Beppe Fenoglio

Dante Isella: “…rispetto alla letteratura cosiddetta resistenziale, il romanzo di Fenoglio è come il Moby Dick nella letteratura marinara. La sua dimensione epica dilata lo spazio e il tempo dell’azione oltre le loro misure reali”

Italo Calvino (a proposito di “Una questione privata”): “…è costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso, e nello stesso tempo c’è la resistenza proprio com’era di dentro e di fuori, vera come era stata scritta, serbata per tanti anni nella memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione e la furia. Ed è un libro di paesaggi, ed è un libro di figure rapide e tutte vive, ed è un libro di parole precise e vere. Ed è un libro assurdo, misterioso, in ciò che si insegue, si insegue per inseguire altro e quest’altro per inseguire altro ancora e non si arriva al vero perchè…”

Beppe Fenoglio a Italo Calvino che gli chiedeva qualche dato da includere nella presentazione del suo primo libro “I ventitrè giorni della città di Alba”: “Circa i dati biografici, è dettaglio che posso sbrigare in un baleno. Sono nato ad Alba il 1° marzo 1922, studente al ginnasio liceo, poi all’Università, ma naturalmente non mi sono laureato. Soldato del Regio e poi partigiano. Oggi uno dei procuratori di una nota ditta enologica. Credo che sia tutto qui. Ti basta, no? Mi chiedi una fotografia. Ora, sono sette anni circa che non mi faccio fotografare…”.

Beppe Fenoglio se n’è andato 50 anni fa e il silenzio “rumoroso” sulla ricorrenza della morte di uno dei più grandi scrittori italiani fa pensare…è stato il più grande cantore della guerra di liberazione contro i nazifascisti, anche se non è stato solo questo. C’ è uno scritto di Gina Lagorio, rivolto ai ragazzi delle scuole medie, che parla di lui e ci fa capire la sua grandezza. Questo è il brano:

“Beppe Fenoglio era nato ad Alba, il 1° marzo del 1922. Nella cittadina Beppe passò l’intera vita, allontanandosene solo durante la parentesi del servizio militare e della guerra. Compì pochi viaggi e sempre per ragioni di lavoro: l’attacamento ad Alba fu, insieme alla tenacia degli affetti e dell’amicizia, un suo carattere distintivo e in lui durò tutta la vita. Nel liceo di Alba, Fenoglio ebbe la fortuna di avere maestri d’eccezione: c’era il fascismo, la libertà di pensiero e d’opinione era soffocata, la propaganda ufficiale, attraverso la radio, nei giornali, nella scuola, coltivava i miti della potenza militare e della supremazia di una razza sulle altre. Fenoglio rifiutò istintivamente la retorica che vedeva manifestarsi nelle parate fasciste ed ebbe, in questo rifiuto, il sostegno del suo professore di lettere Leonardo Cocito e del filosofo Pietro Chiodi, entrambi antifascisti e più tardi partigiani combattenti: il primo pagò con la morte per impiccagione da parte dei tedeschi la sua fede politica. Iscrittosi alla facoltà di lettere a Torino, e scoppiata la guerra, dovette interrompere gli studi per partecipare a un corso allievi ufficiali: trasferito a Roma, fu colto là dalla caduta del fascismo e dall’armistizio. Come per tanti altri giovani, l’8 settembre del’43 segnò per Fenoglio la lunga fuga verso casa e poi la ribellione armata sulle colline, dove militò nelle formazioni autonome di Mauri, cioè non legate ad alcun partito politico. A Liberazione avvenuta, rientrato in Alba, si impiegò in una ditta vinicola dove rimase fino alla morte, avvenuta per cancro ai bronchi il 18 febbraio 1963. Oltre le opere pubblicate da vivo (dopo “I ventitrè giorni della città di Alba” apparve nel ’54 “La malora” e nel ’59 “Primavera di bellezza”) altre ne sono apparse postume, tratte da una mole di scritti suoi: molte pagine sono vergate sul retro dei fogli commerciali della ditta, perchè Fenoglio era scrittore tenacissimo, paziente creatore del suo stile, tanto sdegnoso di ogni chiasso intorno al suo nome, di ogni pubblicità, quanto persuaso della propria vocazione. La fama l’ha raggiunto tardi, con le opere postume: “Una questione privata” è stato giudicato il racconto “più bello della Resistenza” e “Il partigiano Johnny” ha costituito l’avvenimento letterario più importante di questi ultimi anni, suscitando un acceso interesse per lo scrittore di Alba, indicato come “il più interessante tra i nostri narratori rivelatisi nel dopoguerra”. In un inedito, “L’affare dell’anima”, c’è un inciso illuminante: “Molti, specie i vecchi, sulle Langhe chiamavano semplicemente ‘allora’ i tempi dei partigiani”. Anche per Fenoglio quei tempi furono ‘allora’: egli ebbe chiara coscienza che la Resistenza era stato il momento centrale della sua vita, come per Dante era stato il periodo dell’esilio. La Resistenza fu la sua Iliade e la sua Odissea: una lotta accettata per tornare a vivere da uomo nella terra che amava. Se c’è uno scrittore che può aiutarvi a capire quella che è stata la storia dei vostri padri, e il significato più vero della Resistenza, questo è proprio Fenoglio, che la visse fino all’ultimo e ne ripensò poi sempre gli eventi e gli uomini, facendoli rinascere nelle sue pagine. Senza retorica, senza dividere l’umanità in buoni e cattivi, senza indulgere a nessuna esaltazione: i suoi guerrieri sono ragazzi poco più vecchi di voi, imprevidenti spesso, vanitosi e litigiosi: talvolta giocano con le armi, ma le hanno scelte volontariamente, preferendo rischiare la pelle piuttosto che vendersi l’anima. Quei ragazzi seppero resistere al nemico soverchiante e al freddo, alla fame, ai disagi; molti non tornarono; oggi li si ricorda il 25 aprile: una celebrazione ufficiale a cui voi, forse, guardate con un poco di indifferenza. Ma la Resistenza non è una “leggenda” e non è storia passata: è una scelta morale, che condiziona l’intera esistenza; è presente in tutta la nostra storia e in quella di ogni popolo che si conquista la sua libertà e la sua giustizia: sempre la muove l’amore della terra in cui si è nati e che si difende per viverci da uomini. Per questo le pagine di Fenoglio sono cariche di vita, tutta, col suo peso di male e di bene, di violenza e di pietà; quei suoi guerrieri respirano ancora, negli eroismi e nelle debolezze, come respirano tutti gli uomini che nel mondo difendono il loro diritto a un’esistenza civile“.

Giuseppe Cederna legge il brano “L’amore si fa ripensare” da “Appunti partigiani”:

https://www.youtube.com/watch?v=-w4Qk-bZVmw

Giovanni Lindo Ferretti (CSI) legge “Il gorgo”:

http://www.youtube.com/watch?v=MJ96STkGaCs

Quelli che non si sono dimenticati di Beppe: http://www.wumingfoundation.com/giap/?p=11921

I personaggi (veri) de “Il Partigiano Johnny”: http://www.parcoletterario.it/it/autori/fenoglio_personaggi.htm

Mel, 23 febbraio 2013: inaugurazione della mostra “Quando morì mio padre”

Sabato 23 febbraio alle ore 18, presso il Palazzo delle Contesse a Mel (BL), ci sarà l’inaugurazione della mostra: “Quando morì mio padre. Disegni e testimonianze di bambini dai campi di concentramento del confine orientale (1942-1943)”, preparata dall’Istituto Gasparini di Gorizia e organizzata dalla sezione Anpi “La Spasema”. La mostra illustra i crimini fascisti italiani contro la comunità slovena e croata al confine orientale italiano. Nello specifico indaga l’odissea dei bambini sloveni deportati nei campi di Gonars, Visco, Arbe-Rab e Monigo (Treviso) tra il 1942 ed il 1943, attraverso le testimonianze di bambini internati nel campo, raccolte tra il 1944 e il 1945. Si articola in 26 grandi pannelli in italiano e in serbo.
La mostra è nata così: Metka Gombac, nel suo lavoro all’Archivio di stato sloveno, dirige il reparto dedicato alla resistenza. E’ uno degli archivi più ricchi di documentazione su questo fenomeno in Europa. Proprio collaborando con le colleghe di Venezia (scrivevano un articolo sulle donne e sui bambini nella seconda guerra mondiale) si è riusciti a rintracciare una cinquantina di disegni e scritti datati nel 1944 e scritti da bambini sopravvissuti ai campi di concentramento che, tornati a casa, dovevano frequentare i corsi delle scuole riaperte dai partigiani. Il ‘direttore’ didattico, informato dalle maestre “che i bambini rimpatriati rivivevano i drammi trascorsi essendo molto irrequieti e depressi e che bisognava fare qualcosa per rimuovere i patimenti patiti”, impartì alle maestre il consiglio di fare una specie di gara dove dovevano riscrivere e disegnare quello che avevano provato nei “campi”, affinchè “dessero fuori il loro patimento”. È chiaro che si pensava a sanare il PTS (Post traumatic sindrom) e oggi i colleghi psicologi direbbero proprio così, ma allora si pensò solo di alleviare loro il peso del ricordo.
Alla prima mostra organizzata a Ljubljana sono stati invitati all’inaugurazione quasi tutti i bambini sopravvissuti. Allora avevano l’età dai sette ai dieci anni e oggi ne contano settanta in più. Gli organizzatori sono riusciti a creare un ambiente incredibile. I bambini di allora rivedevano i propri compiti dopo decine di anni e rivivevano l’ambiente e la situazione di allora. I sopravvissuti hanno rivisto per la prima volta i propri compiti di scuola di 70 anni prima . Non potevano credere che la storia si fosse ricordata di loro, dei loro patimenti e della loro gioventù provata dall’esperienza del lager.
I testi ed i disegni sono conservati nell’Archivio di Stato della Repubblica di Slovenia e nel Museo di Storia Contemporanea di Lubiana e costituiscono oggi una delle testimonianze più preziose e drammatiche di una delle pagine più buie della nostra storia.

Le foto dell’inaugurazione della mostra

A Verona aggressione fascista all’università

Il 12 febbraio doveva tenersi all’Università di Verona un incontro con la storica Alessandra Kersevan, organizzato dai collettivi studenteschi “Studiare Con Lentezza” e “Pagina/13”, sul tema “Foibe: tra mito e realtà”. Questo il resoconto di quello che è successo dal sito http://beforetheyfall.blogspot.it:

 Squadrismo fascista. Non ci sono altri concetti per definire quello che è successo oggi, 12 febbraio 2013, all’università di Verona in presenza di un incontro sulla questione delle “foibe” con la storica Alessandra Kersevan.  Il resoconto sarà un po’ lungo, ma capite che è necessario chiarire tutto.
Partiamo dall’inizio, ma se non avete voglia della suspance andate alla fine.

1. L’università del potere
I collettivi studenteschi Pagina 13 (che è riconosciuto dall’università e quindi riceve fondi di rimborso per organizzare eventi) e Studiare con Lentezza organizzano un incontro con Alessandra Kersevan dal titolo “Foibe : tra mito e realtà”. Un incontro che viene organizzato in università con la procedura di un iter amministrativo per la concessione di un aula che, dopo aver avuto la firma di due professori che approvano l’iniziativa, viene concessa. La notizia dell’incontro subito non desta scandalo. D’altronde, non ci sono ragioni per che lo causi visto che un incontro sulle foibe è stato presentato all’Istituto veronese di storia della resistenza e dell’età contemporanea con Costantino Di Sante, a cui hanno presenziato anche esuli e in cui non ci sono stati particolari disordini. Tuttavia il giorno 11 compaio sull’evento facebook dell’evento le prime polemiche, un commento le apre. Critiche che criticano il fatto che ci siano una storica “revisionista” o, peggio ancora, “negazionista”. Critiche riprese da un comunicato ufficiale di CasaPound Verona . Nei commenti si trovano risposte provocatorie ma anche risposte puntuali che fanno notare che si tratta di  ricerca storica  e quindi di una discussione che è aperta a dibattiti e dubbi e, se si è contrari alle tesi e interpretazioni, aperta a riceve revisioni, sulla base di fonti.
A questo punto, ricevute critiche e quant’altro il magnifico rettore Alessandro Mazzucco invia una mail al professore direttore del dipartimento tesis, che era responsabile per la concessione dell’aula, per invitarlo ad annullare il tutto:

Caro professore Romagnani,
ricevo una serie crescente di messaggi sempre più allarmati per la scelta di dar vita ad un seminario sulle Foibe, delle quali il Presidente della Repubblica ha celebrato proprio in questi giorni il doloroso ricordo. Per quanto le intenzioni possano essere animate da una volontà di perseguire una verità storica, che non sarà facile riconoscere, l’impressione estremamente forte è che non si giustifichi la coincidenza di questa conferenza con il tempo della commemorazione, che tocca da vicino tanti nostri concittadini e le loro memorie.
Di conseguenza, insisto per una azione di doveroso rispetto per queste non poche persone, alcune delle quali operano anche all’interno di questo Ateneo. C’ è un tempo per la pietà e un tempo per la scienza. Non mancheranno le occasioni per affrontare questo comunque doloroso pezzo di storia recente con una molteplicità di testimonianze.
Adesso sarebbe veramente inaccettabile.
Rinnovo pertanto la richiesta di soprassedere a questa iniziativa, dalla quale debbo dissociarmi in piena convinzione, che non potrebbe trovare giustificazione e farebbe ricadere sull’intero Ateneo un’ ombra non cercata e non meritata.
Alessandro Mazzucco.

La risposta del professore è ovviamente negativa, invitando il rettore, se proprio volesse, ad annullarlo lui personalmente. Detto fatto:

Caro Romagnani, cari studenti,
come avevo anticipato nel pomeriggio, la programmazione dell’evento in oggetto ha suscitato, non solo in Verona,  una serie crescente di reazioni  e di tensioni che sollevano forti preoccupazioni sulla sicurezza che potrebbe essere  garantita.
Pertanto, sono costretto a ordinare la sospensione dell’incontro.

C’è un problema però. Oltre ad aver avvisato alle 18.35 della sera precedente ad un incontro organizzato da un mese, in cui una storica di professione aveva preso un impegno eliminandone chissà quanti altri, quella mail ( e quindi non un atto d’ufficio) viene inviata, oltre che al prof. Romagnani, alla mail privata di un cittadino (nemmeno studente).
Ma tralasciando questo aspetto, vogliamo chiarire cosa dice?

C’È UN TEMPO PER LA PIETÀ E UNO PER LA SCIENZA.
Ci rendiamo conto? Questo è esattamente quello che Silvio Lanaro, riprendendo Marc Ferro, definisce tabù (Silvio Lanaro, raccontare la storia, marsillio, 2004) e cioè ciò di cui non si vuol parlare:

nella rinuncia – spontanea, quasi inavvertita – a discorrere di ciò che in un particolare momento non appare in sintonia con la coscienza collettiva, con l’autoimmagine di un sistema politico-sociale, di una confessione religiosa, di una tradizione istituzionalizzata, o anche semplicemente con un interesse ideologico predominante, o con il desiderio di oblio e di soppressione di una memoria dolorosa

Quando sarà mai il tempo per la scienza? Settanta anni non sono bastati? E come mai discorsi simili non si fanno per altri eventi? Come mai nell’incontro all’istituto veronese di storia della resistenza e dell’età contemporanea, a cui hanno partecipato esuli, non si è voluto fare casino? Si ha paura di trattare SCIENTIFICAMENTE di Storia, perchè lo studio della Storia ha anche “funzone militante, ma non al servizio dello Stato, del partito e della Chiesa cattolica, bensì al servizio di una società che si sviluppa indipendentemente dai poteri che la opprimono” (Marc Ferro)
Oltretutto Mazzucco aggiunge che “farebbe ricadere sull’intero Ateneo un’ ombra non cercata e non meritata.” Vedremo tra poco che ombra è invece ricaduta sull’università.
Ma, andando oltre, dopo aver chiesto l’annullamento per motivi antiscientifici e quindi contrari al senso stesso dell’università che è luogo di ricerca, manda una mail (e ripeto, quindi non un atto d’ufficio anche se alcuni professori pretendevano fosse tale) giustificando la sospensione per “motivi di sicurezza”. Ci rendiamo conto a che livelli di ipocrisia siamo?

2. Il giornalismo del potere
Se ciò non bastasse si aggiunge il giornalismo. L’Arena e il Corriere di Verona pubblicano articoli che definirli faziosi è poco. Kersevan “revisionista”, abusando del concetto e facendo una inversione di valori delle più pericolose.  Sinceramente non credo che sia utile soffermarcisi troppo. Vi lascio i link agli articoli e divertitevi voi.

3. Lo squadrismo fascista e l’avallo istituzionale
Oggi, alla fine, è stato deciso di fare nonostante tutto l’incontro. Nessuno degli organizzatori ha ricevuto un documento, un atto d’ufficio, sull’annullamento della concessione dell’aula. Tuttavia, c’era aria di preoccupazione perché in università stavano girando diversi volti noti dell’estrema destra già dalla mattina. Girava anche voce che si stessero preparando nascondendo cose nei calzini, chissà, abbiamo pensato, bisognerà aspettarsi di tutto.
Nel primo pomeriggio, dopo aver sentito i professori che avevano concesso l’aula (e che appoggiavnao la nostra iniziativa perchè si tratta di ricerca storica e non di slogan politici, di uso delle fonti e non di propaganda) viene deciso di fare l’incontro.. La professoressa Kersevan arriva, con la figlia, circa alle 15.45 giusto il tempo che un signore, che pare essere il Responsabile Amministrativo dell’università, arrivasse, insistendo per mezzora, portando le veci del rettore, affermando che la conferenza non veniva concessa e che quindi non si doveva fare. Non si capisce tra l’altro come il rettore possa annullare la conferenza. Il suo potere era di non concedere aule e, infatti lo ha fatto. Sono state prontamente chiuse tutte le aule possibili.
Tuttavia, dopo mezzora di discussione con la professoressa Kersevan che aspettava, oltretutto giustamente offesa da quello scritto dai giornali nonchè dalle dichiarazioni del rettore, si è entrati in un aula, la T.4, appena è stata liberata da chi stava facendo esami.  La prima reazione del responsabile amministrativo è stata quella di far staccare la corrente dell’aula. La Kersevan aveva preparato un incontro con immagini ma, elettricità o meno, aveva iniziato a parlare. Nel frattempo alcuni avevano allungato una prolunga fino a prese esterne. La risposta è stata immediata: la corrente è stata tolta a tutto il piano, anche all’ufficio per il servizio disabili.
Tra l’altro nel frattempo e anche precedentemente, CasaPound aveva allestito una mostra con foto nel chiostro dell’università e distribuiva volantini in cui parlava di 200.000 morti e 350.000 esuli, naturalmente il responsabile amministrativo preferiva discutere con noi, piuttosto che con loro.
L’incontro è andato avanti per circa 45 minuti. Ad un certo punto però, il finimondo. Dall’interno dell’aula si è sentito un ammasso di persone correre sbraitando e urlando frasi come “Merde”, “Tito boia”(naturalmente muniti di caschi, non si sa mai che in università piova! e, naturalmente, credendo che si stesse facendo apologia di Tito. Evidentemente per loro è difficile non ragionare per compartimenti stagni). I primi esterni al corridoio, che stavano controllando l’area per evitare disordini, sono immediatamente corsi dentro e hanno chiuso le porte, bloccandole con le sedie. Nel frattempo, la cinquantina e più di persone che ascoltava, usciva dalle porte che davano sul prato interno. Ovviamente i “fascisti del terzomillennio” hanno fatto il giro e sono arrivati nel prato. Al che tutti sono entrati e, una volta aperte le porte che erano state blindate e quindi usciti nel corridoio, ci siamo trovati una bella “sorpresa” di qualche furbacchione (chissè chi eh!!)che aveva gettato qualcosa tipo spray al peperoncino o  qualcosa di simile. E infatti gola che brucia, occhi che lacrimano e qualcuno con conati di vomito.  Mentre le squadracce nere erano fuori nel parco interno con uno striscione “VERITÀ”. Lascio a voi ogni commento.
Si è poi lentamente usciti con la gente molto scossa (figuratevi poi la Kersevan!!) oltre che int tensione pe ril pericolo di trovarsi altre sorprese. All’esterno c’erano 5-6 macchine della polizia e due camionette di carabinieri e polizia oltre che i militari. Ovviamente prima non sono intervenuti perchè per entrare in università serve la chiamata del rettore che, casualità oggi non c’era.

QUESTA È LA DEMOCRAZIA CHE I FASCISTI DEL TERZO MILLENNIO SONO SOLITI USARE. QUESTA È LA VIOLENZA CHE LE ISTITUZIONI ACCETTANO E CONTRIBUISCONO A CREARE NELLA FERMENTAZIONE DI UN CLIMA DI ODIO E RIPUDIO DELLA RICERCA STORICA. SARÀ CONTENTO ORA MAZZUCCO DELL’OMBRA CHE È RICADUTA SULL’UNIVERSITÀ?

Il commento di Alessandra Kersevan sulla vicenda

Il comunicato del collettivo “Studiare Con Lentezza”

Il sito www.diecifebbraio.info con altri documenti sull’aggressione

La testimonianza di un partecipante all’incontro

Lettera dell’Associazione ex Deportati nei Campi nazisti

La giornata del ricordo

Soldati del Regio Esercito Italiano fucilano 5 contadini di Dane (Slovenia)

Franc Znidarsic, Janez Kranjc, Franc Skerbec, Feliks Znidarsic e Edvard Skerbec: sono questi i nomi dei 5 abitanti di Dane in Slovenia fucilati dai soldati italiani il 31 luglio del 1942. Questa è una foto che trovate spesso nelle celebrazioni della giornata del ricordo e viene sempre usata in maniera sbagliata sia da fascisti e post-fascisti ma anche da istituzioni pubbliche, da comuni, province, video, siti internet e, da buon ultimo, anche da Bruno Vespa nella puntata dello scorso anno di “Porta a porta”: gli italiani nella foto sono quelli in divisa e il far passare per martiri delle foibe 5 sloveni fucilati la dice lunga sulle mistificazioni e falsità che continuano ad essere dette e scritte dai più svariati personaggi che non hanno evidentemente mai fatto una ricerca storica precisa e basata sui documenti (sono tanti ed esistono) degli archivi di stato.
Un altro caso emblematico, riportato alla nostra  conoscenza dallo storico Davide Conti, è quello di un criminale di guerra italiano, Vincenzo Serrentino, premiato nel 2007 dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nell’ambito della cerimonia annuale di conferimento della medaglia come “martire delle foibe” e che causò un incidente diplomatico con la Croazia. Nella motivazione ufficiale viene presentato semplicemente come “ultimo prefetto di Zara italiana”. In realtà Serrentino arrivò a Zara nel ’19 come ufficiale del Regio esercito e fu all’inizio degli anni ’20 tra i principali dirigenti del Fascio di combattimento di Zara. In seguito divenne tenente colonnello delle Camicie nere e dopo l’occupazione della Jugoslavia da parte delle truppe dell’Asse fece parte del Tribunale speciale per la Dalmazia, l’organo di “giustizia” che serviva a dare una copertura giuridica alle rappresaglie contro il movimento partigiano. Per questo la Jugoslavia inserì il Serrentino, assieme agli altri suoi colleghi del Tribunale speciale, nella lista di criminali di guerra italiani presentata alle Nazioni Unite. Lui fu però uno dei rari criminali di guerra che gli jugoslavi riuscirono a catturare e portare davanti a un tribunale. Venne infatti giudicato a Sebenico e condannato a morte, sentenza che venne eseguita il 15 maggio del 1947. Cosa ricordiamo nella giornata del ricordo?

Dossier Dane sull’uso della foto (dal sito www.diecifebbraio.info):  https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMZ2FoNXVYdjNJemc/edit?usp=sharing

Dossier premiazioni:  https://docs.google.com/file/d/0B2Fig3cDXuVMM3VOdTBrVS1KekU/edit?usp=sharing

Alessandra Kersevan sulla verità storica delle foibe:

Fogli della memoria

Vi presentiamo il “foglio della memoria” di Damiano Salaroli della classe 3^ A In dell’Istituto Tecnico “P. Levi” di Mirano, che ha vinto il premio ANPI 2013 “Dalla consapevolezza emotiva alla consapevolezza critica”, consegnato allo studente dal Segretario della sezione di Mirano, Bruno Tonolo.

“Dicono che il sole splenda per tutti
Ma nel mondo di alcuni non splende affatto
Dicono che l’amore sia un flusso
Che troverà la sua strada
Alcuni pensano che la vita sia un sogno
Così fanno le cose peggiori.”
(Bob Marley)

Mentre ero nei due Campi, ho riflettuto molto sul presente e sul futuro; mi sono chiesto: cos’ha imparato l’uomo da questo orribile fatto? Mi permetto di dire Niente, niente a confronto di ciò che è successo. La storia ci insegna, o meglio, ci dovrebbe insegnare molte cose ma purtroppo l’essere umano è ottuso, è spento, privo di una propria cultura e tutto ciò mi fa paura. Questa guerra mi ha fatto capire che l’uomo pensa solo a se stesso, che pensa a riempirsi la propria pancia piuttosto che la mente, pensa a riempirsi il proprio portafogli piuttosto che la propria anima. Ricordare serve, ma il ricordo da solo non basta, deve essere accompagnato da ideali nuovi, totalmente contrari a quelli di una volta perché sono convinto che nella parola “dittatura” si sia aggiunto un nuovo significato, ora viviamo in una dittatura intellettuale nascosta, che piano piano si insidia dentro di noi. Le informazioni di parte, molto spesso false, la falsa libertà di stampa, l’ipocrisia di chi ci governa, ma soprattutto ci stanno e ci stiamo togliendo la libertà, quella libertà che è stata conquistata con il sangue dai nostri Partigiani e scritta nella Nostra Costituzione. Stiamo perdendo i veri valori, più le generazioni vanno avanti e più tutto diventa superficiale. E’ facile ricordare che gli ebrei non erano liberi di avere una propria identità, di vivere in una propria casa, di avere un proprio lavoro ma soprattutto non avevano la libertà di dire: “Sì, io ci sono!”. Noi non pensiamo che dobbiamo tenerci strette le nostre libertà, libertà che purtroppo si stanno perdendo. Ci basta chiedere un tetto, avere un bel telefono, guardare la partita di calcio alla domenica e andare due giorni al mare ma il resto ci può essere anche negato. Ognuno di noi dal Genocidio dovrebbe avere un occhio molto più critico, dovrebbe sapere arrabbiarsi e dire: “Sì, io ci sono!” perché la nostra fortuna più grande è questa, è poter pensare con la propria testa ed esprimere la propria opinione.

“Mi fa bene comunque illudermi
che la risposta sia un rifiuto vero
che lo sfogo della tolleranza prenda consistenza
e ridiventi un coro.”
(Giorgio Gaber)

Nuto Revelli

Nuto Revelli nasce a Cuneo nel 1919. Ufficiale degli alpini, visse la tragedia della campagna di Russia e della ritirata, documentandola nel diario “Mai tardi”. Salito in montagna dopo l’8 settembre, diresse una delle più attive formazioni partigiane del Cuneense: questa esperienza è riflessa nel volume “La guerra dei poveri”. Ha raccolto nel volume “La strada del Davai” le testimonianze orali di quaranta reduci della Cuneense e, nell’ “Ultimo fronte” le lettere di soldati caduti o dispersi nella seconda guerra mondiale. Nel 1977 scrisse “Il mondo dei vinti”, una raccolta di testimonianze orali la cui idea risale ai mesi della guerra partigiana: far parlare “quelli che non sapevano”, i “vinti”, i contadini e i montanari delle zone depresse del Cuneense, gli emarginati, i dimenticati di sempre. Storie di guerra, di lavoro, di emigrazione, storie vere del mondo contadino fotografato nella sua dura realtà quotidiana: pagine che costituiscono un atto di accusa per un genocidio silenzioso attuato nell’indifferenza di tanti e che costituiscono la preziosa documentazione di una civiltà e di una cultura ormai passata.

“Una società che abbandona al proprio destino le sacche di depressione e miseria, che soffoca le minoranze, è una società malata”

Nessuno ha voluto accompagnare i contadini nella Storia come protagonisti. Il “mondo dei vinti” è stato lasciato in disparte, utile serbatoio di soldati inconsapevoli, di manodopera strappata al suo ambiente naturale, di docili elettori. Nuto Revelli ha raccolto queste testimonianze per trasformare in una lezione per il presente (di consapevolezza critica, di autocoscienza) l’esperienza di “quelli che non sapevano”.
Nuto è morto a Cuneo il 5 febbraio 2004.

Un calcolo approssimativo dice che nell’estate 1944 operano nel Cuneese seimila partigiani. Ogni giorno i «Notiziari dell’attività ribellistica», compilati dal prefetto fascista e inviati al Ministero dell’Interno, al Quartier Generale, al Capo della Polizia, registrano decine di «colpi di mano», di azioni e sabotaggi compiuti dai «fuorilegge», dai «banditi», dai «ribelli». Ormai i fascisti si sentono assediati, chiusi in una morsa tremenda, e rispondono come sempre con le rappresaglie, con le torture, i massacri, gli incendi. I fascisti guardano ogni notizia, ogni fatto, con la lente di ingrandimento. Senza una massiccia presenza dei tedeschi si sentono perduti, impotenti.
I rastrellamenti dell’estate-autunno incidono di nuovo sul morale delle popolazioni. L’inverno 1944-45 si presenta durissimo. Nel cuore del’inverno le brigate partigiane che operano nelle valli, nelle immediate retrovie del fronte alpino, devono smistare verso le Langhe una parte delle loro forze.
Poi la primavera 1945, poi i giorni del 25 aprile, con le popolazioni protagoniste nella battaglia della Liberazione. II prezzo pagato dalla nostra gente, il prezzo visibile, è scritto sulle lapidi, sui cippi disseminati a centinaia nelle valli, in pianura, nelle Langhe. Sono duemila i nostri Caduti in combattimento, gli impiccati, i morti sotto le torture, i morti nei campi di sterminio e nei campi di prigionia tedeschi. Molti di questi Caduti sono contadini, anche se le lapidi e i cippi non lo dicono.” (dall’introduzione a “Il mondo dei vinti”)

I testimoni si dilungano nell’inventariare e descrivere i nascondigli dei «renitenti». Ma una cosa non la dicono, forse perché la ignorano, forse perché fingono di ignorarla. Non dicono che la sicurezza delle «tane» che ospitavano i «renitenti» era tutta e soltanto nella forza, nella presenza attiva dei partigiani. Senza la presenza attiva dei partigiani, i tedeschi e i fascisti avrebbero stroncato il fenomeno della renitenza nel giro di dieci giorni.
Tutti gli eccidi, tutte le rappresaglie, sono scolpiti nella mente dei testimoni. Salvi, Frezza, Ronza, Ferrari, Brachet, Pavan, Pocar, Languasco, Gagliardi, Rossi, sono ancora simbolo del terrore. Non per niente i testimoni, quando descrivono le imprese dei Salvi o dei Languasco, tremano, si emozionano. Raccontano, ed è come se rivivessero un brutto sogno, come se disegnassero un ex voto. Hanno paura a parlare dei fascisti e del fascismo, come se ne temessero il ritorno! Soltanto i congiunti dei partigiani, soltanto i congiunti dei fucilati e degli impiccati, quando raccontano vanno oltre l’episodio, e mi parlano senza mezze parole del fascismo di ieri e di oggi. Lorenzo Falco, ex partigiano, sopravvissuto ai campi di sterminio, non esita, mi dice: « Il fascismo di oggi è solo il risveglio della morte». (dall’introduzione a “Il mondo dei vinti”)

http://www.nutorevelli.org/biografia.aspx

La canzone “Pietà l’è morta” con parole di Nuto Revelli:

2 febbraio 1943: liberazione di Stalingrado

… Porre il problema dell’esistenza di Dio a Stalingrado, significa negarlo. Te lo devo dire, caro padre, e mi rincresce doppiamente. Tu mi hai educato, perché mi mancava la mamma, e mi hai sempre messo Dio davanti agli occhi e all’anima.
E doppiamente mi rincrescono queste mie parole, perché saranno le mie ultime, e non potrò mai più dirne altre capaci di cancellarle e di espiarle.
Tu sei pastore di anime, padre, e nell’ultima lettera si dice solo la verità, oppure ciò che si ritiene vero. Ho cercato Dio in ogni fossa, in ogni casa distrutta, in ogni angolo, in ogni mio camerata, quando stavo in trincea, e nel cielo. Dio non si è mostrato, quando il mio cuore gridava a lui. Le case erano distrutte, i camerati erano tanto eroici o così vigliacchi quanto me, sulla terra c’erano fame ed omicidio e dal cielo cadevano bombe e fuoco. Soltanto Dio non c’era. No, padre, non c’è nessun Dio. Lo scrivo di nuovo, e so che è una cosa terribile e per me irreparabile. E se proprio ci deve essere un Dio, è solo presso di voi, nei libri dei salmi e nelle preghiere, nelle pie parole dei preti e dei pastori, nel suono delle campane e nel profumo dell’incenso. Ma a Stalingrado, no. (Ultime lettere da Stalingrado, Einaudi)

Oggi, 2 febbraio, ricorre il  70° anniversario della liberazione di Stalingrado (oggi Volgograd) dopo una delle più lunghe e terribili battaglie della II guerra mondiale.
La battaglia, durò oltre sei mesi e costò la vita ad almeno 750.000 militari e 250.000 civili. La vittoria delle truppe sovietiche nella battaglia di Stalingrado fu di grande importanza politica e di rilievo internazionale e rinforzò la resistenza nei paesi europei occupati dai nazifascisti. Nel luglio 1942 i tedeschi occupano la metà del territorio dell’URSS in Europa, con 80 milioni di abitanti e vi massacrano 10 milioni di persone, 2,7 milioni dei quali ebrei (i russi riescono a salvarne un milione).  I russi morti nella II guerra mondiale furono 26 – 27 milioni (fra il 15 e il 20% della popolazione) e ad essi vanno aggiunti decine di milioni di invalidi, di orfani, di senzatetto.

Albert Einstein: “Senza la Russia, questi cani sanguinari tedeschi avrebbero raggiunto il loro obiettivo o, in ogni caso, ci sarebbero arrivati vicino. I nostri figli e noi abbiamo un grande debito di gratitudine verso il popolo russo che ha sopportato immense perdite e sofferenze”». Ernest Hemingway: “Ogni essere umano che ama la libertà deve più ringraziamenti all’Armata Rossa di quanti possa esprimerne in tutta una vita”.

Il pensiero “moderato” di Silvio Berlusconi

Berlusconi dorme durante la cerimonia del 27 gennaio 2013 a Milano

Da troppi anni siamo costretti a sopportare le uscite estemporanee di Silvio Berlusconi che esprime il meglio di sé quando, libero dalle  costrizioni imposte dai suoi consiglieri e portaborse, esterna compiaciuto il suo pensiero più autentico.
Quindi non stupisce l’ultima, farneticante esibizione, proprio nel “Giorno della Memoria”, espressa alla fine di una spettrale cerimonia in ricordo della deportazione degli ebrei italiani dalla stazione Centrale di Milano, Binario 21, riportata su tutti gli organi di informazione italiani e stranieri.
Fa molto riflettere, che un personaggio come questo, dato mille volte per spacciato sul piano della credibilità personale, possa riprendersi la scena del dibattito politico nazionale e dilagare, con indubbio successo personale,  dispensando “pillole di saggezza” ad un pubblico che non sembra mai sazio di immoralità e stupidità.
La sua scellerata rilettura della storia e il giudizio dato del ventennio fascista, a suo parere, ricalcano sentimenti ampiamente diffusi tra gli italiani, e per questo meritevoli di essere considerati espressione di una “coscienza moderata” del paese da contrapporre ai pericolosi progressisti.
A questo vergognoso modo di intendere il confronto politico, dobbiamo rispondere fermamente con rinnovata energia e determinazione mobilitando le coscienze di quanti credono nei valori della Resistenza affinché sviluppino un’azione incisiva sul piano dell’ informazione e diffusione dei principi democratici nati dalla Lotta di Liberazione e raccolti nella Carta Costituzionale.
Le prossime iniziative, programmate dall’ANPI di Mirano e del miranese per il 25 Aprile 2013, saranno improntate ancora una volta alla riflessione su come la Carta Costituzionale possa rappresentare, oggi, il punto di riferimento costante della nostra azione civile e sociale, in forte opposizione a quanti pensano di cambiare l’Italia con l’inquinamento e la corrosione dei principi democratici.

Il lager di Monigo (Treviso)

Podgornik Savo, studente universitario prigioniero nel lager di Monigo

Il 31 gennaio 2013  a Mogliano Veneto le classi terze della Scuola Media degli Istituti Comprensivi 1 e 2 incontreranno Francesca Meneghetti, autrice del libro “Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso (1942-1943)”. L’incontro si svolgerà presso la sede della scuola media ed è riservato ai soli alunni.  Questa iniziativa rievoca  il progetto angosciante che lo Stato italiano fascista aveva riservato alle popolazioni della Jugoslavia assoggettate al suo dominio: la deportazione di massa della popolazione civile.
Il sistema dei campi di concentramento fascisti, anche se non raggiunse il livello di orrore e sterminio nazista, non deve essere giudicato marginale e la dimenticanza di questa parte di storia accompagnata dalla distruzione di molte delle strutture che la simboleggiano, ci obbliga ad acquisire una maggiore consapevolezza del nostro passato attraverso una corretta divulgazione della memoria per trarne una lezione civile in questa nostra società che deve essere sempre più aperta alla convivenza tra i popoli. Solo in questo modo si potrà contribuire ad una più attenta conservazione di questi luoghi e a mantenere alto il monito contro ogni forma di prevaricazione dei diritti e delle libertà personali.

Erano in tanti a sapere. Eppure nessuno sapeva. Sono passati più di settant’anni, ma quel colossale buco nero nella memoria dei trevigiani sembra difficile da riempire. A colmare il vuoto e a riavvicinare la coscienza che è esistito, appena fuori le mura della città, una specie di lager dove si moriva e dove i bambini facevano la fame ci prova ancora una volta Francesca Meneghetti che con Istresco (Istituto per la storia della resistenza e della società contemporanea della Marca trevigiana) ha da poco pubblicato «Di là del muro. Il campo di concentramento di Treviso (1942- 43)». Leggi tutto “Il lager di Monigo (Treviso)”

Giornata della Memoria e responsabilità italiane

Quando, nel 1987, mi è stato chiesto di scrivere l’introduzione al primo studio universitario americano sulle leggi razziali in Italia (The Italians and the Holocaust di Susan Zuccotti, Nebraska University Press) ho ripreso l’argomento che ha sempre orientato la mia vita pubblica e che mi avrebbe portato a scrivere, presentare, sostenere fino alla approvazione della Camera e del Senato italiani, la Legge che istituisce questo giorno, “il Giorno della Memoria”. In Italia non può esserci un dopo Shoah perché la cultura del Paese non ha mai riconosciuto la sua parte di colpa. In Italia quel tremendo delitto è stato trasferito, come in un evento psicanalitico, alla responsabilità di altri, nazisti e tedeschi. L’Italia ha voluto vedere se stessa come un Paese vittima, dunque, non un Paese che, con il suo governo di allora, molti attivissimi partecipanti italiani, le sue leggi dettagliate e ignobili approvate all’unanimità e l’immenso aiuto del silenzio, è stata complice del delitto.
In quella introduzione ho scritto ciò che – alcuni anni dopo – avrei ripetuto nelle “considerazioni preliminari” che precedono i due articoli della Legge sul Giorno della Memoria: La Shoah è un delitto a cui l’Italia ha partecipato, e soltanto sapendolo e riconoscendolo può tentare di diminuire il senso della vergogna. L’Europa, pacificata al punto di diventare Unione Europea invece che teatro di ricorrenti massacri, è nata dai campi di sterminio, con i sentimenti, le immagini, le parole, l’indicibile esperienza che ci hanno lasciato cittadini fondatori di un mondo salvato, come Primo Levi ed Elie Wiesel. E uomini che hanno tentato la salvezza dei sommersi, come Raul Wallenberg e Giorgio Perlasca. (da un articolo di Furio Colombo del 27 gennaio 2013)