando tornarono le bare al paese agghiacciato. Sento che devo essere degno di loro, che la mia cultura non mi deve staccare da loro, che anzi accresce le mie responsabilità di solidarietà con il mondo.” Padre Ernesto Balducci

Niccioleta nel 1944, era abitata da 150 famiglie di minatori che provenivano da Massa Marittima, Santa Fiora, Castell’Azzara, Abbadia San Salvatore, Selvena e che lavoravano in una miniera di pirite di ferro. La miniera era gestita dalla ditta Montecatini e aveva come responsabile il direttore Ubaldino Mori, coadiuvato dal vice direttore ing. Boekling, dal segretario dott. Lavato e dall’addetto alle ricerche geofisiche ing. Ferrari: essi erano ritenuti filotedeschi. Il direttore, infatti era un fervente fascista, che dopo il 25 luglio aveva cambiato l’atteggiamento e dall’8 settembre era in contatto col movimento partigiano. Tra gli operai di Niccioleta, vi erano sedici famiglie di fascisti, che non avevano rapporti con gli altri minatori e che sembravano inoffensivi, invece covavano un pensiero fisso, quello di vendicarsi. Vendicarsi, ma di che cosa?? Questi operai, si recavano spesso al comando tedesco, dicendo che il paese era quasi tutto antifascista e che la popolazione stava cercando di attuare un piano per ribellarsi all’oppressione tedesca. In realtà tutto ciò non accadeva, perchè le preoccupazioni della gente di Niccioleta erano quelle di tutelare esclusivamente il posto di lavoro e non avevano nessuna velleità nè nei confronti di chi era al comando, nè contro questi compaesani fascisti. Infatti, quando il paese il 25 luglio festeggiò la caduta del fascismo, nessuno torse loro un capello.
La prima avvisaglia, però di ciò che sarebbe accaduto, si ebbe il 5 giugno quando dei soldati tedeschi, si recarono alla direzione della miniera dicendo che alcuni operai si manifestavano antifascisti e che aiutavano i partigiani. I militari, allora, tirarono fuori una lista con alcuni nomi di persone sospette, che a loro avviso dovevano essere ìnterrogate. Solo tre operai appartenenti a quell’elenco, furono condotti dal comandante tedesco che disse loro di cambiare atteggiamento altrimenti sarebbero intervenuti con maniere forti. Dal 9 al 12 giugno, un gruppo di partigiani entrò in paese e disarmò la guardia repubblicana; perquisirono le case dei fascisti ma non compirono atti di violenza nei loro confronti. Fecero anche sventolare una bandiera bianca per non far bombardare Niccioleta dagli aerei alleati. I partigiani, dopo qualche giorno andarono via consigliando agli operai di stilare una lista di nomi per cominciare a fare dei turni di guardia alla miniera, temendo che i tedeschi ormai allo sbando sabotasscro gli impianti. Nella notte tra il 12 e il 13 giugno, dei reparti di SS. e fascisti, arrivarono silenziosamente ai piedi del paese. Le sentinelle della miniera, tra le quali c’era anche il figlio del direttore, si diedero alla fuga non potendo avvertire nessuno. I membri del comitato dei minatori, fecero appena in tempo a nascondere nel rifugio antiaereo alcuni fucili da caccia, assieme al famoso elenco con i nomi delle persone addette a fare la guardia. Fu forse questo l’errore che causò poi la tragedia.
I fascisti e i tedeschi, che intanto avevano fatto irruzione nel paese, fecero uscire gli uomini in strada e chiusero le donne e i bambini in casa sprangando porte e finestre. Dopo alcune ricerche, furono trovate le armi e con loro la lista; gli operai furono radunati in massa nella piazzetta e inziò così l’interrogatorio; nel frattempo alcuni miliziani controllavano nelle abitazioni sperando di trovare qualcosa di compromettente. Mentre il paese veniva rovistato in lungo e in largo, sei operai tra i quali Ettore Sargentoni con i figli Aldo e Alizzardo e Bruno Barabissi, tutti selvignani, vennero portati nella sala del dopolavoro e qui, tra una domanda e l’altra, furono picchiati selvaggiamente a causa delle risposte evasive che essi davano. Il Barabissi fu visto uscire barcollante e mentre veniva sospinto verso il muro di una casa, implorava pietà. In quel momento uno sparo di mitra gli sfiorò la testa; avevano così voluto intimorirlo. Fu riportato dentro alla sala, assieme agli altri e qui continuarono le percosse. Dopo un pò il Sargentoni con uno dei suoi figli e un altro operaio di nome Antimo Chigi furono trascinati fuori; vennero portati in un cortile dove con alcuni colpi di arma da fuoco vennero massacrati. Toccò poi al Barabissi e a Rinaldo Baffetti, che alla vista dei tre cadaveri cominciarono a gridare, finchè, colpiti dai proiettili caddero a terra in una pozza di sangue. L’ultimo fu Alizzardo, che quando vide quella scena, si gettò sopra il padre ed il fratello abbracciandoli teneramente, ma anche lui non fu risparmiato. Gli altri operai rimasti, prima di partire per Castelnuovo Val di Cecina, dove loro credevano che da lì sarebbero stati deportati in Germania, ebbero l’occasione di rivedere per l’ultima volta i familiari che portarono loro degli effetti personali. Un gruppo di uomini sopra i cinquant’anni fu liberato e rispedito a casa; gli altri, i settantasette rimasti, con un età che oscillava tra i venti e i quarant’anni, alle 21,30 si incamminarono verso Castelnuovo dove arrivarono all’1,OO. Furono portati dentro alla sala cinematografica e vennero sorvegliati a vista, In quel luogo le ore passavano lente, c’era chi non resse alla stanchezza e si addormentò, mentre la maggior parte di essi rimasero svegli aspettando con trepidazione la sorte che sarebbe loro toccata.
Il giorno dopo i minatori restarono dentro alla sala, senza che fosse data loro alcuna notizia, fino al tramonto quando furono portati verso la strada che va a Larderello. Dopo aver percorso un chilometro il corteo fu deviato in una stradina che scendeva verso i soffioni di Castelnuovo. Alle 19,30 arrivarono nel luogo dove sarebbe avvenuto l’eccidio, un posto tetro, vicino a quei soffioni ululanti, che coprivano qualsiasi tipo di rumore, anche le poche parole che quei “disgraziati” cercavano di scambiarsi. I tedeschi li divisero in tre gruppi, il primo dei quali fu fatto incamminare verso un sentiero che costeggiava un burrone e dopo una svolta a destra quegli uomini furono falciati dai colpi delle mitragliatrici ben posizionate e nascoste dalle fascine. Anche il secondo gruppo fece la stessa fine, mentre l’ultimo, composto dai più giovani, fu fatto passare dalla parte opposta della strada. I ragazzi quando videro i loro familiari e gli amici in fondo al burrone coperti di sangue, tentarono la fuga, ma non riuscirono che a fare pochi passi cadendo nel precipizio sopra gli altri. Un contadino che abitava lì vicino, vide tutta la scena e raccontò che alcuni fascisti scesero in fondo al dirupo e dopo aver rubato le misere cose che i minatori avevano addosso, per sicurezza gli spararono ancora un colpo di pistola alla testa. La popolazione di Castelnuovo avvertita dell’eccidio che si era compiuto accorse sul luogo, trovando una scena veramente macraba: 77 operai uccisi barbaramente. Gli stessi abitanti, riuscirono a portare con grande difficoltà quei corpi straziati e già in stato di avanzata decomposizione (dovuta al caldo e al calore dei soffioni), in un luogo vicino al paese e qui li seppellirono. In seguito, quando fu possibile, i corpi furono portati nei luoghi di provenienza, grazie anche allintervento della ditta Montecatini.
Per quell’eccidio solo pochissime persone hanno pagato, si parla di tre fascisti che scontarono una pena di trenta anni; troppo poco per 83 vittime innocenti.  (http://selvena.altervista.org)

Guerra di Liberazione e non guerra civile

Nino De Marchi “Rolando”, classe 1920, della Divisione Garibaldi “Nino Nannetti”, intervenuto alla manifestazione di Vidor del 2 giugno 2013, ha ribadito con forza queste parole:

“Non voglio fare discorsi, voglio semplicemente dirvi questo: quando sentite parlare di “guerra civile” rispondete che la nostra è una Guerra di Liberazione e basta!!!”

Quando si parla di guerra civile deve esistere il presupposto che entrambe le parti in conflitto si riconoscessero come parte dello stesso stato o della stessa nazione. Non c’è dubbio che una delle due parti in conflitto aveva deciso, tradendo il proprio paese, di riconoscersi in un altro stato e nelle ragioni di un’altra nazione. In una sentenza contro alcuni appartenenti della legione Tagliamento emessa dal tribunale militare di Milano  il 28 agosto 1952, i giudici spiegano in modo chiaro come poteva essere inquadrata la Rsi:

“Non essendo sorta la Rsi da una norma giuridica che la riconoscesse come leggittimo successore del governo italiano, e contemporaneamente non avendo i requisisti del governo di fatto insurrezionale, devesi concludere ch’essa consistette in un ente alle dipendenze dell’occupante germanico, il quale volta a volta riconosceva ad esso determinati poteri nei limiti dall’occupante consentiti, che comunque, secondo l’ordinamento internazionale, non potevano andare oltre i poteri dello stesso occupante…per questo la Rsi deve essere ritenuta come un’associazione o organismo senza veste giuridica, posto in essere da cittadini italiani onde combattere contro lo Stato italiano, onde alla stessa Rsi non può essere riconosciuta leggitimità alcuna, nè ai suoi atti, nè agli ordini delle autorità da esse costituite; tali ordini e tali atti, oltre a non avere rilevanza giuridica, hanno indubbi requisiti di antigiuridicità”

Chi parla di guerra civile vuole far intendere che, essendo i protagonisti delle due parti cittadini italiani e tutti in buona fede nel sostenere i propri ideali (senza spiegare con chiarezza quali erano gli “ideali” fascisti e non ammettendo che non erano per niente equiparabili a quelli antifascisti) bisognerebbe stabilire una memoria condivisa dalla quale i fascisti e i reduci di Salò dovrebbero trarre nuova leggitimazione; peccato che, proprio la storia repubblicana di questi 70 anni, dimostra come una delle parti non intende affatto riconoscersi nella Repubblica e nella Costituzione nata dalla Resistenza. Anche  in Francia c’è stata una Guerra di Liberazione e anche lì c’era un regime fantoccio (Vichy), ma nessuno in quel paese si sogna di etichettare come “guerra civile” la lotta combattuta contro dei francesi che avevano tradito la nazione e come traditori sono stati perseguiti con ben maggiore durezza che nel nostro paese. In Italia dal ’43 al ’45 c’è stata una Guerra di Liberazione e basta, come dice “Rolando” e bisogna ribadirlo sempre, in tutte le occasioni e in tutte le sedi, come fanno i nostri ultimi testimoni che hanno vissuto sulla loro pelle la lotta per liberare l’Italia dai nazisti e dai fascisti traditori.

Le foto dell’incontro di Vidor con i  partigiani della provincia di Treviso: http://imgur.com/a/lti3G

Felice Casson: sospendere l’acquisto degli F-35

“Sospendere immediatamente la partecipazione italiana al programma sugli F-35 e procedere, in prospettiva europea, ad una visione strategica della politica di difesa destinando le somme risparmiate ad investimenti pubblici riguardanti la tutela del territorio nazionale dal rischio idrogeologico, la tutela dei posti di lavoro, la sicurezza dei lavoratori”. È quanto chiede Felice Casson, vicepresidente della commissione Giustizia del Senato, con una mozione firmata da altri 17 senatori Pd.
“Non esiste a tutt’oggi alcun impegno all’acquisto di questi velivoli – spiega – e non c’è alcun contratto firmato e tantomeno alcuna penale. Peraltro i Governi francese e tedesco negli ultimi mesi hanno piu’ volte cercato di coinvolgere i piu’ importanti Paesi europei al fine di sviluppare insieme attivita’ industriali in questo settore considerando il fatto che nel settore aeronautico il consorzio Eurofighter è in grado di produrre un velivolo assolutamente competitivo”.
“Rivedere queste scelte – aggiunge Casson – appare quantomeno sensato e congruo rispetto all’attuale situazione economica e finanziaria del Paese e va inoltre rilevato che al momento si sono ritirati o hanno sospeso la loro partecipazione al programma i seguenti Paesi: Norvegia, Olanda, Australia, Turchia, Danimarca e Canada. La Gran Bretagna ha falcidiato le previsioni di spesa (ne doveva comprare circa 130, oggi ne conferma solo 20); persino gli Usa stanno valutando l’annullamento della versione B, a decollo corto e atterraggio verticale, che interessava la nostra Marina”. “La nuova normativa e le nuove procedure adottate – conclude Casson – consentono di ripensare qualunque programma e attribuiscono al Parlamento un ruolo decisivo, di cui il Parlamento stesso deve fare oculato e motivato uso, soprattutto in presenza di tagli ai vari settori della vita pubblica, che sono continui e pesanti, mentre i costi per il programma F-35, circa 12 miliardi, appaiono francamente esorbitanti e fuori luogo”.

Volantini (leghisti) e minacce contro il consigliere «marocchino» di Treviso

Said Chaibi con Umberto Lorenzoni "Eros" a Vidor (http://imgur.com/a/lti3G)

Un ragazzo di 22 anni figlio di genitori marocchini diventa il simbolo della battaglia elettorale trevigiana: Said Chaibi sarà il primo consigliere comunale di origini straniere eletto nella roccaforte leghista e il Carroccio l’ha preso di mira, distribuendo volantini che lo presentano come il «pericolo comunista» incombente sulla città. Ma adesso la questione diventa anche più seria: la scorsa notte il giovane ha raccontato di essere stato minacciato e inseguito da due automobili, che hanno tentato di farlo uscire di strada. «Questo è il terreno di confronto che vogliono per alzare il tiro in maniera spietata – dice Chaibi –  ma io sono trevigiano quanto loro e devono farsene una ragione. Lunedì decideranno gli elettori». Il 27 maggio Treviso ha scelto di mandare al ballottaggio i due candidati sindaco più votati al primo turno, Giovanni Manildo per il centrosinistra e Giancarlo Gentilini per Lega e Pdl. Chaibi, che era candidato con Sel nella coalizione per Manildo, ha preso 149 preferenze ed entrerà comunque in consiglio comunale, in maggioranza o all’opposizione.
Ed è stato anche questo a spingere Lega, Pdl e alleati a scuotere la moderata Treviso paventando il pericolo rosso. La campagna elettorale di Gentilini, per la prima volta in svantaggio, sta puntando tutto sulla dicotomia fra la conservazione e la continuità dei passati vent’anni di amministrazione leghista da una parte, e l’avvento «del comunismo» dall’altra, incarnato non tanto dall’avversario Manildo, che è un moderato, ma dalla sua squadra di centrosinistra. La Lega accusa gli avversari di voler portare a Treviso i centri sociali e favorire le occupazioni abusive, e sul finire della scorsa settimana ha iniziato a diffondere i nuovi volantini per il ballottaggio: recano un’immagine del presidente della Camera Laura Boldrini (espressione di Sel) e una vecchia foto di Chaibi, accanto alla quale viene riportato con toni molto critici un suo pensiero sulla necessità di integrare gli stranieri, riferito agli omicidi violenti compiuti a Milano dall’immigrato clandestino Kabobo. Nella notte fra domenica e lunedì Chaibi stava attaccando manifesti per Manildo insieme a due attivisti; quattro sconosciuti si sono avvicinati a loro minacciando di strappare i manifesti. Quando i ragazzi sono risaliti in macchina per allontanarsi, i quattro, su vetture di grossa cilindrata, li hanno inseguiti, rischiando di farli uscire di strada. Chaibi ha segnalato la vicenda alla Digos, che ora indaga. «Non sono stato eletto da immigrati ma da cittadini trevigiani. Sono nato in Italia e Treviso è la mia città, sono trevigianissimo, ho frequentato le scuole qui dall’asilo alle superiori. Questo odio è stato creato da una fazione che fa politica su questi temi mentre io ne preferisco altri, come cercare soluzioni al disagio dei cittadini che non guardano nomi o colori della pelle, ma idee e competenza. Mi sembra che ormai che non abbiano più motivazioni per opporsi al cambiamento ». Le due coalizioni sono pronte alla sfida. «Noi pensiamo a parlare dei problemi dei cittadini – riflette Roberto Grigoletto, il coordinatore della campagna di Manildo -, non prestiamo il fianco alle provocazioni». Il segretario cittadino della Lega, Enrico Chinellato, commenta: «Non abbiamo nulla di personale contro Said, ma siamo lontani dalle idee che lui rappresenta, quelle di Sel, troppo estremiste e radicali. Chissà dov’è andato ad appenderli, quei manifesti, dato che non ne vediamo in giro. Forse l’hanno fermato prima che potesse farlo». E il candidato Gentilini: «Non so niente di questa storia ma chi è causa del suo mal pianga se stesso. Il rispetto delle regole è alla base del vivere civile». Per Abdallah Khezraji, rappresentante delle comunità immigrate trevigiane e vicepresidente della consulta regionale per l’immigrazione, l’episodio denunciato da Chaibi è «un tentativo disperato della Lega di riguadagnare consensi irrimediabilmente persi. Said è un cittadino italiano che gode del diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero. E come consigliere ha ottenuto il doppio delle preferenze del sindaco uscente, Gian Paolo Gobbo».

Silvia Madiotto

Venerdì 7 giugno: “Il terrorista” di Gianfranco De Bosio in Villa Errera a Mirano

Venerdì 7 giugno 2013 alle ore 20.45 a Mirano nella Sala conferenze di Villa Errera ci sarà la proiezione del film “Il terrorista” di Gianfranco De Bosio. Realizzato nel 1963 e restaurato di recente dalla Cineteca di Bologna che lo ha  trasferito su supporto digitale. Presenterà il film Marco Borghi, direttore dell’Isever. Il film, ispirato a episodi della Resistenza a Venezia, costituisce un documento importante nel panorama della filmografia resistenziale italiana.
Quindi un’occasione importante per vedere un’opera rara di assoluto valore sia dal punto di vista linguistico che del contributo offerto al dibattito su  temi  riguardanti le scelte di lotta ma anche di costruzione dello Stato Democratico.

Premio speciale della critica a Venezia nel 1963 è una rarità cinematografica che racconta la storia del comandate Renato, nome di battaglia di Otello Pighin, assistente di Ingegneria al Bo e comandante della brigata partigiana «Silvio Trentin», che nel gennaio 1945 fu catturato ed ucciso a Padova dai fascisti della Banda Carità. Un ruolo interpretato in modo incisivo da un allora trentenne Gian Maria Volontè. Il regista De Bosio (classe 1924) militò nella brigata Trentin e scelse di dedicare al suo comandante questa pellicola ambientandola a Venezia. Nel cast compaiono anche Philippe Leroy, Tino Carraro, Giulio Bosetti, Raffaella Carrà, Anouk Aimèe e l’editore Neri Pozza.

“È un film sulla Resistenza, non su Al Qaeda”, spiega Gianfranco De Bosio intervenuto in una recente proiezione del film a Roma. “Sono stupefatto di vedere tutta questa gente, forse questi ragazzi si aspettano qualcos’ altro, non sanno che la guerra di liberazione l’ abbiamo combattuta tra il ’43 e il ’45”. E lui infatti glielo ricorda, ai giovani spettatori: non si sa mai. Si dice emozionato di rivedere il film, dopo 44 anni: “è commovente, forse più interessante ora di quando è stato fatto”. Racconta dei tempi, gli anni 70, gli anni di piombo, in cui la Rai lo bandiva dai suoi palinsesti “per colpa del titolo”. A una domanda su che effetto faccia rivedere un film che ha 44 anni e soprattutto riascoltare quei dialoghi tra azionisti, comunisti e moderati (le tre anime della Resistenza), De Bosio sottolinea un aspetto subito evidente a tutti in sala, cioè l’ attualità di quei discorsi: “Si facevano allora ma non sono molto cambiati, anzi forse oggi determinate situazioni nel mondo sono peggiorate. Allora c’erano gli attualisti (liberali e Democrazia Cristiana) e i comunisti che erano più pragmatici”. “Il film ha un valore di testimonianza e anche tutti i dialoghi devono essere ascoltati con il senno di poi. Noi girammo quel film vent’anni dopo quegli avvenimenti. Dopo la guerra non avrei mai potuto raccontare in questo modo quella pagina così drammatica della mia storia personale. È un film che mi commuove sempre perché quello era il mio comandante. Egli lavorava come ingegnere a Padova, non a Venezia come nel film, ma come si vede nel film utopisticamente voleva un attentato al giorno: la tendenza era quella che ‘Non dovevamo dare requie al nemico’. Era un uomo valoroso, un membro del partito d’azione”. De Bosio continua sottolineando: “Noi nel film abbiamo cercato di rappresentare la storia del CLN in tutte le sue sfacettature”. E poi la Chiesa: “C’erano tanti preti comunisti, partigiani attivi anche nelle montagne ma c’erano anche preti fascisti. Nel mio film c’è questo prete che aiuta ‘a modo suo’. A Padova c’era una grande comunità di gesuiti che partecipava alla Resistenza ma come ho raccontato nel film davano la loro disponibilità, ospitalità ma volevano fortissimamente restare un gruppo d’appoggio con nessuna responsabilità diretta”. Per quanto riguarda Gian Maria Volontè “entrò così profondamente nella psicologia del mio comandante, entrò nella sua pelle, a tratti mi sembra proprio di rivedere lui… Purtroppo il mio comandante venne davvero ucciso mentre stava raggiungendo i dirigenti nascosti in ospedale come nel film”. Alla fine c’è un dialogo tra G. M. Volontè e Anouk Aimeè (che interpreta la moglie di Renato) riguardo al timore per quello che succederà dopo: lui si domanda “Io so che tutto questo prima o dopo finirà… ma tra vent’anni ci saremo tutti fatti anestetizzare dalla pace e dall’abbondanza?”. “Perché il timore del dopo c’è sempre stato. Nel caso specifico sentivamo come il discorso della resistenza fosse già storia. Questa frase è un avvertimento molto attuale e costante. Guai a farsi prendere dal quieto vivere, lì nasce il fascismo. È dato proprio dall’acquiscenza”.

Per arrivare alla Sala Conferenze di Villa Errera: mappa

“Il terrorista” di De Bosio, un film nascosto di Luisa Anna Meldolesi

5 giugno 1944: Ugo Forno

Questa è una storia che sembra scritta dalla penna di Ferenc Molnar e che fa venire in mente le immagini dei piccoli sabotatori di “Roma città aperta”. Ma questa è una storia vera che ha come protagonista Ugo Forno, un ragazzo di 12 anni ammazzato dai nazisti in fuga a Roma il 5 giugno del 1944, il primo giorno della città liberata.

Quella mattina Ugo esce di casa per andare a vedere l’arrivo degli alleati: in tasca ha due pistole lanciarazzi tedesche trovate per strada. Vicino ai giardinetti di Piazza Vescovo sente delle persone discutere animatamente su dei guastatori tedeschi che stanno minando un ponte sulla via Salaria: Ugo si allontana, entra in una casa in rovina dove aveva visto delle armi abbandonate, uscendone con un fucile a tracolla e diverse munizioni. Insieme a lui si aggregano altri giovani sui diciotto – venti anni, tutti armati con fucili e pistole.

Tutti si dirigono verso il ponte sulla Salaria: incontrano un gruppo di contadini e Ugo dice loro. “I tedeschi stanno attaccando le mine al ponte sull’Aniene, lo vogliono demolire. Noi andiamo a salvarlo, ci devono passare gli americani. Avete delle armi? Venite con me”. Dice proprio così: “con me”, non “con noi”, parla da vero comandante.

I contadini si alzano, si armano anche loro e seguono il ragazzino che cammina in testa al gruppo: arrivano nei pressi del ponte di ferro sull’Aniene mentre i guastatori tedeschi stanno piazzando le mine sotto le arcate. Il gruppo comincia a sparare e i guastatori si mettono al riparo, capiscono di non avere più tempo per distruggere il ponte e si ritirano; hanno con loro un mortaio e, per coprirsi la fuga, iniziano a sparare sul gruppo dei partigiani. Il primo a morire è Francesco Guidi, poi vengono ferite altre due persone e le schegge del terzo proiettile colpiscono Ugo al petto e alla testa: il comandante bambino muore sul colpo, mentre i guastatori scappano via.

Sono gli ultimi tedeschi a scappare e Ugo Forno è l’ultimo romano che muore combattendo per cacciarli. Un gruppo di gappisti comandati da Giovanni Allegra giunge sul posto: è lui che si china sul ragazzo, gli chiude le palpebre sugli occhi sbarrati e avvolge il suo corpo in una bandiera tricolore ridotta a brandelli.

Quel ponte sull’Aniene c’è ancora. Presso l’ufficio riconoscimenti del ministro della Difesa c’è anche da cinquant’anni, in qualche polveroso e dimenticato fascicolo, la splendida motivazione (Al folle coraggio di questo ragazzino, alle raffiche ingenue del suo mitra contro i soldati nazisti, alla sua morte guardiamo come all’esempio di chi non volle far finta di non vederedella medaglia d’oro che il CLN romano propose per il più giovane partigiano (insieme al napoletano Gennarino Capuozzo) della nostra lotta di liberazione nazionale. Un riconoscimento che, chissà per quali oscuri motivi resta per tanti anni a livello di proposta. Nessuno se n’è occupato, nessuno se ne ricorda.

Bisognerà aspettare il 16 gennaio 2013 quando il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano conferisce a Ugo Forno (27 aprile 1932 – 5 giugno 1944) la Medaglia d’Oro al Merito Civile.

Il ponte sull'Aniene nel giorno dell'intitolazione a Ugo Forno

Festa della Repubblica: Lettera al Presidente Napolitano, no alla parata militare

Egregio Presidente,
nell’avvicinarsi della celebrazione della Festa della Repubblica, il prossimo 2 giugno ci permettiamo di scriverle ancora una volta per sollecitare e valorizzare un’altra forma di celebrazione, che non associ simbolicamente la nostra Repubblica alla sola forza militare.
Noi crediamo che celebrare la Festa della Repubblica sia anche e soprattutto il valorizzare le tante storie di chi ogni giorno si impegna per il bene del nostro paese, lavorando per la coesione sociale, costruendo storie di pace, di giustizia, di solidarietà.
Una scelta che esprime la volontà e le energie che il nostro Paese è in grado di mettere in campo e che prende le mosse dalla nostra Carta Costituzionale, scritta subito dopo il flagello del secondo conflitto mondiale e proprio per questo tesa al ripudio della guerra stessa. La stessa Costituzione ci indica come fondamento della nostra Repubblica sia la forza del lavoro, e non delle armi. Un lavoro che in questa fase di crisi manca a molti nostri concittadini e concittadine e che quindi è ancora più da valorizzare e celebrare. Perché sul lavoro si fonda il nostro vivere comune.
Noi desideriamo che si riportino al centro i valori fondanti della nostra Repubblica, rappresentati da quelle categorie sociali (vere e proprie forze vive dell’Italia) che hanno davvero il pieno diritto di essere celebrate in occasione del 2 giugno: le forze del lavoro, i sindacati, i gruppi delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri, le ragazze e i ragazzi del servizio civile.
In particolare questi ultimi sono ai nostri occhi elementi importanti da celebrare, come simbolo di chi quotidianamente permette al nostro Paese di andare avanti favorendo la coesione sociale e il supporto a quei diritti e servizi senza i quali non si può parlare di vera cittadinanza. Senza dimenticare – poi – che il Servizio Civile oggi è l’unico parziale elemento che riesce a concretizzare quella difesa “non armata” della Patria (prevista del nostro ordinamento) che costituisce una strada innovativa e a noi cara di assolvere al dovere previsto dalla nostra Costituzione all’articolo 52 (Lo ha ribadito in più occasioni anche la Corte Costituzionale).
E quindi tutte le realtà del mondo del Servizio Civile, come negli anni passati, vogliono partecipare a questi festeggiamenti, ricordando il valore della Pace, l’impegno per la giustizia, la ricerca del dialogo, la pratica della nonviolenza soprattutto in questo momento di crisi dove le povertà, le disuguaglianze e le ingiustizie sembrano frantumare ed aumentare la disgregazione sociale sia nel nostro paese che nel resto del mondo.
A 40 anni dalla legge 772 è importante non disperdere – soprattutto nell’attuale momento storico – il patrimonio dell’obiezione di coscienza e della nonviolenza riproponendolo in forme rinnovate e ribadire il valore dell’esperienza di servizio civile nazionale come pratica di costruzione della pace, di rispetto della dignità umana, di riconciliazione pacifica, di ricucitura del tessuto sociale ed umano, pratica di cittadinanza.
Vogliamo festeggiare la festa della Repubblica per riaffermare che solo attraverso l’impegno di tanti si può costruire un paese coeso e solidale, dove la pace è declinata nei tanti piccoli gesti di responsabilità, disponibilità, di dialogo, di ricerca delle ragioni dello stare insieme.
Per tutte queste motivazioni a Lei Presidente della Repubblica chiediamo, viste anche le attuali necessità di sobrietà, di festeggiare la nostra Repubblica senza spendere un euro, valorizzando l’impegno quotidiano di giovani ed enti che al di là della retorica e delle manifestazioni pubbliche sanno calarsi dentro le ferite dei nostri territori e delle nostre comunità e costruire storie di speranza, libertà e democrazia.
Da parte nostra ci impegniamo a rendere vivo il 2 giugno su tutti i territori in cui le nostre realtà sono presenti, per celebrare nelle nostre sedi e con le nostre attività l’Italia che “ripudia la guerra”: apriremo le nostre porte nello spirito dell’articolo 11 della nostra Costituzione. Un passaggio importante anche per cambiare i simboli (che sono rilevanti per il vivere comune) legati a questa che non è la Festa delle Forze Armate ma di tutta la Repubblica.
E cercheremo inoltre di valorizzare le storie di tanti giovani che hanno scelto di mettersi al servizio del bene comune, dei nostri territori e delle nostre comunità. Giovani che dal sud al nord del nostro paese, in ambiti diversi d’intervento, testimoniano con vivacità ed entusiasmo una voglia di mettersi in gioco e di rendersi protagonisti che riteniamo preziosa per il presente e il futuro di questa nostra Patria.
Il 2 giugno dunque – e sarebbe importante un Suo Patrocinio a riguardo – le nostre organizzazioni terranno aperte le proprie sedi in tutta Italia per incontrare i cittadini mentre i giovani in servizio civile nazionale si recheranno nei Comuni colpiti dal terremoto emiliano del Maggio 2012. Un modo aperto per testimoniare il contributo concreto che il Servizio Civile nazionale porta alla coesione sociale e alla difesa del Paese.
Infine, diversi di noi si ritroveranno in quella giornata a Roma per festeggiare la Repubblica con le categorie già prima ricordate: le forze del lavoro, i sindacati, i gruppi delle arti e dei mestieri, gli studenti, gli educatori, gli immigrati, i bambini con le madri e i padri…
Ci piacerebbe poterLa incontrare, per condividere anzitutto con Lei questo grande abbraccio all’Italia che tutti vogliamo dare.
Rete Italiana per il Disarmo – Controllarmi Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile – CNESC Forum Nazionale per il Servizio Civile – FNSC Tavolo Interventi Civili di Pace – ICP Campagna Sbilanciamoci e altre 100 associazioni di volontariato

 

Addio Franca

Al mio funerale ci saranno le donne, tantissime donne, perchè io ho dato loro voce. E mi raccomando: non tristi, ma tutte vestite di rosso che cantano Bella Ciao (Franca Rame a Dario Fo)

Non intendo abbandonare la politica, voglio tornare a farla per dire ciò che penso, senza ingessature e vincoli, senza dovermi preoccupare di maggioranze, governo e alchimie di potere in cui non mi riconosco.
Non ho mai pensato al mio contributo come fondamentale, pure ritengo che stare in Parlamento debba corrispondere non solo a un onore e a un privilegio ma soprattutto a un dovere di servizio, in base al quale ha senso esserci, se si contribuisce davvero a legiferare, a incidere e trasformare in meglio la realtà. Ciò, nel mio caso, non è successo, e non per mia volontà, né credo per mia insufficienza.
E’ stato un grande onore, per il rispetto che porto alle Istituzioni fondanti della nostra Repubblica, l’elezione a Senatrice, fatto per il quale ringrazio prima di tutto le donne e gli uomini che mi hanno votata, ma, proprio per non deludere le loro aspettative e tradire il mandato ricevuto, vorrei tornare a dire ciò che penso, essere irriverente col potere come lo sono sempre stata, senza dovermi mordere in continuazione la lingua, come mi è capitato troppo spesso in Senato.(Franca Rame, lettera di dimissioni dal Senato)

http://youtu.be/zzh7FmmNDAM
Luglio 2001 al G8 DI GENOVA Don Gallo e Franca Rame passeggiano a braccetto allo STADIO CARLINI lo stadio della DISSOBBEDIENZA CIVILE, dove erano le tute bianche e i centri sociali